La favola del re balbuziente

Dopo il trionfo (in parte inaspettato) agli Oscar, non ho potuto esimermi dal vedere il tanto acclamato Il discorso del re. E sinceramene non mi ha colpito particolarmente. Un film carino, a tratti simpatico, ben recitato dall’attore protagonista Colin Firth (che infatti si è aggiudicato la statuetta come migliore attore).
Ma non mi ha lasciato molto alla fine: la sceneggiatura, molto semplice, non è riuscita a trascinarmi e, a tratti, mi è parsa lenta e scontata. L’idea di un sovrano “imperfetto”come ognuno dei propri sudditi (e in questo molto “democratico”, alcuni osservatori suggeriscono che anche per questo motivo, sull’onda di quanto sta accadendo nel Nord Africa, forse si è voluto premiare il film per regalare al mondo un messaggio di speranza) è stata sviluppata, a mio modo di vedere, solo in maniera superficiale e per nulla corale.

Alcuni giorni dopo aver visto il film al cinema mi è tornato alla mente un altro film inglese, The Queen – La Regina datato 2006, che mi pare avere più di un’analogia con la pellicola di Tom Hopper.

Pur presentando dei monarchi praticamente agli antipodi i due film sembrano in qualche modo legati: se ne Il discorso del re la sofferenza è causata da una forma debilitante di balbuzie, in The Queen, la difficoltà di parola è dovuta alla prematura morte di un parente scomodo probabilmente mai accettato in famiglia sino in fondo. In entrambi i casi il popolo è allo stesso tempo un “test” da superare e uno “specchio” in base al quale valutare il proprio indice di gradimento. Ma mentre il logopedista Logue riesce nell’intento di far “maturare” il futuro Re Giorgio VI d’Inghilterra, il povero Tony Blair convincerà con estrema fatica la regina Elisabetta II a esprimere pubblicamente il cordoglio per la morte della Principessa Diana.

Insomma se entrambe le pellicole si focalizzano sull’istituzionalità del conservatorismo regale, paradossalmente esce dal confronto vincitore il monarca più lontano dai nostri giorni.

Concludendo: il film è piacevole ma leggerino e a mio modo di vedere complessivamente non all’altezza dei “rivali” alla corsa dell’Oscar The Social Network, Inception e Il Cigno Nero. Nonostante la vittoria finale.

Tornassi indietro mi piacerebbe vedere il film in lingua originale per apprezzare ancora di più gli attori protagonisti e le loro inflessioni.

Departures: la vita come un viaggio, i viaggi della vita

Spesso mi sono trovato a riflettere sul rapporto che lega la vita al viaggio. Ma mai come dopo aver visto Departures – opera giapponese vincitrice del premio Oscar come migliore film straniero 2009 – ne ho avuto conferma. La pellicola, come anticipa il titolo, racconta le continue “partenze” di Daigo, giovane musicista che improvvisamente, per le difficoltà economiche legate all’orchestra nella quale suona come vioncellista, costretto a rimettersi in gioco tralasciando le proprie aspirazioni di artista.
Senza lavoro decide di lasciare la città e tornare al paese di origine nella vecchia casa di campagna nella quale è cresciuto. Partire per Daigo non significa però solo seguire un futuro di stabilità emotiva quanto economica (sofferta la sequenza della vendita dello strumento musicale a tutti gli effetti ormai parte del suo essere), ma anche scontrarsi con il proprio passato.
La casa è infatti un luogo pregno di ricordi legati all’infanzia e alla vita con i genitori. E a quella delusione mista a rabbia per non essere potuto crescere con il padre che un giorno abbandonò la famiglia senza più dar sue notizie. Abituarsi ai tempi del paesino non è certo semplice e anche dal punto di vista lavorativo, le possibilità non sono poi molte. Scorrendo gli annunci Daigo ne legge uno riferito a una “agenzia di viaggi” che poi scopre essere un luogo di lavoro decisamente particolare. Mi fermo, non voglio dire di più sulla trama, rovinerei la visione a chi ancora non ha avuto modo di gustare questo delicato film giapponese ricco di paesaggi, simbolismi e richiami continui alla dimensione del viaggio: dalle note musicali alla morte, tutto in questo film richiama l’idea di quello spostamento continuo, di quel tragitto che ognuno di noi ogni giorno – in maniera consapevole o meno – è chiamato a compiere. L’idea del viaggio infatti non è solo legata a luoghi fisici diversi, ma a stati d’animo, affetti, stagioni, sentimenti, incontri, che ci guidano e in base i quali ogni giorno ricalibriamo le nostre “bussole”. L’aspetto affascinante del film è però anche quello che, con semplicità, vengono raccontate tante storie tra loro legate da un comune destino che avvicina, allontana, per poi riavvicinare, i vari personaggi, in un susseguirsi di emozioni e di sviluppi imprevisti. Toccante e leggero  come una nota del violoncello che riporta la locandina.

Rifugiandosi tra le nuvole

Jason Reitman, il regista di origini cecoslovacche dopo l’acclamato Juno – storia di un’adolescente rimasta incinta – torna sugli schermi con Tra le nuvole, una nuova spassosa, sarcastica e intelligente commedia.
Protagonista della pellicola Ryan Bingham – interpretato da George Clooney – brillante tagliatore di teste che, sullo sfondo di un’America più che mai colpita dalla crisi, macina miglia su miglia in giro per gli States con l’ingrato compito di comunicare a parte del personale di essere ormai in eccesso.
Con un metodo freddo e razionale Ryan conduce il proprio lavoro come la propria esistenza senza desiderare affetto, legami e qualsiasi altro aspetto che possa “appensantire” lo zaino che – come lui stesso recita quando viene chiamato a raccontare la propria way of life – ognuno di noi porta sulle spalle. Un’esistenza solitaria e profondamente egoistica della quale però, visto il continuo “stare sulle nuvole”, lontano da tutto e tutti, non si rimprovera nulla.
Ma il destino ama rimescolare le carte, anche ad alta quota. E così, proprio quando anche l’azienda di Ryan in nome del risparmio prospetta un ridimensionamento del contatto umano che da sempre caratterizza il lavoro di chi come lui è pagato per licenziare, ecco che incontra Alex, un’affascinante donna nella quale si riconosce e che porterà a tal punto scompiglio da far barcollare le certezze di una vita tra aeroporti, alberghi e automobili in affitto.
Un film – tratto dall’omonimo romanzo di Walter Kim – che ai miei occhi si è rivelato una piacevole sorpresa, fortunatamente lontano anni luce da alcune banali pellicole sul difficile equilibrio tra amore, lavoro, successo, con un cast di attori convincenti e perfettamente calati nella parte, con una sceneggiatura mai noiosa e, nonostante il retrogusto amaro, a volte anche ricca di momenti ironici (non a caso il film ha raccolto sei candidature al premio Oscar). Carina anche la colonna sonora (e, in particolare, la traccia Help Yourself di Sad Brad Smith) e lo spazio che raccoglie i messaggi di Twitter legati alla pellicola.