Sono un appassionato di film che hanno nella sfida fisica il perno delle vicende attorno alle quali si muovono i protagonisti. Ecco perchè appena uscito il DVD di The Fighter – titoto distribuito dalla Eagle Pictures che mi sono inspiegabilmente perso al cinema – ho fatto di tutto per riuscire a vederlo quanto prima. Nel piccolo paesino di Lowell la celebrità è Richard “Dicky” Eklund (un bravissimo quanto trasformista nel fisico Christian Bale, non a caso premio Oscar), un atleta entrato nella storia non tanto per aver conquistato un titolo Welter New England ma per aver mandato al tappeto il mitico Sugar Ray Leonard (perdendo comunque l’incontro), uno dei pugili più forti di tutti i tempi.
All’ombra del fratellastro, cresce Micky “Irish” Ward il quale, dopo un inizio promettente, inanella quattro sconfitte consecutive e quindi decide di prendersi una pausa dalla boxe lavorando come operaio addetto al rifacimento dell’asfalto stradale.
Inizia per lui un periodo davvero difficile: agli insuccessi nello sport si aggiungono i non semplici rapporti con la madre-manager e con il fratello-allenatore incapace di liberarsi dalla dipendenza dal crack. Ma malgrado tutto, dopo un periodo di apatia, Micky decide di iniziare nuovamente ad allenarsi supportato da un nuovo team con il quale prende le distanze dalla famiglia. E pian piano, con il lavoro e la disciplina, i successi e le soddisfazioni tornano. Ma con loro si rivede anche il fratello, ricco di consigli ma prima della alle volte decisamente non professionale nei propri atteggiamenti dentro e fuori la palestra.
E così, quasi improvvisamente, tutti i principali personaggi si trovano a un bivio: quale strada scegliere, quale percorso intraprendere per affrontare con orgoglio le nuove sfide e per ambire a quel successo per il quale ci si è tanto impegnati?
Un bel film quello di David O. Russel (inizialmente il progetto era stato assegnato all’Aronofsky di The Wrestler) che, ispirandosi a una storia vera, racconta, in definitiva, le difficoltà del trovare i giusti compromessi che ci permettano di gestire al meglio ogni diverso ambito della nostra vita (tra salite e discese).
Belli anche i contenuti extra che permettono di scoprire i “veri” personaggi e i loro alter ego nel film, oltre che scoprire particolari informazioni circa gli attori (una su tutte: Mark Wahlberg per essere quanto più credibile si è fatto costruire un ring nel quale si è allenato per quattro anni) e le scelte sul set.
recensione film
Soul Kitchen, la nuova commedia di Fatih Akin
Solo ora che ho intravisto la locandina dell’uscita italiana del film, trovo il tempo per spendere due parole su Soul Kitchen, divertente pellicola che ho potuto assaporare – in lingua originale con sottotitoli – nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Nella periferia di Amburgo, Zinos, ragazzo di origine greca, gestisce un locale senza molte pretese. Il cibo non è certo prelibato (brutalmente lo definirei junk food), ma gli avventori non si lamentano e anzi si presentano spesso numerosi.
Ma proprio quando tutto sembra essere ben avviato, quando pare che di scossoni ve ne siano stati già a sufficienza, ecco la vita torna prepotentemente a dire la propria e riserva gustose novità: Zinos in pochi giorni è costretto a rivedere tutte le proprie conquiste, dall’amore al lavoro, dalla salute al rapporto con fratello e amici.
Non voglio svelare nulla di più – se raccontassi troppo della trama poi che gusto ci sarebbe? – ma, senza entrare nei particolari, posso dire che il film è una spassosa commedia fatta di gag e di personaggi al limite del surreale che si relazionano tra loro in una società multietnica (alla Kebab for breakfast per intenderci).
La cosa che più mi ha colpito delle pellicola è stata lo stretto rapporto che lega la “crescita” del personaggio principale e al miglioramento delle abilità culinarie, come se, in qualche modo, la trasformarmazione da inserviente di un fastfood a ricercato chef comporti una maturazione anche dal vista umano-sentimentale-sociale capace di rendere Zinos più forte, sicuro e sereno.
Un film, quello di Fatih Akin (Leone d’argento – Gran premio della giuria), semplice, spiritoso (umorismo con retrogusto leggeremenre anglosassone, ritmi veloci e soundtrack accattivante), e, tanto per restare in cucina, leggero come un soufflé. Ideale per digerire il ritorno al lavoro dopo le festività natalizie.
