Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni. Ma non vedrai il regista dei tuoi sogni.

Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, ultimo film di Woody Allen, mi ha lasciato perplesso. Forse, come riflettevo alcuni giorni fa, dovrei entrare nell’ordine di idee che ripetere film come Zelig è impresa improba. Ma l’ultima pellicola di Allen non mi ha lasciato nulla: il retrogusto amaro della comicità caustica di Woody ha lasciato il posto, nell’ultimo film, a una storiella ricca di luoghi comuni, poco divertente e povera di colpi di scena.
Nonostante il cast di primo livello – Anthony Hopkins, Naomi Watts, Antonio Banderas, Freida Pinto – l’opera risulta un mix scombussolato di storie parallele che si sviluppano a partire dal tris d’assi amore, attrazione, relazione di coppia.
I personaggi non risultano sino in fondo credibili, di loro viene mostrata solo la parte più superficiale quasi fossero “puro istinto” e forse, anche per questo, la trama non è riuscita a coinvolgermi come invece altri lavori di Allen hanno fatto.
Il film mi ha lasciato talmente indifferente che, una volta uscito dalla sala cinematografica, ho addirittura pensato che uno dei protagonisti, lo scrittore incapace di ripetere il successo del suo esordio letterario, fosse in fondo l’ater-ego del regista. Peccato, avrei avuto proprio bisogno di iniziare l’anno gustandomi l’umorismo cinico del regista di Brooklyn.

Away we go, Sam Mandes racconta la sua American Life

Ho iniziato il mio personalissimo “anno cinematografico” con American Life (o meglio, Away we go), il nuovo film di Sam Mandes, il regista diventato famoso per il suo esordio, il quasi omonimo American Beauty, pellicola che adoro e non mi stanco mai di rivedere (Kevin Spacey for president!).
La storia raccontata è quella di Burt e Verona, due ragazzi sulla trentina che si trovano ad affrontare, da soli, la nascita del loro primo figlio. Raccolte le poche cose che posseggono, intraprendono un viaggio attraverso l’America – con visita anche in Canada – alla ricerca di un tetto ma anche del modello di nucleo famigliare al quale fare riferimento. Nonostante le aspettative però, il percorso si trasforma quasi subito in una serie di disavventure che sconfortano i ragazzi e che minano le loro (poche) certezze: ogni nuovo incontro per Burt e Verona anzichè rassicurarli sembra rendere di volta in volta più irreale la loro idealizzata versione di famiglia e di rapporto genitori figli. Appena arrivati ed è già tempo di ripartire senza mai perdere però la fiducia nel legame straordinario che lega i due protagonisti.
Un film delicato, capace con la sua semplicità di commuovere (un po’ alla Juno tanto per fare un paragone), la storia di due ragazzi che, armati di sogni e buone intenzioni, viaggiano alla ricerca di prove concrete circa il loro progetto di famiglia. Il momento più tenero è, a mio modo di vedere, quando i due, nel giardino del fratello di lui, su uno di quei tappeti elastici che i bambini utilizzano per divertirsi saltando, recitano una serie di promesse, una sorta di “matrimio” ateo, una cerimonia intima che sancisce una volta di più il loro essere coppia. Regia, musiche e fotografia buone, sceneggiatura mai banale, American life è uno di quei film senza alcuna particolare pretesa che riesce a strappare un sorriso e una lacrima insieme. Consigliato per ritrovare il buon umore.

Con Donna allo specchio, Tiziano torna a Milano

Lo scorso giovedì 9 dicembre ho avuto il piacere e l’onore di partecipare a un interessantissimo evento. L’occasione era quella della mostra – promossa da Eni Cultura e Comune di Milano – che consente di ammirare, nella sala Alessi di Palazzo Marino (sino al prossimo 6 gennaio), Donna allo specchio, una delle più belle tele firmate Tiziano. Il dipinto, datato 1515, arriva dal Louvre, museo nel quale la fanciulla rappresentata si trova accanto alla più nota “rivale”, in enigmatica bellezza, Gioconda.

