Branded content e native advertising: differenze e punti di contatto

Nelle scorse settimane una giornalista che collabora con un mensile che si occupa di strategie di comunicazione mi ha contattato per chiedermi un commento sul native advertising. Tra le domande alle quali con piacere ho risposto, una mi è particolarmente dispiaciuto che non abbia trovato spazio nell’articolo sul rapporto tra editoria e pubblicità. Ho così deciso di riproporre i miei ragionamenti in un post. La questione sollevata dalla mia interlocutrice è stata molto semplice e diretta: qual è la differenza tra branded content e native advertising?

Il fenomeno dei contenuti brandizzati è esploso con la diffusione virale di video su YouTube creati dagli utenti. Non che prima non esistessero, ma è proprio grazie all’avvento dei social network che, in virtù della semplicità con la quale è possibile condividere un contributo, i numeri sono diventati rilevanti. Star Wars Kid, Numa Numa ed Evolution of Dance sono solo alcuni esempi di contenuti che registrano milioni di visualizzazioni frutto del passaparola spontaneo. Tali successi hanno inevitabilmente attirato l’attenzione dei brand che cominciano così a sperimentare realizzando video che puntano sulla diffusione “virale” nella Rete: contenuti con lo scopo di sorprendere più che di presentare un prodotto e le sue caratteristiche. Nascono così i Viral Branded Video che, giocando su originalità ed emozione, fanno leva sugli utenti (e sulle loro condivisioni ad amici, conoscenti e familiari) per diffondere i clip.
Uno degli esempi di branded content che ultimamente ha fatto più parlare di sé è il video First Kiss che con oltre 87 milioni di visualizzazioni ha colpito molti utenti (il video riprende 20 sconosciuti ai quali viene chiesto di baciarsi). Nei giorni successivi alla pubblicazione, quando il contenuto era già diventato un tormentone, si è scoperto come in realtà i protagonisti fossero attori e che si tratta dell’operazione pubblicitaria – davvero ben riuscita – di Wren, brand di moda di Los Angeles.

Il native advertising, invece, si rifà ai media tradizionali, mettendo in contatto la marca e le redazioni per creare contenuti che possano suscitare l’interesse degli utenti sfruttando l’autorevolezza della testata nella quale compaiono. E’ una forma di comunicazione che ancora deve trovare degli standard ben definiti ma che, in generale, si presenta sotto forma di contributi (articoli ma anche video o foto) sponsorizzati. Gli esperimenti in questo senso più interessanti a mio modo di vedere sono quelli che, un po’ come per alcuni dei viral branded video di maggior successo, alludono a un prodotto senza però limitarsi a mostrarne le peculiarità. Per cui, ad esempio, una delle prime “uscite” del native advertising è nata dalla collaborazione tra un noto brand di computer (Dell) con una famosa testata (New York Times) che ha pubblicato nel giornale un paid post sulle nuove generazioni e il loro modo di lavorare in mobilità.

Brand content e native adv fanno quindi riferimento a forme espressive differenti. Hanno tuttavia un punto in comune: il superamento dei classici format pubblicitari. Il fine ultimo di queste due modalità è infatti quello di entrare nel flusso comunicativo-informativo di solito precluso alla pubblicità. Le inserzioni, anche online, sono relegate entro precisi confini che gli utenti, nel corso degli anni, hanno ben imparato a conoscere (ed evitare?). Riuscire a trasformare in notizia qualcosa che richiami, direttamente o indirettamente, una marca o un prodotto, consentirebbe al messaggio di svincolarsi da banner e affini aumentandone così, almeno potenzialmente, l’efficacia.

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