La Woodstock di Ang Lee
Dopo il Watergate, la Guerra di secessione, Hulk e l’amore omosessuale tra due cowboy, Ang Lee torna a proporre un altro tema molto caro agli americani (e non solo): il concerto di Woodstock. Tratto dal libro di Elliot Tiber – Taking Woodstock. A True Story of a Riot, A Concert and a Life – la pellicola racconta la vita di Elliot, sgangherato pittore che, non riuscito a imporsi nella città, torna dai propri genitori – due ebrei fuggiti dall’est Europa – per aiutarli nella gestione di un malridotto motel in una sperduta cittadina immersa nei verdi pascoli.
Il film scorre leggero, tra gag e spunti più riflessivi, principalmente su due grandi fili conduttori: da una parte, il “conflitto” generazionale tra i genitori (e, in generale, gli abitanti del paesino) – gli spettatori di quanto stava succedendo sotto i loro occhi increduli – e i protagonisti veri e propri, ragazzi provenienti da tutta l’America con in tasca la delusione per una guerra mai compresa e sogni di libertà, musica, pace e armonia.
Dall’altra, ciò che accade allo stesso Elliot, all’inizio interessato alla megaconcerto rock per non far perdere ai genitori la loro ragione di vita ma che poi, con il passare del tempo, si rende conto (stupendosi) di aver contribuito a un evento storico nel quale i soldi sono solo una parte – e forse la più marginale – di quell’oceano di persone riunitasi per divertirsi insieme.
Il segreto per apprezzare al meglio il film, forse, sta nel dimenticare per un attimo il successo di Lee nel 2006, entrando nella sala in maniera spensierata, lasciandosi trascinare da questo che è una sorta di collage su come diverse persone abbiano vissuto – e quindi possono raccontare – Woodstock. Una pellicola che a dispetto del titolo, lascia la musica come sottofondo puntando a creare un arcobaleno di personaggi più o meno bizzarri (dalla guardia del corpo ai teatranti, dal promotore del concerto all’amico “schizzato” a causa del Vietnam di Elliot). Carino anche il montaggio che ci cala proprio “dentro” la scena, a volte suddividendo le schermo in più finestre come dei telefilm anni Settanta.
Valzer con Bashir (…la storia si ripete)
La mia mente associa in maniera pressoché automatica film di animazione a divertimento, spasso, buoni sentimenti, ilarità. E invece pochi giorni fa mi sono dovuto in parte ricredere vedendo una pellicola davvero singolare, che ho molto apprezzato. Si tratta di Valzer con Bashir, opera cartoonesca che racconta del massascro avvenuto nei primi anni Ottanta a Sabra e Chatila (e che inevitabilmente traccia una linea tra passato e presente in una zona, quella del Medio Oriente, ancora oggi martoriata da conflitti armati, odio e violenza). Il film, dell’israeliano Ari Folman, mi ha sin dalle prime battute ricordato Full Metal Jacket, solo in versione onirico-introspettiva nella quale l’attuale è più volte interrotto dai flash back. Il vero protagonista a ben vedere è però il ricordo. O meglio il non ricordo. Un uomo, sulla scia delle riflessioni/angosce di un amico di gioventù, cerca di scavare nel proprio passato accorgendosi quasi improvvisamente di avere delle zone d’ombra nella propria memoria, di sapere perfettamente di essere stato in una determinata zona per un determinato periodo di tempo, ma di non riuscire a delineare cosa gli sia successo in quel lasso di tempo, di cosa sia stato testimone, volontario o meno. E così risente vecchi compagni di avventura inseguendo i ricordi che mancano all’appello. Ma il cammino è impervio e c’è il rischio che nella foga di scavare a ritroso, non ci si renda conto che la verità che si brama, pur legata ad avvenimenti remoti, può avere ricadute anche sul presente, sul modo di essere e di porsi nei confronti della vita. Sempre ammesso e non concesso che una lettura dei propri trascorsi sia fattibile, sia la cruda verità e non una rappresentazione filtrata dall’istinto di soppravvivenza che cancella ciò che la mente non è bene ricordi. Un film riuscito non c’è che dire (a ripopra di ciò, la pellicola è già pluripremiata) capace di presentare l’orrore della morte e, di contro, la vitalità della giovinezza, con molto tatto, con una delicatezza che forse solo l’animazione consente. A riportare lo spettatore alla realtà però, a ricordare a tutti che non si tratta di una favola disneyna, le immagini non più frutto di elaborazioni digitali, vere, reali, delle ultime sequenze che ci invitano a non dimenticare. E a impegnarci perchè non si ripetano più tragedie analoghe.
