Rinnovato il sito, parte una delle settimane più lunghe per il Corriere (ma forse anche per l’editoria italiana)

Ad inaugurare una settimana che si preannuncia storica per il Corriere della Sera – in particolar modo per il reparto digital della testata – da ieri, lunedì 25 gennaio, è online la rinnovata veste grafica del sito del quotidiano RCS Mediagroup.

Con molta curiosità, appena appreso del “lancio” dal tweet del direttore del quotidiano, mi sono precipitato a visitare – prima da smartphone e poi in maniera più approfondita da notebook – la nuova homepage del giornale. E, devo riconoscerlo, l’impatto è stato positivo: lo stile, che mi ricorda quello del New York Times, fatto sottili linee nere a separare i diversi contenuti su sfondo bianco risulta semplice, essenziale e quindi a mio parere leggero “quanto basta” da fruire.

Dopo una sintetica panoramica sulla homepage mi sono annotato gli aspetti che invece mi convincono meno, quelli che, a puro giudizio personale, se avessi potuto partecipare in maniera costruttiva al progetto – seguire il quale immagino sia stato tutt’altro che semplice, complimenti al team coinvolto – avrei consigliato di realizzare diversamente.

Img: corriere.it

Img: corriere.it

Le icone dei social network sotto ogni articolo

Trovo che siano ridondanti e che possano inconsapevolmente incentivare la condivisione da hp più che la lettura dell’articolo. Sarò fissato con nyt.com ma avrei lasciato la sola indicazione dei commenti, quella che a differenza delle altre icone non si esaurisce nel click ma che, almeno potenzialmente, porta l’utente a cliccare sullo strillo e a leggere il pezzo prima di condividere il contenuto e/o interagire con la redazione/gli altri utenti.

Ultimo inciso di natura strettamente tecnica: i link di condivisione degli articoli su Twitter sono lunghissimi, urge sintesi anche in quell’aspetto!

Il logo delle testata

Il logo della testata, allo scroll, sparisce. A ben vedere, nel menu in alto fisso, se si scende con la pagina, compare una “C” nella parte iniziale a sinistra. Ma mi pare pochino, il simbolo del giornale si perde di vista e si ha quasi l’impressione di essersi dimenticati dove ci si trovi. Avrei fatto in modo che, come per la homepage di altre testate (es. guardian e wsj), il logo accompagnasse il lettore sino alla fine, restando sempre ben visibile (anche se graficamente di dimensioni minori) di modo da contribuire a mantenere ben chiara l’identità della testata, valore questo che mi pare molto importante per il quotidiano milanese.

Scroll eccessivo

La mancanza del logo della testata si sente anche perché, iniziato lo scroll, si ritrova l’immagine alla fine della pagina, quando tutti i contenuti della home sono stati mostrati. Il fatto è che per giungere nella parte più bassa della home le schermate sono davvero molte, per i miei gusti personali decisamente troppe. La percezione che la testata copra uno svariato numero di notizie si ha netta ma, nel mio caso, ciò non necessariamente corrisponde ad un valore positivo. Insomma, vista la quantità di notizie oggi disponibili mi aspetto ancora di più che il giornale funga da “filtro” per ciò che effettivamente merito di conoscere. Da questo punto di vista, promuovo a pieni voti il nyt e il guardian, rimando corriere e wsj: una homepage meno articolata senza essere più povera mi “spaventa” di meno e può essere un viatico a una “pagina di ingresso” che si rinnova di più e in un arco temporale minore.

Disposizione articoli colonna di destra

Se apprezzo la disposizione a colonne, trovo talvolta confusionaria l’organizzazione dei contenuti, in particolare per ciò che concerne la colonna di destra posizionata sotto la parte degli editoriali. Sarà il fatto di non essere un nativo digitale quanto piuttosto uno di quelli che il giornale di carta, almeno la domenica, lo sfoglia ancora ma per il sottoscritto la gerarchia delle notizie ha un valore. E le notizie della colonna di destra – quella che forse si aggiorna più spesso – mi paiono di un piano decisamente differente rispetto alle “vicine” news che, anche visivamente, rappresentano il centro della pagina e i pezzi più importanti. Calciomercato, tecnologia, televisione, di nuovo calcio, Roma, proteste in Rete… non intravedo un filo logico e le notizie, apparentemente senza un comune denominatore, a differenze delle inchieste della colonna di sinistra, paiono susseguirsi senza un ordine né in termini di rilevanza né di tematica.

Avrei studiato la disposizione a colonne in maniera diversa per distinguere, ad esempio, in maniera più netta le breaking news, evidenziando gli ultimi aggiornamenti dagli altri approfondimenti.

