Un nuovo giorno che tarda ad arrivare

Img: newstatesman.com

Trascorse solo nove settimane dal lancio di The New Day, il progetto del nuovo quotidiano inglese è già arrivato al capolinea. A darne l’annuncio Alison Phillips, la responsabile dell’ormai ex-quotidiano cartaceo che su Facebook ha spiegato come, nonostante l’impegno e il supporto ricevuto, il giornale non abbia saputo far fronte alle aspettative in termini di copie vendute (delle 200.000 copie giornaliere auspicate, a poche settimane dal lancio, le vendite si sono stabilizzate a quota 40.000). Politicamente neutrale, con un maggior spazio per le notizie “positive” e con un ridotto numero di inserzioni pubblicitarie, The New Day nutriva l’ambizione di far breccia su un pubblico giovane (in particolar modo femminile) con un “prodotto” di facile e veloce lettura, una sorta di versione “alleggerita” del Daily Mirror, il “fratello maggiore” del gruppo Trinity. Per raccogliere consensi e tentare di imporsi sin da subito, il giornale non aveva lesinato su investimenti pubblicitari e sul coinvolgimento di nomi noti quali, nel primo numero, il Primo Ministro David Cameron (con un articolo pro-Europa) l’ex attaccante del Liverpool e della nazionale inglese, Robbie Fowler.
L’ironia del destino ha però voluto che lo slogan del nuovo giornale – Life’s short, let’s live it well – si concretizzasse in coincidenza della diffusione dei dati dei primi tre mesi del 2016 relativi al gruppo editoriale di riferimento. Percentuali che, come forse era auspicabile aspettarsi, segnano un nuovo calo degli introiti del gruppo Trinity Mirror (-8,6%), un ulteriore rallentamento dei guadagni dalla pubblicità su carta (-19%) e dalla vendita dei giornali (-4,5%). L’unica voce positiva è risultata quella legata alla digital audience degli spazi online del gruppo, in crescita del +15,7%. Alla quale però il The New Day non ha per nulla contribuito in quanto, al lancio del giornale, per paradossale che possa sembrare, la redazione decise di non prevedere un sito web legato alla nuova testata.

James Wildman, chief revenue officer di Trinity Mirror Solutions, commentando quanto accaduto, si è definito orgoglioso di far parte di una realtà pronta a rischiare nel tentativo di (r)innovare. Un gruppo che farà sicuramente tesoro della “breve ma intensa” esperienza del New Day per continuare il proprio processo di diversificazione, per migliorare la distribuzione (da molti addetti ai lavori indicata come una delle principali carenze che hanno portato alla chiusura anticipata del giornale) e il packaging dei contenuti.

Dichiarazioni evidentemente di rito che però omettono un aspetto della vicenda tutt’altro che secondario: sono stati gli stessi analisti del Trinity Mirror ad avvallare il progetto prevedendo erroneamente che il The New Day potesse iniziare a guadagnare già entro l’anno. Salvo poi essere smentiti dai vertici del gruppo che, dopo poco meno di due mesi, hanno deciso di arginare le perdite mettendo fine all’esperimento. Sfida che evidentemente, visto il repentino cambio di programma, a loro avviso non aveva basi poi così solide sulle quali svilupparsi.

I giornalisti delle testate concorrenti, pur rammaricati per l’ennesima concreta dimostrazione della crisi del comparto editoriale, probabilmente non si stanno strappando le vesti per la chiusura anticipata di The New Day. Fosse passata l’idea che è sufficiente un team di 25 persone per produrre un quotidiano cartaceo di successo in un breve lasso di tempo, molto probabilmente ciò avrebbe dato il là a numerosi licenziamenti nel nome di riorganizzazioni giustificate da una presunta miglior efficienza oltre che dal contenimento dei costi.

Ciò che è accaduto dimostra ancora una volta quanto risicate siano le certezze del settore legato alla stampa. Nel quale anche una realtà di grande esperienza nell’ambito informativo dà la sensazione di brancolare nel buio nel tentativo di fermare quello che ad oggi sembra un inesorabile declino.

E’ la stampa (di oggi), bellezza.

The New Day: il giornale di carta per l’epoca digitale

Img: thedrum.com

Dopo l’articolo su The Independent delle scorse settimane, torno ad occuparmi della stampa d’Oltremanica. Oggetto del mio approfondimento è stavolta The New Day, il nuovo esperimento firmato Trinity Mirror, lanciato lo scorso 29 febbraio. Si tratta di un quotidiano in edicola dal lunedì al venerdì, il primo giornale cartaceo a pagamento lanciato nel Regno Unito dal 2010. Sono state ben 2 milioni le copie distribuite gratuitamente il primo giorno, precedute da una robusta campagna mediatica che ha visto anche l’utilizzo di radio e tv (5 i milioni di sterline spesi per la pianificazione dell’attività pubblicitaria a supporto del lancio del quotidiano).
Un giornale nuovo nell’approccio e nel formato: non politicamente schierato, senza editoriali né sito web (ma con profili Facebook e Twitter), The New Day è un giornale di 40 pagine appositamente pensato per essere letto in una 30ina di minuti, tempo questo ritenuto il più opportuno in considerazione del “bombardamento” mediatico al quale ognuno di noi è quotidianamente sottoposto.
Anche il linguaggio risulta rinnovato rispetto a quello degli altri giornali: il target di riferimento ha un’età compresa tra i 35 e i 55 anni, persone che – secondo le parole di Alison Phillips, direttrice di The New Day – non comprano più i giornali non perché abbiano smesso di apprezzare la carta stampa, quanto piuttosto perché in edicola non trovano ciò che possa assecondare le loro esigenze.
Un progetto ambizioso, strutturato per riempire il vuoto lasciato dal The Indepenent (che ha optato per il solo online) ma che può essere definito low-cost: le notizie sono le medesime del Daily Mirror e dal Mirror Online, (ri)elaborate dallo staff di 25 giornalisti della nuova testata.
L’obiettivo dichiarato dall’editore – Trinity Mirror ha appena reso noti ricavi in discesa anche per il 2015 – è quello di diventare profitable entro il 2017, attestandosi auspicabilmente sulle 200.000 copie vendute al giorno.