Palermo Shooting
Già dal titolo si può facilmente intuire come Palermo Shooting sia un film sul tema della fotografia e sull’arte di raccontare il mondo per immagini. Non ho potuto quindi, guardando l’ultima fatica di Wenders, non pensare al bellissimo libro di Roland Barthes, La camera chiara, e a quello che lo studioso francese definisce come Spectrum, il bersaglio, l’oggetto della foto: il termine se da una parte richiama la parola spettacolo, dall’altra suggerisce anche “quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia […], la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti”. Il protagonista della pellicola è un fotografo abituato a manipolare la realtà che immortala con l’ausilio della sua macchinetta per renderla più gradevole ed efficace, come in una sorta di puzzle nel quale i vari pezzi risultano intercambiali ma la con un’unica esatta combinazione. Una sera però un incontro inaspettato quanto fortuito gli permette di imprimere nella pellicola ciò che per definizione risulta inafferrabile: la morte. Inizia così un turbamento emotivo e psicologico dove sogno e realtà si mescolano sino a confondersi, nel quale l’uomo si interroga sul significato della propria esistenza. A metà strada tra Il posto delle fragole e Il Settimo Sigillo, il film di Wenders scava nell’inconscio dello spettatore e attraverso sequenze oniriche, dialoghi stringati e un ritmo lento, quasi delle riflessioni a voce alta del protagonista della pellicola – che poi a ben vedere si può identificare con l’alter-ego del regista tedesco – alla ricerca di risposte alle questioni profonde con cui l’uomo (e l’artista in primis) si arrovella da sempre. Nel complesso il film riesce però a metà, diventando più una sorta di omaggio al potere insito nella raffigurazione del reale (fissa e in movimento) che una propria interpretazione originale circa il medium “immagine” o dei ragionamenti su “vita e amore” come scritto nella locandina dell’opera cinematografica.
Strizh, un “taglio di capelli” kazako
In occasione della serie di incontri dell’Asiatica Film Mediale in corso a Roma ho avuto modo di vedere il film di Abai Kublai, Strizh (Swift in inglese). La pellicola del regista kazako racconta le giornate di Ainur, una ragazza che tra mille difficoltà cresce scontrandosi giorno dopo giorno con problemi dovuti all’assenza di una famiglia unita e di amici che possano supportarla nel suo processo di crescita. E qui la mia fantasia ha colto la prima metafora: ho intravisto nella ragazza il riflesso della stessa Repubblica del Kazakistan, così fragile, impegnato nell’autocostruzione di sé stesso – ecco forse spiegato le tante imamgini di cantieri – ma al contempo spaesato, solo e alla continua ricerca di una propria definita indentità. La ragazza vive tra casa e scuola anche se spesso si ritrova per strada, seduta sulla panchina di un parco o in cima alla montagna per vedere da sopra la piccola cittadina nella quale abita, immersa nei propri pensieri, lontana dai litigi, dalle incomprensioni, dalle lacrime amare. E proprio quando le cose sembrano andare meglio, quando finalmente si varca quel luogo visto sempre come irraggiungibile (forse non a caso sferico come il mondo nel quale viviamo), se il sogno si trasforma nel giro di alcuni istanti da sogno a incubo, allora trovare la forza per continuare nonostante tutto e tutti risulta un’impresa più che ardua.
Un film quello di Kubai dalle atmosfere rarefatte, lontate, fredde, che rende bene l’idea di cosa possa voler dire vivere in una realtà tanto difficile, così lontana, povera ma al contempo ricca di contraddizioni.