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Img: corriere.it

Link “spezzati” nei titoli

Alcuni titoli, nell’essere disposti su due righe, presentano link spezzati. Per capirci, se un titolo è formato da due frasi, la prima frase sembra rimandare a un link differente rispetto alla seconda in quanto, pur facendo parte del medesimo titolo, non c’è continuità nel tag a href. Il collegamento è lo stesso e per questo motivo (in realtà non peculiarità della nuova versione) trovo la cosa inutile e confusionaria. “Tutto il Corriere: dove, come e quando volete”: Tutto il – Corriere: – dove e quando volete, tre parti del testo cliccabili che puntano però allo stesso articolo. La cosa non sarà mica voluta per aumentare il numero dei click, vero?

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Img: corriere.it

Blog del Corriere

I blog delle singole firme – tra i quali Italians di Servegnini – sono relegati propria alla fine della homepage, distanti un bel po’ anche dagli spazi multiautore. Questi ultimi, tra l’altro, mostrano in home l’autore dell’ultimo pezzo sotto il nome del blog non a margine dell’articolo e quindi possono a mio avviso dare adito a fraintendimenti in chi non visita il sito con la frequenza necessaria per notare i differenti giornalisti che contribuiscono (eccezion fatta per Piazza Digitale sempre a cura di admin, nonostante all’interno poi le firme sia varie).
In ogni caso, i blog non mi sembrano sfruttati a dovere, quasi nascosti, difficili da trovare anche perchè li conosce e sa per certo che da qualche parte devono pur essere stati posizionati (serendipity ai valori minimi).

Queste alcune delle mie impressioni a caldo, l’analisi del sito sicuramente proseguirà nei prossimi giorni, ben vengano nel frattempo pareri e valutazioni da parte di chi desidera offrire, con un commento, una mail, un tweet, nuovi spunti di riflessione.

Il Wall Street Journal sbarca Snapchat alla caccia dei giovanissimi

Lo scorso 6 gennaio il prestigioso Wall Street Journal ha ufficializzato, dopo mesi di voci a riguardo, la propria presenza su Snapchat Discover. Si tratta del primo quotidiano statunitense a testare il social network, molto utilizzato dai cosiddetti millennials – un pubblico giovane avvezzo agli strumenti digitali – che ha sin da subito ha trovato interessante la possibilità di scambiare foto e video disponibili per un tempo limitato.

I contenuti della testata non sono visibili al di fuori degli Stati Uniti per cui, per un’idea della comunicazione dei giornali su Snapchat, non posso che fare riferimento al Daily Mail, il primo quotidiano ad essere presente su Discover e il cui canale è visibile anche oltre i confini del Regno Unito.

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Img: Daily Mail on Snapchat

Gli articoli, visibili per 24 ore, sono introdotti da una sorta di anteprima animata – ottimizzata per il mobile – che punta a catturare l’attenzione e che strizza l’occhio alle “gif”. Le notizie sono sfogliabili, se si decide di approfondirle è sufficiente cliccare “leggi” o “guarda” nella parte bassa della schermata (in alcuni casi infatti la notizia è in realtà un contributo video). Per quel che riguarda il giornale inglese, il materiale proposto concerne soprattutto notizie tra gossip, showbiz e “strano ma vero”, ma ho trovato anche news un po’ più seriose circa, ad esempio, il lancio di un nuovo razzo della Blue Origin di Jeff Bezos o le (scioccanti) immagini di alcuni cittadini britannici che, simpatizzanti dell’Isis, hanno fatto impersonare ai loro piccoli figli dei terroristi. Se decido di leggere l’articolo, posso scorrere il pezzo sino alla fine (l’articolo può presentare immagini ma, da quanto ho visto sinora, non link esterni), posso salvarlo o condividerlo con qualche contatto della mia rubrica (prima di fare ciò posso personalizzare il messaggio inserendo emoticon e un testo).

La sfida intrapresa dal WSJ è quella di sperimentare nuovi modi di veicolare notizie con l’obiettivo di analizzare il comportamento degli utenti e di intercettare giovani lettori da trasformare se possibile in nuovi potenziali abbonati. Sulla base delle parole di Carla Zanoni – responsabile emerging media team del quotidiano – il gruppo di lavoro del WSJ dedicato a Snapchat è formato da cinque persone che pubblicano 8 contenuti al giorno, 5 giorni su 7.

Sarà interessante verificare l’appeal dei contenuti economico-finanziari della testata sugli utenti di Snapchat (il primo articolo della redazione, ad esempio, ha approfondito l’aumento degli affitti degli appartamenti in US) per capire se e in che misura siano compatibili con uno strumento piuttosto “scanzonato” di utilizzo prettamente ludico (i selfie caricaturali realizzati attraverso l’utilizzo dei lenses di Snapchat sono affini all’analisi dei dati di Wall Street?).