Il quadro è circondato da un alone di mistero: non avendo informazioni circa commissioni e primi acquirenti, ed essendoci altre due copie del dipinto (una a Barcellona, una a Praga), l’opera è considerata solitamente un cosiddetto “quadro di genere”, lontana cioè dalla pittura religiosa, mitologica o storica. Altri considerano Donna allo specchio il ritratto di un’amante dell’artista o l’allegoria della Vanità. Dopo aver osservato con cura il quadro, nonostante non sia di certo un esperto, non mi sento di escludere del tutto l’ultima  ipotesi:  la ragazza, immersa nell’autocontemplazione sembra sospesa tra i due specchi: uno, quello convesso, tipicamente utilizzato dai “barbieri”, nel quale si intravede il riflesso di una finestra, e l’altro, rettangolare, nel quale la fanciulla osserva la propria acconciatura. Che rappresentino l’uno il passato e l’altro il futuro, il suo essere al contempo ragazza e promessa sposa? Difficile dirlo. Il particolare della mano sull’ampolla pare però suggerire il desiderio della fanciulla di restare immobile, di resistere, in qualche modo, al destino effimero della bellezza terrena.

Detto della mostra e di come sia un appuntamento da non perdere (a due passi dalla corso dello shopping e per giunta ad ingresso libero), molto belle sono anche le sue molteplici “diramazioni” online.

Donna allo specchio è infatti anche…

– un sito che ospita i contenuti della mostra, dalle ampie sezioni informative ai live streaming dei diversi eventi previsti durante l’esposizione;

– un’applicazione per iPhone/iPad che offre la possibilità di scattare una fotografia, “specchiarla” su diverse superfici
e poi di condividerla su Facebook;

– un minisite, Tiziano a Milano, attraverso il quale contribuire alla costruzione di una gallery che racconta una Milano… riflessa;

– una pagina e un’applicazione Facebook che consente di offrire il proprio volto al quadro di Tiziano;

– un profilo Twitter;

– un canale YouTube nel quale gustarsi altro materiale multimediale.

Non resta che immergersi appieno in ogni singola opportunità legata alla mostra-evento, buon divertimento!
mostra-evento, buon divertimento!

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Il segreto dei suoi occhi: mille passati, nessun futuro

Il segreto dei suoi occhi è il film che, a sorpresa, è riuscito ad aggiudicarsi la statuetta di miglior pellicola straniera agli Oscar 2010. Girata tra Argentina e Spagna l’opera segna il ritorno nei cinema di Juan José Campanella che, prendendo spunto dall’omonimo libro di Eduardo Sacheri, racconta le vite di un gruppo di persone tra loro accumunate dall’essere entrati in contatto – chi direttamente, chi indirettamente – con il brutale omicidio di una giovane donna.
A ben vedere però i veri protagonisti del film sono da un lato le passioni, dall’altro gli occhi. Le prime governano il nostro agire, sono pulsioni che ci trascinano e che non possiamo costringere in un angolo, fonte di entusiasmo, di bramosia, di dolore e quindi, in sintesi, sinonimo di vita.
I secondi, invece, non rappresentano solo lo “strumento” con il quale noi guardiamo il mondo ma sono lo specchio di come il mondo ci vede, “parlano” di noi ai nostri interlocutori che tramite i nostri occhi riescono a farsi un’idea della nostra indole e del nostro stato d’animo.
Il film diventa allora una sorta di “parata” di sguardi: rabbia, delusione, malinconia, rassegnazione, paura, desiderio, sofferenza, curiosità, stupore sino agli occhi spenti della morte, la pellicola mostra le diverse facce dei personaggi in un intrico di occhi che rapprensentano un arcobaleno di stati d’animo differenti.
Il segreto dei suoi occhi – a metà strada tra drammatico e thriller – è un film forse dal ritmo a tratti un po’ lento ma comunque di piacevole visione, con attori bravi a interpretare i ruoli loro assegnati, una regia essenziale e un filo narrativo via via sempre meno cupo.

Armando Testa, il design(er) delle idee

La retrospettiva su Armando Testa al Padiglione di Arte Contemporanea celebra il maestro “povero ma moderno” raccontando tramite stampe, oggetti, bozzetti e disegni la creatività e l’ironia della fantasia di colui che ha saputo cambiare il volto della pubblicità italiana.
Testa è infatti stato l’artefice di una rivoluzione partita dal basso, dai due emisferi della curiosità da un lato e della semplicità dall’altro, dal desiderio di sperimentare, di giocare con le immagini riuscendo a coniugare sperimentazioni artistiche e marketing, impatto espressivo e immediatezza.
Basta pensare all’astrazione della sfera e della semisfera di Punt e Mes o ai personaggi conici di Paulista, Caballero Misterioso e Carmecita, immagini capaci di vivere su manifesti come in televisione, trasformatisi da marchi in vere propri icone.
Ma la rassegna consente anche di scoprire Armando Testa in una dimensione più intima. Quella delle fotografie a spaghetti, prosciutto, verdure, scatti realizzati quasi per dare un nuovo senso al cibo oggetto delle “fredde” campagne pubblicitarie. Quella dei disegni, degli appunti e degli schizzi che fuggono alla riproducibilità dei messaggi visivi dell’advertising. Quella dei bozzetti per le campagne pubblicitarie orientate al sociale, tratti di pura inventiva realizzata a mano.
A fare da cornice alla mostra da non perdere il documentario con la regia di Pappi Corsicato dedicato ad Armando Testa, vincitore del premio della critica al Festival di Venezia 2009, una carrellata di battute, racconti, testimonzianze per scorrere l’attività di un uomo che partendo da apprendista compositore in una tipografia è diventato un poliedrico artista di fama internazionale.

