Bruno Munari all’Ara Pacis

La mia visita di ieri alla mostra di Bruno Munari alla Ara Pacis è stata davvero una sorpresa. Ho potuto ammirare le opere e l’ironia di un personaggio davvero singolare, capace di sperimentare giocando con l’arte e la tecnica. Una delle sue massime recita: “Complicare è facile, semplificare è difficile”. Forse proprio con questo spirito Munari tramite astrazioni nelle prime opere del percorso delle mostra non suggerisce una forma, uno sfondo, un davanti e un dietro, ma solo l’assoluta bidimensionalità. Poi dai disegni si passa alle sculture che permettono di “vedere l’aria”: tubi metallici che ruotano e permettono di guararci all’interno. E avanti con sperimentazioni, giochi tra linee, superfici e volumi, con oggetti che come per magia passano dalle due alle tre dimensioni. E ancora film senza storia, senza narrazione ma solo con luce, ritmo e movimento, “libri illeggibili” nei quali le parole spariscono per dare carta bianca (o meglio colorata) all’immaginazioni di chi vorrà leggervi una storia, maschere che ricordano immediatamente volti umani, rametti di legno carichi di “tensione”, forchette che comunicano a gesti, mattonelle che ingannano la vista, reperti dal secondo millennio, strane scritture, xerografie, strane sveglie, diapositive e molto altro. Un lungo – quanto intenso – viaggio tra design, stile, innovazione, immaginazione, metodo, rigore e creatività.

Astropia, dall’Islanda con furore

Tento di descrivere la situazione nella quale sono stato involontario protagonista la scorsa domenica. Ore 17, Casa del Cinema di Roma. Riesco ad essere tra i “fortunati” che potranno assistere alla proiezione di Astropia. Età media, contro tutte le mie aspettative, sulla 50ina. Un signore dopo aver mostrato il suo disappunto per l’impossibilità da parte sua di tenere accanto a sé un posto occupato per un’amica non presente nell’edificio e che, con le entrate bloccate, non avrebbe potuto godersi lo spettacolo, lascia la sala spazientito. La signora accanto mi chiede se siano le 18.30 perchè lei in tv ha sentito che per l’ora solare è necessario spostare le lancette in avanti. Le rispondo che invece grazie al nuovo orario abbiamo dormito un’ora in più, domandandomi tra me e me che film si aspetti di vedere sul grande schermo. Se queste sono le premesse, si preannuncia un pomeriggio niente male. La pellicola per la quale sono lì è l’opera prima di un registra islandese e racconta la storia di una ragazza “molto pin-up” che, improvvisamente senza lavoro, trova occupazione in un negozio di fumetti/dvd/giochi vari. La cosa divertente è che le viene assegnato il reparto “giochi di ruolo” che non conosce per nulla. Il responsabile della rivendita la invita così a partecipare a una “sessione” per rendersi conto in prima persona di cosa sia un role playing. E così il film si sdoppia: la realtà diventa virtuale, fumetto e al contempo gioco di ruolo con la protagonista che assume i panni di una principessa in lotta contro orchi brutti e cattivi in pieno stile Signore degli Anelli. La pellicola – un sucessone in Islanda – corre via veloce e leggera tra varie gag alle quali la platea risponde con grasse (alle volte eccessivamente grasse) risate e citazioni comprese solo da pochi. Il film mi ricorda vagamente Hot Fuzz e Shaolin Soccer, altre due pellicole “demenziali”. Quando si accendono le luci in sala regna un misto tra stupore e incredulità. Arriva il regista, Gunner Bjorn Gudmunsson, e raccoglie un caloroso applauso rendendosi disponibile per rispondere alle domande e alle osservazioni del pubblico. Una delle prime è: “cos’è un nerd?” (ahia, allora forse la vena ironico-parodistica del film non è proprio così chiara….). Poi all’improvviso una gentile nonnina prende la parola per ringraziare il regista per averla aiutata a comprendere (finalmente, meglio tardi che mai!) i giochi dei nipoti: un tripudio da pelle d’oca e calde lacrime. Che pomeriggio indimenticabile.