Il successo dell’iniziativa, infatti, non è scontato. E, come dimostrato la scorsa estate con i canali di Yahoo e Warner Music, Snapchat, per salvaguardare la propria reputazione e continuare nella crescita del numero di utenti attivi, non ha esitato a interrompere il rapporto con questi partner i cui contributi pare non abbiano fatto registrare un grande impatto nella community (per inciso, i due canali sono stati sostituiti da BuzzFeed e iHeartRadio).

L’esperimento delle testate su Snapchat, oltre che dal punto di vista delle redazioni e dei contenuti giornalistici, è da seguire anche in termini prettamente pubblicitari. Le realtà presenti su Discover possono infatti proporre ai loro inserzionisti video pubblicitari su Snapchat (venduti a CPM) nella innovativa forma del native advertising.

La speranza di Snapchat è quella che i media possano contribuire a fare in modo che il social network riesca ad individuare le modalità per generare guadagni senza infastidire (troppo) gli utenti.

Il 2016 l’anno del paywall anche in Italia?

Img: wired.it

Gli ultimi giorni dall’anno, almeno per quel che concerne il panorama editoriale italiano, sono stati movimentati dall’annuncio dell’imminente lancio del paywall per il Corriere della Sera. Da anni si ricorrono le voci sull’esordio di questo tipo di strategia da parte dei principali quotidiani nazionali (su Twitter, per esempio, io stesso ho rilanciato un articolo datato ottobre 2013 che annunciava scelte che ad oggi non hanno avuto seguito) ma, in occasione della presentazione del piano industriale del Gruppo RCS, si è data molta enfasi alla decisione che dovrebbe concretizzarsi entro la fine del prossimo gennaio.

Alla base del progetto, tre (macro)obiettivi che il Gruppo si è dato: sostenibilità economica, trasformazione del proprio business, crescita futura. Tra le azioni che la Direzione ha deciso di intraprendere quella chiamata “Oltre il digitale” cita espressamente il paywall quale “nuovo modello di abbonamento per monetizzare in modo adeguato i contenuti, conoscere e fidelizzare il lettore”.

Dalle (poche) parole di chi ha presentato l’ambizioso progetto ancora non emergono i dettagli. Si è sottolineata la necessità di pagare i contenuti di qualità, l’importanza della sperimentazione anche in Italia, la flessibilità della formula che prevederà più combinazioni e lo spessore di un’iniziativa che ha attinto dalle best practice internazionali.

Il punto di riferimento, pare assodato, sarà il metered paywall, una soglia di sbarramento agli articoli gratuitamente fruibili non rigidissima che, nelle sue forme di maggiore successo, consente, ad esempio, di leggere gli articoli anche una volta superato il limite definito se si arriva ai contributi da un link condiviso nei social media o di preservare l’accesso alle gallery multimediali – foto e video – senza limitazioni. Un muro non completamente “impermeabile” dunque che potrebbe prevedere un numero massimo di articoli (10 articoli al mese?) da leggere gratuitamente, richiedendo la registrazione per aumentare senza spese il numero di articoli gratis di alcune unità (10 + 5 al mese?) superati i quali sarà invece necessario sottoscrivere un abbonamento al giornale.

In questo modo il passaggio da una lettura completamente gratuita a una formula più restrittiva risulterebbe probabilmente meno brusco e, almeno in linea teorica, eviterebbe un crollo degli accessi al sito della testata preservando al contempo la raccolta pubblicitaria digitale.

Non si tratta certo dell’unico elemento di “cambiamento” prospettato, altre azioni a programma sono, ad esempio, il ritrovato interesse per hyperlocal oltre al focus sulla trasformazione data-centrica per conoscere e interpretare al meglio il bacino di utenti. Ma forse sarà proprio il paywall quello che, almeno nell’immediato, avrà l’impatto più rilevante sui lettori e sugli altri “attori” del panorama giornalistico nazionale.

Quanto recentemente accaduto con il Toronto Star e con il Sun, quotidiani che hanno rivisto la propria strategia abbandonando il paywall sul quale avevano deciso di puntare, sembrano prospettare un inizio in salita per il quotidiano milanese, soprattutto in considerazione del prestigioso quanto impegnativo ruolo di “rompighiaccio”, prima testata italiana a sperimentare il paywall.