Roy Lichtenstein e le sue colorate riflessioni sull’arte

La mostra Roy Lichtenstein – Meditation on Art (sino al 30 maggio alla Triennale di Milano) mi è piaciuta davvero molto. Perchè se prima conoscevo Roy Lichtenstein per le sue immagini tratte dal mondo dei fumetti, ora posso valutare meglio il percorso dell’artista di New York, inquadrandolo il suo sviluppo assolutamente personale di quel filone della Pop Art che Lichtenstein rappresenta con Andy Warhol e Jasper Johns. Il lavoro di Lichtenstein si può, in estrema sintesi, suddividere in due grandi filoni: da una parte l’artista mette in atto un processo di “copia” – da immagini tratte da riviste a quelle di dipinti di altri autori – che, in base a una propria reinterpretazione personale, porta il pittore a trasformare la riproduzione in originale. Dall’altra, con ironia, Lichtenstein attiva una semplificazione estrema del reale che lo circonda trasformando il quotidiano in immagini bidimensionali che richiamano la stampa topografica.
Tra le tante opere esposte (non solo quadri ma anche alcune sculture in bronzo), i dipinti che mi hanno affascinato di più sono le reinterpretazioni del movimento surrealista, donne dalle forme liquide sintetizzate da labbra carnose, biondi capelli e occhi azzurri che richiamano i quadri di Dalì. Anche le riletture di Matisse, Picasso e Monet sono davvero particolari, allo stesso tempo omaggi artistici e tavole velate di sarcasmo. Molto divertenti il dipinto della serie “Imperfect Painting”, un’astrazione geometrica capace di otrepassare il confini rigidi della tela, e “Brushstroke” opera nella quale Lichtenstein dipinge una pennellata, giocando con l’arte e con il pubblico (come aveva in realtà inziato a fare già nel 1962 con “Golf Ball”, il ritratto di una pallina da golf estrapolata da qualsiasi contesto e proposta come puro segno grafico). Da non tralasciare, nella visita alla mostra, la saletta dedicata alle videointerviste che, montate in un filmato di poco più di trenta minuti, regalano una panoramica sulla vita di Lichtenstein tramite le parole delle stesso artista. Chiudo con una citazione di Lichtenstein che ben riassume a sua vena artistica: Art doesn’t transform. It just plain forms.

Kontroversen: a Vienna tra fotografia, etica e giustizia

In uno dei miei ultimi viaggi ho potuto scoprire un angolo di Vienna – nella parte a sud rispetto al centro città – nel quale si trova un complesso di case costruite dall’architetto Friedensreich Hundertwasser che mi ha in qualche modo riportato alla mente, almeno dall’esterno,  le stupende abitazioni realizzate da Gaudì a Barcellona.
Una di queste è oggi un museo – il Kunst Haus Wien – con un graziosissimo ristorantino all’aperto in piccolo giardino nel quale consumare, nel pieno relax, specialità viennesi.
Sino al 20 giugno 2010, per chi si trovasse a passare dalle parti di Radetzkyplatz, consiglio vivamente la mostra Controversies – The Law, Ethics and Photograhpy, un intenso percorso fotografico attraverso 90 scatti grazie ai quali lasciarsi trosportare dall’intensità di alcune delle opere di fotografi quali, solo per citarne alcuni, Man Ray, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Oliviero Toscani e Robert Mapplethorpe.
Nel silenzio delle sale si può contemplare la natura controversa di alcune immagini e toccare con mano il labile confine tra libertà individuale, manipolazione, censura.
Le immagini fotografiche sin dal loro “esordio” hanno scatenato – e ancora scatenano – accesi dibattiti perchè alle volte solleticano le sensibili corde della moralità.
Lungi dal voler imporre dei limiti alla libertà di espressione, la mostra però solleva degli interrogativi stimolando delle risposte non sempre così semplici da dare: fino a dove si possono spingere i pubblicitari nelle loro provocazioni? Sino a che punto un fotogiornalista può documentare la sofferenza rimanendo una sorta di spettatore invisibile? Come si può preservare il rispetto e la dignità della persona immortalata? Esistono dei “parametri” in base ai quali stabilire lo status artistico di un fotografo?