Born With Golf Experience

Sempre a proposito di UGC ho avuto modo di provare in anteprima il sito Born With The Experience che la Volskwagen a breve lancerà in maniera ufficiale per raccogliere e coinvolgere gli amanti e i proprietari dell’ammiraglia della casa tedesca. Il sito permette di entrare in un mondo virtuale nel quale condividere le proprie esperienze con l’automobile, prenotare un test drive, partecipare a un concorso con in palio 3 nuove (ovviamente) Golf al mese e vedere lo spot di lancio della nuova Golf VI prima della sua messa in onda. Ecco un esempio per capire come funziona: clicco in basso a destra sul mio navigatore, scelgo Area Vacanze, scelgo su Aggiungi la tua esperienza e seleziono la tipologia della mia più bella vancaza con la Golf valutando tra relax, on the road, spartana, romantica e capitale e città d’arte (il mio click). Ecco le dritte per chi desideri provare, fino al 3 novembre, il sito e inserire la propria “experience”. Basta visitare il sito bornwithexperience.it e poi su ho trovato un codice online inserendo i seguenti parametri:
Targa: VW048GOLF
Codice: 11148
Un modo alternativo di raccontarsi tramite l’utilizzo della propria auto e di creare una community di attorno al mondo Golf.

Moo card: moosì che sono cool

Da oggi finalmente posso vantarmi anch’io di possedere le MOO MiniCard. Dopo un’attesa (snervante) durata poco più di una settimana sono entrato in possesso dei miei agognati mini biglietti da visita personalizzati (con tanto di contenitore in plastica dove conservarli senza farli rovinare). E’ normale esaltarsi per così poco? Forse no. Ma le minicard sono davvero carine: di pellicola opaca di cartonico (di spessore 350 g/mq), possiedono la particolarità di essere di dimensioni ridotte (28 mm x 70 mm) e per questo di sicuro impatto. Al di là del fatto che siano diventate tra i blogger un oggetto ricercatissimo (e quasi indispensabile), apprezzo le MOO card perchè mi rappresentano in maniera decisamente migliore rispetto a qualunque altro biglietto da visita legato alla mia mansione lavorativa. Mi piace molto infatti l’idea di poter lasciare ad una nuova persona che conosco una card con i miei contatti tra i quali spicca anche l’indirizzo del mio blog. Perchè in fondo il mio spazio è, almeno in parte, ciò che sono: un non-luogo pluritematico dove esprimere semplicemente me stesso lasciando fluire i miei pensieri, ciò che sento/provo. D’ora in poi, a (quasi) chiunque incontrerò fuori dall’orario lavorativo, potrò lasciargli un mio mini bigliettino, superando in un baleno l’aspetto formale di una (fredda) card che comunica il proprio status lavorativo, la propria specialità, l’indirizzo della propria sede, ma che poco a che fare con l’individuo che la consegna al di là della sua occupazione. E poi adesso, con i miei mini biglietti sempre a portata di mano, mi sento “grande”, mi sento entrato a tutti gli effetti nel mondo degli adulti, pronto ad assumere le mie responsabilità e ad affrontare di petto la vita. Speriamo bene…