In questo senso, un dettaglio mi ha dato da pensare. Degli otto punti elencati per raggiungere quanto stabilito dal Piano Industriale, il messaggio ufficiale di RCS liquida piuttosto sbrigativamente il primo punto che rispetto agli altri, pur aprendo l’elenco, risulta fumoso. In maniera generica si fa riferimento all’obiettivo di “ridurre i costi, preservando investimenti e qualità”. Ecco, forse mi sarei aspettato un più audace quanto netto riferimento ad un ulteriore aumento della qualità rispetto a una “difesa” dell’attuale approccio che mi sembra emergere tra le righe del comunicato. Perché per convincere i visitatori di corriere.it ad abbonarsi al quotidiano rinunciando alle notizie gratuite di altri spazi informativi è probabilmente necessario far loro percepire ancora meglio il valore aggiunto che solo il Corriere delle Sera può offrire. In termini di obiettività, di approfondimento delle analisi, di autorevolezza. Lo status quo da solo non è sufficiente.

Slant: tu scrivi, noi ottimizziamo, tu guadagni

Img: slantnews.com

Img: slantnews.com

Il mondo del giornalismo fatica a trovare soluzioni per superare la crisi che da alcuni anni attanaglia anche le redazioni storicamente più autorevoli. Se modelli capaci di far fronte alla progressiva erosione degli introiti pubblicitari latitano, ciò non significa che l’attuale momento per alcune persone non possa rappresentare un’opportunità. Questo deve aver pensato Amanda Gutterman – giovanissima responsabile editoriale proveniente da Huffington Post – quando, con il suo team, ha dato vita a Slant News, ambiziosa start-up di crowdsourced journalism. In cosa consiste il progetto? Nell’offrire l’opportunità, a chiunque voglia raccontare una storia, di guadagnare sulla base del traffico generato dal proprio contributo. Apparentemente nulla di originale, la retribuzione legata alle performance degli articoli – nello specifico al numero di click che il sistema di monitoraggio registra (a tutti gli effetti un modello pay-per-click) – è una strategia utilizzata da numerose testate per retribuire i propri collaboratori. In realtà, Slant News, partendo da una pratica ormai largamente collaudata, è caratterizzato da due aspetti piuttosto originali: a differenza di altre piattaforme riserva il 70% della percentuale dei guadagni a chi ha realizza l’articolo (offrendo all’autore un pannello di controllo tramite il quale monitorare l’andamento del proprio contributo in termini di visualizzazioni e condivisioni) e, soprattutto, supporta chi sottopone un pezzo con il lavoro del proprio team editoriale che, oltre a verificare le informazioni contenute, migliora la proposta ricevuta ottimizzandola per fare in modo che ottenga quanta più visibilità possibile. In che modo? Controllando stile e correttezza ortografica, ma anche suggerendo immagini di maggiore impatto, parole chiave, collegamenti ipertestuali o titoli più affini a social network e motori di ricerca.

Dopo i primi due mesi di test con un numero limitato di autori, dallo scorso 25 settembre Slant è una piattaforma aperta a chiunque voglia proporre il proprio articolo. Anche da mobile. Oltre all’accesso dal sito, infatti, Slant offre anche un’applicazione per iPhone e Android tramite la quale risulta molto semplice navigare tra i contenuti pubblicati e, in caso, sottoporre alla redazione il proprio contributo.
Se per stessa ammissione della Gutterman, Slant non vuole proporsi quale piattaforma per facili quanto rilevanti guadagni (l’idea alla base è piuttosto: “proponi la tua storia, ci adopereremo per renderla affine al web di modo da aumentare le tue possibilità di guadagno”), il progetto rappresenta sicuramente uno spazio tramite il quale avvicinare i giovani al mondo del giornalismo. Sia in qualità di fruitori delle notizie (il tono utilizzato da chi scrive è generalmente piuttosto informale e diretto) che di autori di articoli su cultura, politica e sport.

P.S.= visitando il sito non ho potuto non notare, negli spazi riservati alla pubblicità, le inserzioni del Financial Times che, anche nel magazine (probabilmente proprio in virtù del target giovane al quale si rivolge) cerca nuovi abbonati.