Una rassegna davvero bella, consigliatissima a tutti, che mi ha fatto apprezzare una volta di più il fascino delle immagini fisse, il loro potere, la loro audacia, la perfetta sintesi che rappresentano.

Departures: la vita come un viaggio, i viaggi della vita

Spesso mi sono trovato a riflettere sul rapporto che lega la vita al viaggio. Ma mai come dopo aver visto Departures – opera giapponese vincitrice del premio Oscar come migliore film straniero 2009 – ne ho avuto conferma. La pellicola, come anticipa il titolo, racconta le continue “partenze” di Daigo, giovane musicista che improvvisamente, per le difficoltà economiche legate all’orchestra nella quale suona come vioncellista, costretto a rimettersi in gioco tralasciando le proprie aspirazioni di artista.
Senza lavoro decide di lasciare la città e tornare al paese di origine nella vecchia casa di campagna nella quale è cresciuto. Partire per Daigo non significa però solo seguire un futuro di stabilità emotiva quanto economica (sofferta la sequenza della vendita dello strumento musicale a tutti gli effetti ormai parte del suo essere), ma anche scontrarsi con il proprio passato.
La casa è infatti un luogo pregno di ricordi legati all’infanzia e alla vita con i genitori. E a quella delusione mista a rabbia per non essere potuto crescere con il padre che un giorno abbandonò la famiglia senza più dar sue notizie. Abituarsi ai tempi del paesino non è certo semplice e anche dal punto di vista lavorativo, le possibilità non sono poi molte. Scorrendo gli annunci Daigo ne legge uno riferito a una “agenzia di viaggi” che poi scopre essere un luogo di lavoro decisamente particolare. Mi fermo, non voglio dire di più sulla trama, rovinerei la visione a chi ancora non ha avuto modo di gustare questo delicato film giapponese ricco di paesaggi, simbolismi e richiami continui alla dimensione del viaggio: dalle note musicali alla morte, tutto in questo film richiama l’idea di quello spostamento continuo, di quel tragitto che ognuno di noi ogni giorno – in maniera consapevole o meno – è chiamato a compiere. L’idea del viaggio infatti non è solo legata a luoghi fisici diversi, ma a stati d’animo, affetti, stagioni, sentimenti, incontri, che ci guidano e in base i quali ogni giorno ricalibriamo le nostre “bussole”. L’aspetto affascinante del film è però anche quello che, con semplicità, vengono raccontate tante storie tra loro legate da un comune destino che avvicina, allontana, per poi riavvicinare, i vari personaggi, in un susseguirsi di emozioni e di sviluppi imprevisti. Toccante e leggero  come una nota del violoncello che riporta la locandina.