User generated content 2009

Lo scorso giovedì ho partecipato all’incontro «User generated content 2009: contenuti, pubblicitá, forme partecipative», un forum di discussione organizzato da Current Italia e Warner Home Video che ha avuto luogo alla Casa del Cinema di Roma. Diversi gli ospiti, da Luca Sofri a Marco Pratellesi, da Layla Pavone a Paolo Lorenzoni. Il tema centrale sono stati i contenuti generati dagli utenti e la rivoluzione (sinora potenziale) che potrebbe avvenire nel cambiamento dei modi di produrre e distribuire il materiale informativo (qui inteso in un’accezione decisamente ampia).
Un esempio in questo senso è proprio quello che ha aperto la discussione: l’iniziativa di Current chiamata VCam (Viewer Created Ad Message). In estrema sintesi si tratta di uno spot realizzato dal pubblico. Il brand sponsor concorda gli obiettivi e il brief, mette a disposione del materiale (es. audio), verifica e in caso premia i contributi trasmettendoli e utilizzandoli per comunicare il proprio messaggio.
Resta da capire se questa bramosia di contenuti dal “basso” rappresenti una necessità in quanto la sola pubblicità tradizionale non è più sufficiente o se questo tipo di advertising sia un’astuta mossa per coinvolgere gli utenti risparmiando sui costi (spesso esosi) delle agenzie pubblicitarie.
Certo, come detto da Layla Pavone con il web la relazione con i media si modifica, oggi il consumatore risulta più mobile e dinamico, molto più propenso a una fruizione entertainment che a una fruizione di sola ricerca dell’informazione. Ma forse ha ragione Sofri quando ci invita a riflettere sull’eventualità che un mondo dove tutto e tracciabile, tutto è contato (view, impression, click…), possa portare a un coinvolgimento “economico” degli utenti e a una commercializzazione eccessiva dei prodotti informativi, notizie che assecondano il vouyerismo dell’utente invece di risultare “imparziali” vetrine della realtà del mondo. Forse proprio per questo, nonostante possa risultare bizzarro e anacronistico rispetto al tema dell’incontro, per quanto mi riguarda il contenuto che della serata più mi è rimasto è proprio quello che lo stesso giornalista ha riproposto a proposito di Sara Palin, vice di McCain: “capire la gente non significa essere (inevitabilmente) la gente.”

Le visioni di Angel Orcajo

Forse non tutti se ne sono accorti, ma lo scorso week-end a Roma 70 gallerie e luoghi d’arte hanno lasciato spazio all’arte moderna con vernissage, mostre e incontri con gli artisti (tra l’altro nel sito Roma Contemporary c’è la possibilità di un virtual tour). In extremis sono riuscito a visitare almeno un appuntamento di quelli previsti nella capitale: la mostra Soglie di incertezza all’Instituto Cervantes di Piazza Navona, sedici opere di Ángel Orcajo che spaziono dal 2003 al 2007, visitabili sino al prossimo 17 ottobre. Premetto che non sono un esperto d’arte, ma solo un appassionato di pittura e di qualunque forma d’arte che generi emozione, riflessione, introspezione. Ecco perchè la piccola mostra è riuscita a sorprendermi piacevolmente (non solo per l’ingresso gratuito): mi ha infatti permesso di scoprire un’artista la cui pittura è stata in grado di colpirmi nella inquietudine dei suoi tratti e in quel suo fascino metafisico-surrealista. In particolare un dipinto mi ha stregato: si intitola Un bosco di luci ed enigmi. Ahimè non sono riuscito a trovare un’immagine quindi proverò a descriverlo sommariamente. Si tratta di un quadro che mostra delle croci che rappresantano quasi delle rovine affiancate, sulla destra, a uno sguardo indagatore velato di tristezza. Forse la frase che Orcajo stesso utilizza per descrivere l’opera rende meglio l’idea: “…è sempre latente una bramosia irrefrenabile di decifrare l’enigma di tutto ciò che è esistente.” E’ proprio il concetto a monte della tela che ha saputo appassionarmi sin da subito: l’idea che l’uomo debba sempre trovare un senso, una spiegazione razionale per spiegare tutto ciò che lo circonda infatti mi spaventa. Spesso mi domando se per forza tutto debba avere ai nostri occhi un senso. Credo che il fascino di alcune “cose” che ci circondano sia dato appunto dalla loro patina di inconoscibilità, di unicità, alone di mistero che seduce. Ed è questo il mio approccio all’arte: quando guardo un quadro, ad esempio, non voglio “vivisezionarlo” per capire cosa l’autore avesse in mente mentre delirando lambiva un pennello intriso di colore. Voglio guardarlo per com’è, per così dire “con il cuore” più che con la sola vista, lasciandomi trasportare dalle emozioni che mi suscita. Poco importa se poi il significato originale nelle menta dell’artista sia stato da me completamente frainteso. L’arte per il sottoscritto non è un fine ma un mezzo. Per sognare a occhi aperti.