Se potessi avere un milione di abbonati al mese

Img: bostonglobe.com

Il New York Times, con un comunicato ufficiale pubblicato lo scorso 8 agosto, ha reso noto il superamento (a fine giugno) della quota di 1 milione di abbonati digital-only. Il risultato è stato ottenuto grazie al paywall, sistema che dal 2011 consente agli utenti non abbonati di fruire gratuitamente di un numero limitato di articoli del giornale al mese, richiedendo la sottoscrizione di un abbonamento per proseguire la lettura dei contenuti della testata. Al lancio, in un mondo – quello editoriale – che faceva della gratuità online una sorta di dogma della Rete, in pochi avrebbero immaginato che in poco meno di quattro anni e mezzo il NYT potesse raggiungere tale traguardo (anche il Wall Street Journal, a quota 900.000 abbonati, intravede la meta). Il presupposto che gli utenti potessero essere inclini a pagare per leggere informazioni disponibili senza costi in molte (altre) risorse su web non sembrava credibile a tal punto da superare il timore di un allontanamento repentino dei lettori dalla testata proprio in virtù di una richiesta economica all’epoca quanto mai inusuale. Nonostante i foschi presagi però, il NYT è riuscito a raggiungere per primo l’ambizioso obiettivo – una pietra miliare come l’ha definita Mark Thompson, presidente e CEO di The New York Times Company – frutto tanto di un giornalismo conosciuto ed apprezzato da anni nel mondo quanto di ingenti investimenti in innovazioni tecnologiche capaci, nel corso degli anni, di continuare a far eccellere la testata nonostante la forte concorrenza.
Se il traguardo del milione di abbonati certifica l’efficacia della strategia digitale del giornale (crescita nell’ultimo quarter, in termini di guadagni, del 14,2%) per paradossale che possa sembrare, la strada da fare per arginare la continua discesa degli introiti pubblicitari – che complessivamente, nonostante la crescita del comparto digital, negli ultimi quattro mesi hanno fatto registrare un -5,5% in virtù soprattutto di un nuovo ribasso della pubblicità a stampa – è ancora in salita, irta di difficoltà. Notevoli progressi sono stati fatti dal NYT per equilibrare il rapporto tra abbonamenti e pubblicità: ad oggi gli abbonati nella loro totalità (cartaceo e/o digitale) rappresentano il 55% dei guadagni complessivi della testata contro il 39% di revenue provenienti dalla pubblicità. Appare chiaro tuttavia che per gestire i costi dello sviluppo tecnologico necessario per competere con gli altri player, sia necessario lavorare ancora più assiduamente sulla quella enorme fetta di utenti che, visitato il sito del giornale, fruisce dei contenuti senza però siglare un abbonamento (in questo senso, quanto accaduto per la app NYT Now, è rappresentativo della difficoltà di attirare il pubblico giovane). Al momento, infatti, i “pochi” paganti (stime parlano di una percentuale nell’ordine di poche unità di abbonati in rapporto ai visitatori unici al mese fatti registrare dal sito) consentono anche ai non abbonati di fruire dei contenuti della redazione.
Vinta una “battaglia”, insomma, la “guerra” per veder crescere i guadagni del giornale resta ancora lunga. Nonostante gli sforzi, infatti, se il NYT negli ultimi anni (2014 e 2013) ha evitato il passivo nel computo dei guadagni totali della testata, ha visto una crescita flebile arrivata lo scorso anno a 0,7%.
Ancora troppo poco per dichiarare il modello del giornale come solido ed efficace anche sul lungo periodo.

Il futuro di Twitter nelle news più che nelle conversazioni?

Img: buzzfeed.com

Dallo scorso lunedì 3 agosto, per alcuni utenti statunitensi e giapponesi, tra le voci del menu orizzontale (Home, Notifiche, Messaggi e Account le opzioni sinora presenti) è apparsa anche la nuova icona News. Si tratta di un esperimento portato avanti dalla società californiana nel tentativo di offrire nuove e più semplici modalità per individuare i contenuti più interessanti. Una volta cliccato News, Twitter visualizza le notizie più discusse mostrandone l’origine (la testata), il titolo e un’immagine di anteprima. Scelta una voce, il messaggio si espande visualizzando, oltre a titolo e alla fonte, un blocco di testo dell’articolo e il link cliccando il quale leggere il pezzo. Come sottolinea un interessante articolo di BuzzFeed (tra le prime testate a riportare la notizia dalla nuova feature di Twitter), con questa mossa – e con il crescente interesse per gli eventi live – Twitter ha forse intrapreso definitivamente la strada che porterà la app a diventare una sorta di motore di ricerca di contenuti piuttosto che esclusivamente uno strumento per condividere informazioni. Il cambio di prospettiva, però, non è solo finalizzato a un miglioramento della cosiddetta user experience (e, quindi ad incrementare il numero della base di active user la cui crescita resta piuttosto lenta), alla base della decisione c’è sicuramente anche l’aspetto legato ai profitti. Il limite di Twitter per molti inserzionisti è oggi come oggi rappresentato dalla difficoltà di inserire messaggi pubblicitari all’interno di conversazioni tra utenti senza che questi siano percepiti come ostacolo al flusso comunicativo. Prevedendo una sezione apposita per le notizie (che in questa fase sperimentale non presenta advertising ed è appannaggio di un numero limitato di partner), è facile intuire come obiettivo di Twitter sia quello di offrire nuovi spazi di azione più efficaci a chi desidera pubblicizzare la propria azienda, rinnovando le possibilità di native advertising messe a disposizione dallo strumento.
Ad inizio aprile Twitter ha abbandonato Discover, superando la possibilità di individuare contenuti sulla base delle persone seguite e semplificando l’emergere di hashtag e argomenti di tendenza (che vengono elencati scegliendo lo strumento della lente per la ricerca in alto a destra) a livello più esteso.