Vicky Cristina Barcelona
Sono un fan di Woody Allen, del suo umorismo graffiante, della sua ironia caustica, dei suoi aforismi brillanti. Ultimamente però al cinema fatico a riconoscerlo. Forse è semplicemente maturato, più soddisfatto e fiducioso di sé e quindi meno “paranoico” nelle pellicole che lo vedono dietro la macchina da presa. O forse la lontananza dalla sua amata New York gli ha permesso di divincolarsi dal “suo” cinema per sperimentare altri modi di raccontare, sta di fatto che appena finita la visione di Vicky Cristina Barcelona, faticavo a pensare che il film fosse l’ultima fatica dallo stesso regista di Harry a pezzi o di Zelig. Insomma, il film con protagonisti Scarlett Johansson, Javier Bardem e Penelope Cruz non è brutto, ma forse sa un po’ troppo di spot pro-Catalogna (e pro-Fiat/Alfa Romeo), risultando vivace ma, se confrontato con il primo Allen, troppo leggerino. Per carità i momenti di satira non mancano. In particolare due temi del film mi sono piaciuti: da una parte lo sketch circa l’equilibrio di coppia da cercare (e trovare) al di fuori della coppia stessa, in una terza persona capace di diventare l’anello forte del legame in una relazione allargata ma finalmente stabile. E poi il fatto che, in definitiva, nonostante i triangoli amorosi, l’arte, il sole e l’estate, una volta finita la vacanza, alla fine poi torni tutto come prima. Tra l’altro a ben guardare in tutta la pellicola non c’è ombra di coppia “funzionante”: litigi, dubbi, gelosie, tradimenti, rimpianti, ricongiungimenti e allontamenti repentini, rappresentano la “normalità”. Proprio in ciò (e nel richiamo all’arte – nel caso specifico pittorica – come espressione del proprio io) credo risieda la firma di Woody: tra le righe riemerge infatti quel pessimismo cronico verso un rapporto di coppia duraturo che sin dai tempi di Io & Annie il regista di Brooklyn ha trasmesso non solo sullo schermo ma anche nella sua travagliata vita privata.
La banda Baader Meinhof
In occasione della Festa del Cinema di Roma ho potuto vedere in anteprima, pochi giorni prima dell’uscita nelle sale italiane (nella triplice versione in tedesco con sottotitoli in inglese con sottosottotitoli in italiano) il film Der Baader Meinhof komplex (La banda Baader Meinhof). La pellicola racconta la storia della nascita della RAF, un gruppo terroristico che a cavallo degli anni Settanta con le sue azioni scovolse la Germania Occidentale (sempre sul medesimo oggetto, quasi in contemporanea, è stato presentato anche il film Schattenwelt). Il regista Uli Edel narra le vicende di un gruppo di uomini e donne impegnati nel sensibilizzare, con i loro atti, l’opinione pubblica contro il neocolonialismo consumista made in Usa. Lo fa tramite un film che, anche in virtù della durata, risulta tutt’altro che leggero. Tuttavia, forse per evitare di prendere una posizione netta e dar luogo a polemiche, la sceneggiatura pecca un po’ nell’analisi della psiche dei vari componenti del gruppo: molta azione e tensione ma poco spazio ai conflitti interni a ognuno dei protagonisti che forse avrebbero permesso di capire più nel dettaglio da cosa nascesse il disprezzo e risentimento nei confronti dei militanti verso una società nella quale non si riconoscevano. D’altra parte, l’obiettivo di raccontare tutti i fatti accaduti nel decennio di attività della RAF risulta compito improbo e, in ultima analisi, alcune parti sembrano a mio giudizio “romanzate”, troppo lontane dall’ideale di guerriglia urbana e di azione di liberazione che invece immaginavo prima di entrare in sala. La parte che mi ha affascinato di più è stata quella relativa al rapporto tra i fondatori della RAF in regime di isolamento e le generazioni che a loro si ispiravano mettendo in atto una lotta terroristica ugualmenente provocatoria ma, almento da quanto emerge dal film, assai diversa nelle modalità di azione. Una pellicola coraggiosa che però non è riuscita ad entrare nella classifica dei miei film preferiti forse anche in virtù del fatto che la storia, nonostante i possibili parallelismi con le Brigate Rosse, mi è apparsa un lontata, incapace di coinvolgermi appieno.