Fiesta, the new Ford

Ieri sera, in compagnia di alcuni blogger “capitolini”, sono stato al SOMO per la presentazione della nuova Ford Fiesta, una vettura che per l’ovale americano rappresenta una bella sfida: in primo luogo l’auto è il primo prodotto globale sviluppato da Ford Company (dopo l’esordio sulla scena internazionale al Salone dell’Auto di Ginevra, le versioni tre e cinque porta saranno a brevissimo immesse sul mercato seguite, entro il 2010 da una gamma di modelli in Asia, Sud Africa, Australia e Nord America). Dall’altra parte, per spingere la macchina si sono utilizzate una serie di attività, dal buzz marketing alla free press passando per eventi nelle piazze e social media, che puntano a un nuovo modo di comunicare e coinvolgere i potenziali consumatori. Un progetto notevole se si considera che Fiesta significa 20% della produzione mondiale del colosso di Detroit. Ma veniamo all’auto. La nuova Fiesta interpreta appieno la filosofia del “kinetic design”: le sue linee accattivanti trasmettono emozione e dinamicità, un look moderno di sicuro impatto nel segmento delle auto compatte. All’accessibilità del prodotto in termini di prezzo/qualità, la Fiesta offre una notevole tenuta di guida grazie all’utilizzo del sistema EPAS per il controllo elettronico dello sterzo. Anche l’ESP facilita il rapporto con la vettura e permette, volendo, un tipo di guida sportivo e vivace. Ma se l’auto è grintosa fuori, all’interno dell’abitacolo, grazie al miglioramento dell’isolamento dal rumore, il disturbo dei rumori indesiderati viene ridotto al minimo. L’interfaccia intuitiva, l’apertura senza chiave, i fari anteriori automatici (come i tergicristalli), il Bluetooth con controllo vocale, la presa USB e i punti di ricarica per telefoni cellulari e lettori MP3, rendono la Fiesta una vettura al passo con le esigenze di un pubblico giovane che, con un motore TDCi 1.4 da 68 CV come quello che ho potuto testare io ieri, avrà sicuramente modo di divertirsi.

Pan di Francesco Dimitri

Lo scorso 11 settembre alla libreria Feltrinelli Francesco Dimitri ha presentato il suo ultimo libro dal titolo Pan (edizioni Marsilio), una rivisitazione in chiave moderna (e italiana visto che la storia si svolge proprio a Roma) del Peter Pan di Matthew Barrie.
La Meravigliosa Wendy, il piccolo Michele, Giovanni e il suo sogno di diventare antropologo, Stefano, il padre che prima di ammalarsi studiò a lungo la leggenda dell’Isolachenonc’è, tematica ripresa più avanti dal figlio: questi sono alcuni dei protagonisti di un romanzo particolare che, prendendo spunto da una storia (pseudo)fantasy, racconta di bambini sperduti, di pirati e di esseri soprannaturali che si aggirano seminando violenza e terrore nella capitale. All’ombra del Colosseo infatti, sotto un velo di immobile normalità, a situazioni di routine quotidiana si alternano, come in una favola, diversi accadimenti – alcuni dei quali di forte tragicità – che testimoniano di lotte e scontri tra vecchie e nuove divinità (con gli uomini “normali” non relegati al ruolo di semplici comparse) in un continuo mescolarsi di sogno e realtà. Una lettura singolare, forse non accattivante in maniera costante lungo tutti i capitoli, un testo leggero che lo stesso autore ha definito come “fantastico realistico”, ideale per ravvivare la notte di Halloween.