Alice in Wonderland, le mie opinioni

Con Alice in Wonderland Tim Burton ha voluto sfidare se stesso. Il suo intento infatti era quello di rispettare l’essenza romanzo di Lewis Carroll portando sul grande schermo lo spirito e l’immaginario surreale del testo. Impresa non da poco. Appena uscito mi sono precipitato al cinema per vedere la nuova versione Disney ma ne sono rimasto in parte deluso. Così mi sono rifugiato in libreria e ho acquistato l’ormai classico di Carrol nella sua versione completa Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio. A termine della lettura però la situazione non è affatto migliorata, anzi forse il mio scetticismo nei confronti della pellicola è aumentato. Per carità, nulla da dire sulla regia, la cosa che poco mi convince è la sceneggiatura. Se infatti l’obiettivo era quello di allontanarsi dalle versioni precedenti creando una versione di impatto – per usare le parole di Burton stesso – beh, a mio parere la cosa non è riuscita appieno. Il film non è stato in grado di calarmi completamente nella dimensione del sogno, non è stato in grado di trascinarmi nel mondo fantastico ricco di personaggi e ambientazioni diverse che invece si è materializzato nella mia mente leggendo l’omonimo libro. Nonostante apprezzi Depp, ad esempio, il ruolo del personaggio del Cappellaio Matto, seppur ben caratterizzato, mi è parso troppo centrale rispetto alla storia narrata dal testo nel quale la sua presenza risulta marginale (leggendo il libro il Cappellaio non mi è sembrato per nulla coraggioso). Tra l’altro, il personaggio più “positivo” del libro, quello di cui Alice si ricorderà anche tornata alla realtà, è il Cavaliere Bianco alter ego di Caroll. Il film presenta dei nuovi personaggi rispetto alla versione a cartoni animati Disney ma nonostante tutto, a parte l’età della protagonista (in questo senso si potrebbe forse parlare di sequel del classico Alice), non si distacca poi molto dai precedenti remake. I continui cambiamenti di paesaggio tipici della partita a scacchi di Attraverso lo Specchio non ci sono, come non vengono richiamate tutta quella serie di operazioni eseguite al contrario (prima distribuire le fette di torta e poi tagliare il dolce) che rendono il mondo al di là dello specchio quanto mai singolare. Mancano personaggi quali Humpty Dumpty (l’uovo in bilico sul muro), la Finta Tartaruga, la Duchessa che avrebbero potuto rendere la pellicola più originale. Insomma, in ultima analisi, forse si è resa la storia un po’ troppo epica con il riferimento al Grafobrancio e al Ciciarampa (scherzando ho scritto su twitter che a tratti mi è sembrato di vedere “Il signore degli Anelli”), perchè poi, a ben notare, nel testo il Pedone Bianco Alice “sconfigge” entrambe le regine diventando, in undici mosse, loro pari.
Anche il personaggio della protagonista a dirla tutta non mi ha esaltato: certo Alice nel libro è cortese, educata, con un notevole istinto pratico ma nonostante la tenera età dimostra comunque un caratterino niente male capace di ribattere colpo su colpo agli strambi figuri che incontra nel corso della sua avventura. Ovviamente, almeno nella versione italiana, si perde anche il linguaggio poetico ricco di parodie e paradossi che la versione in lingua originale offre al lettore. Concludo sottolineando come anche il fatto che per risparmiare sui costi la produzione abbia deciso di convertire in tridimensionale scene girate con la tecnica tradizionale non mi abbia particolarmente entusiasmato.
Insomma se l’idea di fondo era quella di trasformare in immagini un testo di Caroll l’opera di Burton non mi sembra, diciamo così, quella definitiva. Per carità, resta comunque un film di piacevole visione ma dal regista di Ed Wood e Big Fish (dimenticando il suo remake de Il pianeta delle Scimmie), mi sarei aspettato qualcosa di più spettacolare.

Rifugiandosi tra le nuvole

Jason Reitman, il regista di origini cecoslovacche dopo l’acclamato Juno – storia di un’adolescente rimasta incinta – torna sugli schermi con Tra le nuvole, una nuova spassosa, sarcastica e intelligente commedia.
Protagonista della pellicola Ryan Bingham – interpretato da George Clooney – brillante tagliatore di teste che, sullo sfondo di un’America più che mai colpita dalla crisi, macina miglia su miglia in giro per gli States con l’ingrato compito di comunicare a parte del personale di essere ormai in eccesso.
Con un metodo freddo e razionale Ryan conduce il proprio lavoro come la propria esistenza senza desiderare affetto, legami e qualsiasi altro aspetto che possa “appensantire” lo zaino che – come lui stesso recita quando viene chiamato a raccontare la propria way of life – ognuno di noi porta sulle spalle. Un’esistenza solitaria e profondamente egoistica della quale però, visto il continuo “stare sulle nuvole”, lontano da tutto e tutti, non si rimprovera nulla.
Ma il destino ama rimescolare le carte, anche ad alta quota. E così, proprio quando anche l’azienda di Ryan in nome del risparmio prospetta un ridimensionamento del contatto umano che da sempre caratterizza il lavoro di chi come lui è pagato per licenziare, ecco che incontra Alex, un’affascinante donna nella quale si riconosce e che porterà a tal punto scompiglio da far barcollare le certezze di una vita tra aeroporti, alberghi e automobili in affitto.
Un film – tratto dall’omonimo romanzo di Walter Kim – che ai miei occhi si è rivelato una piacevole sorpresa, fortunatamente lontano anni luce da alcune banali pellicole sul difficile equilibrio tra amore, lavoro, successo, con un cast di attori convincenti e perfettamente calati nella parte, con una sceneggiatura mai noiosa e, nonostante il retrogusto amaro, a volte anche ricca di momenti ironici (non a caso il film ha raccolto sei candidature al premio Oscar). Carina anche la colonna sonora (e, in particolare, la traccia Help Yourself di Sad Brad Smith) e lo spazio che raccoglie i messaggi di Twitter legati alla pellicola.