Sonbahar, Autunno

Sempre per la rassegna di Locarno a Roma, lo scorso venerdì ho visto Sonbahar (Autunno), un film di Ozcan Alper. Il personaggio chiave del film – premio arte & essai CICAE – è Yusuf, un uomo che in virtù della sua lotta per la democrazia nel suo Paese, una volta rilasciato dopo un lungo periodo di prigionia torna nel suo paese natale. Ad attenderlo c’è la madre e un amico di infanzia, Tolto. I giovani della sua età, come del resto la sorella, hanno lasciato il piccolo villaggio per cercare maggiore fortuna altrove. Yusuf è malato è in un paese di ormai soli anziani rimane ancora ostaggio dei ricordi di quando era studente e credeva e lottava per la propria causa. Ora infatti è spento, quasi incace di reagire di fronte a una vita che al di fuori del carcere sempre passare velocissima. L’unico appiglio alla sua monotona vita è rappresentato da Elka, una giovane conosciuta una sera in un bar. Ma la solitudine e i traumi subiti non sono facili da superare e ormai Yusuf si sente vuoto, incapace di reagire, vittima della propria cronica tristezza.
Film dai bei paesaggi (incredibilmente si possono apprezzare sia le onde del mare che la neve dei monti), con pochi dialoghi che scorre – un po’ come alcune pellicole coreane – con una ricerca lentezza.

Sweeney Todd

Sono un fan di Tim Burton, del suo cinema lugubramente onirico dal retrogusto gotico decandente (mammamia che espressione mi è uscita!). La sua riproposizione sul grande schermo del musical Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street, non è tuttavia riuscita a convincermi appieno. Benjiamin Barker è un barbiere che, dopo anni di ingiusto esilio da Londra, torna nella sua terra carico di rabbia e bramoso di vendetta verso coloro che, in primis il giudice Turpin, hanno frantumato i suoi sogni rubandogli la gioia di una vita accanto alla moglie e alla neonata figlia. Torna e non è più lo stesso. O meglio, pur adottando il nome di Sweeney Todd, in virtù della sua ancora validissima abilità con le lame, riapre nel suo vecchio appartamento il proprio locale per la rasatura della barba, nella speranza di attirare a sé come clienti coloro che lo avevano condannato.
La storia insomma è un intrico a metà tra i Promessi Sposi e Il Conte di Montecristo che, nonostante le belle e divertenti musiche e le scenografie, non è stata in grado di trascinarmi, di coinvolgermi, sembrando più di una volta scontata. Manca forse lo spessore dei personaggi principali: il protagonista, ad esempio, è talmente accecato dalla propria sete di sangue che risulta privo di quel fascino che solitamente conquista lo spettatore qualora il cattivo sia molto introspettivo e ogni tanto vacilli nelle proprie certezze. E poi c’è il capitolo sgozzamenti. Credevo, dopo Kill Bill, di aver visto litri di sangue a sufficienza… ma se nella pellicola di Tarantino i fiotti purpurei erano un “omaggio” ai bmovies, in questa pellicola è presente un gusto per lo splatter a mio giudizio eccessivo che, oltrettutto troppo stride con le canzoncine (I feel you, Johanna…) e i puri sentimenti del giovane marinaio Anthony, l’alter-ego di Sweeney Todd (ogni volta è proprio così necessario soffermarsi sul modus operandi del carnefice?). Pare che diversi registi abbiano mostrato nel corso degli anni interesse verso il musical, da Alan Parker a Sam Mendes: la versione di Burton pur ricevendo molti riconoscimenti (2 golden globe e 1 oscar), non ha però scalato le posizioni dei film a me più cari nonostante musiche e scenografie (ah, caro vecchio Ed Wood…).