Tutto può cambiare

Ho avuto modo di leggere in anteprima il libro Tutto può cambiare di Jonathan Tropper, un romanzo Garzanti uscito nelle librerie da alcuni giorni (18 settembre ndr). Zach è un giovane trentaduenne newyorkese che vive in un lussuoso appartemento di Manhattan con l’amico Jed e la fidanzata Hope. Non apprezza molto il suo lavoro da “specialista dell’outsourcing” alla Spandler Corporation, ma in fondo non si lamenta di come trascorre le proprie giornate. E’ all’oscuro del fatto che ben presto tre situazioni lo rimpiranno di interrogativi e faranno barcollare quelle che credeva essere le proprie certezze.
In primo luogo, nonostante l’imminente matrimonio, pensa con sempre maggiore insistenza a Tamara, la giovane moglie (e madre di Sophie) di Rael, l’amico di lunga data scomparso prematuramente a seguito di un incidente stradale. Il secondo motivo che alimenta le proeccupazioni di Zach è che una mattina, alzatosi per andare in bagno, osserva con orrore una goccia di sangue nella propria urina: ciò lo terrorizza e lo rende improvvisamente vulnerabile e pessimista. Infine, una visita inaspettata turberà ancor di più lo stato d’animo del ragazzo: il padre, dopo anni di latitanza da Zach e dai suoi fratelli, rispunta dal nulla portando con sé ricordi e rancore maldestramente sopito.
Il libro di Jonathan Tropper – una delle ultime rivelazioni della letteratura americana – è una ironica e coinvolgente riflessione su un uomo che, pianificata con dovizia i particolari la propria vita, vede scombussolati i suoi piani da una serie di eventi che lo portano a mettere in discussione sé stesso e tutto ciò in cui crede.

Randy the Wrestler

Ho ancora negli occhi il Rourke versione Randy “the ram” Robison – capace di commuovermi – quando, leggendo la sua biografia, mi rendo conto che il personaggio portato da Mickey sullo schermo gli calza a pennello. Forse è proprio per questo che alla recente Mostra del Cinema di Venezia il film The Wrestler ha vinto come miglior pellicola e tanto ha entusiasmato Wim Wenders, presidente di giuria che nel momento della premiazione ha voluto a tutti costi sul palco Rourke (per una bizzarra regola nella Laguna lo stesso film non può vincere sia come miglior pellicola, sia come migliore interpretazione). Perchè in fondo Randy e Mickey, il protagonista della storia e il suo volto sulla scena si somigliano, realtà e finzione cinematografica si intrecciano (non “recitano” anche gli stuntman del wrestling o le ballerine di un night club?). D’altra parte Rourke è stato un pigile, è stato una star, ha conosciuto – per sua stessa ammissione – la via dell’autodistuizione e la sensazione di non rispetto verso sé stesso e la propria professione. Sì, l’interpretazione di Rourke mi ha davvero entusiasmato. Certo la regia di Darren Aronofsky ha saputo dare risalto al declino del protagonista ma il palco – come il ring – è stato tutto per Randy. Un wrestler reso umanissimo, che non può non fare tenerezza mentre russa nella sua roulotte, mentre si sistema l’apparecchio acustico, mentre cammina indossando dei vestiti rattoppatti con del nastro adesivo, mentre tenta di ricostruire rapporti sociali per non restare solo. Il racconto di una ex-divo incapace di vivere una vita “normale” e costretto a umilianti comparsate per sbarcare il lunario non è originalissima, ma la prova di Mickey Rourke è capace di trasmettere appieno la fragilità di un uomo che sul ring nonostante gli anni rimane sempre il più acclamato, ma che nella sfida contro la vita non vanta successi né può fare affidamento su persone in grado si sostenerlo come solo il suo pubblico delle sue arene sa fare. Un fim emozionante, davvero una bella sorpresa (da sottolinare anche la bella canzone scritta dall’amico Springsteen a Rourke proprio per la colonna sonora della pellicola).