Dopo Facebook e Snapchat, anche Twitter dunque punta sulle news offrendo ad un comparto media, sempre più competitivo, una più stretta collaborazione. Con la speranza che la sinergia possa essere win-win, proficua per entrambi i soggetti in gioco.

E’ tempo di paywall (anche) per Time Inc.

Img: ew.com

Da alcuni giorni Time Inc. (spinoff di Time Warner), che raggruppa oltre 90 tra i più noti magazine – tra i quali, oltre alla rivista Time, Fortune, People, NME, Marie Claire UK – ha annunciato che Entertainment Weekly sarà il primo periodico del gruppo a utilizzare il paywall.

Gli utenti avranno accesso a 10 articoli gratuiti al mese fruiti i quali sarà richiesta la registrazione alla testata: il lettore dovrà indicare un indirizzo di posta elettronica e le proprie aree di interesse. Così facendo avrà diritto ad altri 5 articoli aggiuntivi al mese – per un totale quindi di 15 contributi ogni 30 giorni – terminati i quali, per continuare la lettura, sarà richiesta la sottoscrizione di un abbonamento. Le tipologie di abbonamento saranno: 1,99 dollari al mese, 20 dollari all’anno, 25 dollari all’anno per l’offerta combinata digitale e cartaceo.
Quello utilizzato da EW.com sarà un cosiddetto metered paywall, una forma non troppo rigida che consentirà di leggere in maniera gratuita, anche una volta raggiunta la quota massima stabilita, i pezzi ai quali si accede attraverso i social media (foto e video, invece, continueranno a restare fruibili gratuitamente per tutti gli utenti).

Interessante notare come, dalle parole del CEO di Time Inc., Joe Ripp, emerga quale scopo principale dell’adozione del paywall, la possibilità da parte del gruppo di comprendere meglio le preferenze degli utenti rendendo così più flessibile la redazione e più reattiva nel valutare bisogni e aspettative dei “consumatori”. Il paywall, inoltre, permetterà all’ufficio (centralizzato) di vendita di spazi pubblicitari di proporre agli inserzionisti operazioni mirate a specifici target consentendo alla testata, contemporaneamente, di sfruttare al meglio i propri contenuti premium (materiale riservato ai soli abbonati come, ad esempio, gli speciali sull’ultima stagione di Mad Men e sull’uscita di Jurassic World).

La sfida è quella di fare in modo che il paywall non vada a ridimensionare eccessivamente il pubblico di lettori del sito della rivista che, per il mese di aprile, si è attestato sui 19,9 milioni di utenti unici.

Sul finire del 2013, con Sport Illustrated, l’allora Time Warner testò una modalità che consentiva agli utenti di accedere sin da subito – e per 24 ore – ai contenuti dell’edizione cartacea in versione digitale visualizzando, prima di intraprendere la lettura, un video pubblicitario di 30 secondi.

L’esperimento non fece registrare risultati di particolare rilevanza, l’auspicio dei dirigenti di Time Inc. è che invece il paywall possa essere utilizzato con successo via via da tutte le testate del gruppo.

Se i dati dei primi quattro mesi del 2015 fanno registrare un incremento dei guadagni provenienti dal comparto digitale, continua per Time Inc. la flessione in termini revenues totali. Considerando la recente acquisizione di FanSided, il gruppo, per ripianare i propri debiti, ha la necessità di individuare quanto prima una strategia valida da adottare.