Astropia, dall’Islanda con furore
Tento di descrivere la situazione nella quale sono stato involontario protagonista la scorsa domenica. Ore 17, Casa del Cinema di Roma. Riesco ad essere tra i “fortunati” che potranno assistere alla proiezione di Astropia. Età media, contro tutte le mie aspettative, sulla 50ina. Un signore dopo aver mostrato il suo disappunto per l’impossibilità da parte sua di tenere accanto a sé un posto occupato per un’amica non presente nell’edificio e che, con le entrate bloccate, non avrebbe potuto godersi lo spettacolo, lascia la sala spazientito. La signora accanto mi chiede se siano le 18.30 perchè lei in tv ha sentito che per l’ora solare è necessario spostare le lancette in avanti. Le rispondo che invece grazie al nuovo orario abbiamo dormito un’ora in più, domandandomi tra me e me che film si aspetti di vedere sul grande schermo. Se queste sono le premesse, si preannuncia un pomeriggio niente male. La pellicola per la quale sono lì è l’opera prima di un registra islandese e racconta la storia di una ragazza “molto pin-up” che, improvvisamente senza lavoro, trova occupazione in un negozio di fumetti/dvd/giochi vari. La cosa divertente è che le viene assegnato il reparto “giochi di ruolo” che non conosce per nulla. Il responsabile della rivendita la invita così a partecipare a una “sessione” per rendersi conto in prima persona di cosa sia un role playing. E così il film si sdoppia: la realtà diventa virtuale, fumetto e al contempo gioco di ruolo con la protagonista che assume i panni di una principessa in lotta contro orchi brutti e cattivi in pieno stile Signore degli Anelli. La pellicola – un sucessone in Islanda – corre via veloce e leggera tra varie gag alle quali la platea risponde con grasse (alle volte eccessivamente grasse) risate e citazioni comprese solo da pochi. Il film mi ricorda vagamente Hot Fuzz e Shaolin Soccer, altre due pellicole “demenziali”. Quando si accendono le luci in sala regna un misto tra stupore e incredulità. Arriva il regista, Gunner Bjorn Gudmunsson, e raccoglie un caloroso applauso rendendosi disponibile per rispondere alle domande e alle osservazioni del pubblico. Una delle prime è: “cos’è un nerd?” (ahia, allora forse la vena ironico-parodistica del film non è proprio così chiara….). Poi all’improvviso una gentile nonnina prende la parola per ringraziare il regista per averla aiutata a comprendere (finalmente, meglio tardi che mai!) i giochi dei nipoti: un tripudio da pelle d’oca e calde lacrime. Che pomeriggio indimenticabile.
Randy the Wrestler
Ho ancora negli occhi il Rourke versione Randy “the ram” Robison – capace di commuovermi – quando, leggendo la sua biografia, mi rendo conto che il personaggio portato da Mickey sullo schermo gli calza a pennello. Forse è proprio per questo che alla recente Mostra del Cinema di Venezia il film The Wrestler ha vinto come miglior pellicola e tanto ha entusiasmato Wim Wenders, presidente di giuria che nel momento della premiazione ha voluto a tutti costi sul palco Rourke (per una bizzarra regola nella Laguna lo stesso film non può vincere sia come miglior pellicola, sia come migliore interpretazione). Perchè in fondo Randy e Mickey, il protagonista della storia e il suo volto sulla scena si somigliano, realtà e finzione cinematografica si intrecciano (non “recitano” anche gli stuntman del wrestling o le ballerine di un night club?). D’altra parte Rourke è stato un pigile, è stato una star, ha conosciuto – per sua stessa ammissione – la via dell’autodistuizione e la sensazione di non rispetto verso sé stesso e la propria professione. Sì, l’interpretazione di Rourke mi ha davvero entusiasmato. Certo la regia di Darren Aronofsky ha saputo dare risalto al declino del protagonista ma il palco – come il ring – è stato tutto per Randy. Un wrestler reso umanissimo, che non può non fare tenerezza mentre russa nella sua roulotte, mentre si sistema l’apparecchio acustico, mentre cammina indossando dei vestiti rattoppatti con del nastro adesivo, mentre tenta di ricostruire rapporti sociali per non restare solo. Il racconto di una ex-divo incapace di vivere una vita “normale” e costretto a umilianti comparsate per sbarcare il lunario non è originalissima, ma la prova di Mickey Rourke è capace di trasmettere appieno la fragilità di un uomo che sul ring nonostante gli anni rimane sempre il più acclamato, ma che nella sfida contro la vita non vanta successi né può fare affidamento su persone in grado si sostenerlo come solo il suo pubblico delle sue arene sa fare. Un fim emozionante, davvero una bella sorpresa (da sottolinare anche la bella canzone scritta dall’amico Springsteen a Rourke proprio per la colonna sonora della pellicola).