BuzzFeed e Dove: non laviamocene le mani

Img: gannett-cdn.com

Circa due mesi fa, in un mio post, analizzai le policy di BuzzFeed. Al di là di quanto stabilito dal vademecum per chi lavora o collabora con la redazione, ho apprezzato soprattutto la volontà di condividere con il proprio pubblico i punti salienti entro i quali si sviluppa il lavoro della testata. Una trasparenza che, a mio avviso, avrebbe potuto avvicinare i lettori rendendoli in qualche modo partecipi del modello editoriale. Tra i punti più rilevanti indicati da BuzzFeed c’è la volontà di non eliminare alcun contributo: nel caso in cui qualche informazione pubblicata non sia corretta o sia diventata obsoleta, l’articolo verrà aggiornato e corretto inserendo delle note a spiegazione delle modifiche effettuate.
Qualcosa però, nelle ultime settimane, non ha funzionato esattamente come previsto dalle policy. In particolare, ha suscitato il mio interesse il “caso Dove” che qui sintetizzo: Arabelle Sicardi scrive un articolo circa una delle ultime iniziative legate alla campagna pubblicitaria Dove. Il brand di Unilever ha infatti realizzato un video che riprende alcune donne che, nei pressi di una stazione, dovendo scegliere tra l’ingresso beautiful e quello average appositamente preparati da Dove, tendenzialmente scelgono il secondo. La finalità del progetto prosegue sulla falsa riga di quanto precedentemente realizzato dal brand che punta, attraverso pubblicità emozionali, a rendere maggiormente consapevoli le donne della loro bellezza (benché questa non segua i canoni dello showbiz). Il post, in realtà, risulta piuttosto duro nei confronti di Dove: viene criticata la scelta di semplificare eccessivamente la realtà suddividendola solo tra due parametri (o sei bella o sei nella media) e, soprattutto, viene imputato al brand di proporre sul mercato prodotti contro la cellulite o per una pelle più bianca con i quali “correggere” le imperfezioni alla faccia del messaggio #choosebeautiful.
Il punto però non è (solo) quello legato alla percezione dell’iniziativa Dove da parte delle consumatrici. L’aspetto interessante della vicenda è il fatto che BuzzFeed decide di cancellare l’articolo – in contrasto alle direttive che invitano gli editor a una scrittura che “presenti” piuttosto che “dica” sulla base di personali valutazioni – venendo meno alle policy che la testata stessa aveva deciso di condividere.
L’articolo è poi reso nuovamente disponibile online e Ben Smith, caporedattore di BuzzFeed, fa ammenda su Twitter pubblicando la lettera da lui inviata a tutto lo staff nella quale si scusa per l’esagerata reazione e sottolinea come l’iniziale scelta di eliminare gli articoli (una situazione analoga a quella del post su Dove pochi giorni prima era emersa con il gioco da tavolo Monopoli) non sia stata dettata dalle pressioni degli inserzionisti (come provocamente ipotizzato da The Gawker). Qualche dubbio infatti può legittimamente nascere. Perché, in fondo, una cifra importante del business di BuzzFeeed proviene dalla realizzazione/diffusione di contenuti sponsorizzati e Unilever, si sa, è tra i marchi che più investino in pubblicità. Secondo quanto comunicato dalla redazione, il marchio di Dove, Axe e molti prodotti, non investe su BuzzFeed dall’ottobre 2013 anche se gli articoli sponsorizzati, frutto della collaborazione tra il brand e la testata, sono ancora online. Al di là del caso specifico, mi chiedo: quanto il native advertising legato alle redazioni finisce con l’influire sullo spirito critico di una testata nei confronti degli inserzionisti?

ps: Arabelle Sicardi, dopo la cancellazione del post, ha rassegnato le dimissioni da BuzzFeed

Toronto Star, quando il paywall non è sinonimo di successo

Img: jpress.journalism.ryerson.ca

Oggetto delle riflessioni condivise nel blog sono spesso grandi testate, gruppi editoriali che possiedono ingenti risorse per finanziare la ricerca di approcci innovativi alla Rete. Quella che mi appresto a sintetizzare è invece una di quelle storie che, pur di secondo piano rispetto ai nomi altisonanti del “quarto potere”, offre indubbiamente spunti interessanti da valutare.

Nell’estate del 2013 il quotidiano più diffuso in Canada, il Toronto Star, a seguito del rinnovamento del design del proprio sito di inizio anno, introduce il paywall.
Consentendo di leggere solo 10 articoli gratis al mese, il giornale della Toronto Corp. punta, con gli abbonamenti, a recuperare i mancati introiti della pubblicità a stampa, di giorno in giorno sempre più in declino. Non si tratta di una “barriera” rigida: restano visibili gratuitamente a tutti gran parte degli articoli della homepage oltre ai video e, per utenti che mensilmente rinnovano, con un pagamento automatico, il proprio abbonamento al cartaceo, risulta un interessante servizio aggiuntivo a spese zero. A livello promozionale, tra l’altro, il primo mese di abbonamento è offerto a 0,99 centesimi, che poi diventano 9,99 dollari ogni trenta giorni.

Per la scena canadese la strada intrapresa dal Toronto Star non è una novità. Il paywall è infatti già stato precedentemente adottato da altri giornali molti diffusi nel Paese quali, ad esempio, il National Post e il Globe and Mail, anche se con differenti tipologie di prezzo e offerta.

Qualcosa però non va secondo i piani e così, a poco più di un anno e mezzo di distanza dal lancio, il Toronto Star torna sui propri passi informando gli utenti che il paywall dal 1° aprile non sarà più attivo e che tutti i contenuti della testata torneranno fruibili gratuitamente anche da tablet e mobile. Non si è trattato di un pesce di aprile – come forse qualcuno inizialmente ha pensato – ma, come recita la nota ai lettori, di un aggiustamento della strategia digitale messo in atto dalla testata per venire incontro alle tante richieste da parte di lettori e inserzionisti.

In realtà la decisione non è avvenuta in modo improvviso: già dallo scorso novembre il gruppo proprietario del giornale canadese, analizzando i dati di bilancio (digital revenue con segno meno) aveva annunciato il cambio di rotta che dal paywall avrebbe poi portato – con nuovi ingenti investimenti – a una rinnovata applicazione per tablet (sviluppata in collaborazione con il giornale di Montreal in lingua francese, La Presse) pensata per incentivare una lettura più interattiva, multimediale e multicanale da parte degli utenti.

Ai pochi (maledetti?) e subito, il giornale ha preferito tornare ad adottare un modello finalizzato ad allargare quanto più possibile il bacino di lettori (strizzando indirettamente l’occhio alla pubblicità), puntando in particolare sui giovani utenti, sicuramente più affini a tablet e social network che a un abbonamento a un giornale.

 

[update: Star Touch, quando il tablet vince sul paywall]

L’informazione può prescindere da Facebook?

Img: dawn.com

Il rapporto tra il mondo dell’editoria e Facebook ha vissuto fasi alterne. Al grande entusiasmo delle principali testate per le applicazioni di Social Reading – adottate a partire dal 2009 per leggere, commentare, condividere gli articoli proprio attraverso il social network di Palo Alto – si è registrato un raffreddamento in virtù dei successivi cambiamenti nell’algoritmo della gestione del flusso di notizie (e dei conseguenti ridimensionamenti del traffico da Facebook) che hanno messo la parola fine a molti dei progetti di stretta collaborazione.

Dalla scorsa settimana, una notizia pubblicata dal New York Times, ha però riportato sotto i riflettori l’ambizione di Facebook di diventare il “miglior giornale personalizzato del mondo”. Pare infatti che il social network guidato da Zuckerberg, forte dei suoi 1,4 miliardi di utenti, abbia iniziato ad intavolare con una dozzina di media company (tre le quali BuzzFeed, National Geographic, il Guardian, l’Huffington Post, Quartz e lo stesso NYT) una serie di incontri per valutare la disponibilità delle testate a veicolare i contenuti direttamente nel social network piuttosto che utilizzare, come avviene ora, collegamenti esterni ai vari articoli.

L’obiettivo parrebbe quello di incrementare la soddisfazione del lettore in termini di user experience: superando l’ostacolo del rimando ai siti delle testate e, conseguentemente, il caricamento di nuove pagine, il rischio di spazientire l’utente, soprattutto se si tratta di un lettore che naviga su web da mobile, si ridimensionerebbe notevolmente. Ciò comporterebbe un aumento del tempo speso nel social network e, quindi, un incremento dell’esposizione ai messaggi pubblicitari veicolati attraverso Facebook.

Al di là delle modalità legate alla pubblicità all’interno dei contenuti delle testate – pare che Zuckerberg e soci vogliano proporre agli editori una sorta di affiliazione: spazi pubblicitari gestiti da Facebook inseriti negli articoli e suddivisione degli introiti in base alle performance – resta da capire se le testate accetteranno di scambiare la visibilità dei loro pezzi cedendo però a Facebook i (preziosi) dati circa i profili dei lettori e il loro comportamento nei confronti del materiale informativo.

Leo Mirani, in un interessante articolo pubblicato da Quarz, ha sottolineato come l’offerta di contenuti a “spazi terzi” (quali, ad esempio, YouTube e Snapchat) attraverso i quali diffondere gli articoli, non sia per le redazioni una novità. Proprio per questo motivo, a suo dire, non bisogna temere l’iniziativa di Facebook (che, tra l’altro, non prefigura il social network come canale giornalistico esclusivo). Perché non si può insistere nel pensare che siano i lettori a visitare i siti delle varie testate: chi produce contenuti deve essere presente nei luoghi dove gli utenti sono soliti raccogliersi.

E sotto questo punto di vista, nel bene e nel male, prescindere da Facebook oggi non sembra possibile.