Anche la politica di prezzo, nella sua formulazione, risulta piuttosto aggressiva: dopo la distribuzione gratuita del giorno del lancio, da calendario, il prezzo di The New Day avrebbe dovuto restare per due settimane di 25 centesimi di sterline salvo poi attestarsi sui 50 centesimi.

Il secondo giorno a pagamento, il mercoledì successivo al lancio, il quotidiano ha venduto 148.000 copie, -4% rispetto al giorno precedente. Nel corso dei giorni a seguire le copie sono ancora scese, stabilizzandosi attorno alle 90.000 copie, motivo per il quale l’editore ha deciso di congelare ancora per “qualche settimana” il prezzo di 25 cent, evitando di raddoppiare la cifra per non perdere ulteriori lettori (contemporaneamente, l’editore ha anche scritto una lettera agli edicolanti, chiedendo il loro supporto nella distribuzione del giornale).

Insomma, il progetto a meno di un mese dal lancio deve già affrontare le prime difficoltà. E se all’interno della redazione tutti sperano si tratti di una “normale” flessione dopo i primi giorni di grande visibilità del giornale, qualcuno tra gli addetti ai lavori segnala come in realtà possa non trattarsi di qualcosa di banale. Un’altra delle novità del quotidiano è infatti quella di dar poco spazio alla pubblicità (e di non darlo per nulla agli annunci a pagamento). Motivo per cui il dato delle copie vendute risulta di capitale importanza. Soprattutto se, come riportato dal Guardian, gli spazi pubblicitari di The New Day sono stati proposti agli inserzionisti con la garanzia di un’audience di almeno 200.000 copie, pena il rimborso del 50% di quanto stanziato in advertising.

La speranza che The New Day non si dimostri un azzardo resta ancora viva. Ma la strada per il giornale, alla luce dei primi risultati, se possibile pare ancora più in salita.

Star Touch, quando il tablet vince sul paywall

Recentemente il Financial Times ha “aperto” per un giorno i contenuti del sito dando modo anche ai non abbonati di fruire del materiale informativo della testata.
Nei mesi scorsi anche il Sun e il New York Times hanno almeno parzialmente rivisto la loro strategia in Rete, diminuendo i vincoli per i lettori che arrivano agli articoli dalla condivisione di link attraverso i social media.

Tali iniziative hanno inevitabilmente rimesso al centro dalla discussione tra giornalisti e addetti ai lavori nell’ambito digital, il paywall, il sistema che consente di leggere un numero massimo di articoli gratuiti al mese, barriera strategicamente utilizzata da molti giornali per incentivare gli utenti a sottoscrivere un abbonamento.

Nei mesi scorsi, in un articolo del blog, mi sono soffermato sulla manovra “in retromarcia” effettuata dal primo quotidiano canadese, il Toronto Star che, forte della propria leadership, dapprima ha attivato un paywall salvo poi, alla luce di risultati non soddisfacenti, disconoscere la scelta fatta e tornare a una consultazione gratuita dei contenuti.

In realtà, come già accennavo nella parte finale del post dello scorso aprile, i vertici del giornale non sono tornati esattamente al punto di partenza. L’abbandono del paywall è infatti coinciso con lo sviluppo di una innovativa applicazione (per ora solo disponibile per iPad) lanciata ufficialmente il 15 settembre. Un impegno notevole per la testata che per il progetto, oltre a stanziare un considerevole budget, ha anche reclutato un centinaio di professionisti tra giornalisti, reporter, graphic designer ed esperti di multimedia.

Incuriosito, ho da alcuni giorni installato la app e devo riconoscere che, tra gli applicativi legati al mondo della stampa che avuto modo di provare direttamente, Star Touch – questo il nome della app – risulta a mio parere uno dei più originali e riusciti.

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Una volta effettuato il download ho usato il mio ID Apple per entrare nell’edizione quotidiana del giornale (disponibile della 5:30 del mattino, sui 50 MB di peso). La navigazione tra i contenuti è davvero semplice e intuitiva: la pagina iniziale presenta 4 notizie (al centro il pezzo principale che nel caso del mio primo test riguardava la vittoria in Texas della squadra di baseball dei Toronto Blue Jays), organizzate in 3 colonne. Per procedere nella lettura è sufficiente, un po’ come su Flipboard, scorrere l’indice da destra a sinistra. Nella pagina, l’articolo è mostrato in una colonna a sviluppo verticale ed è posizionato sopra l’immagine di alcuni giocatori festanti alla fine del match (se, tenendo fisso il pollice, allargo l’indice sulla foto di sfondo, questa si ingrandisce a tutta pagina). Il testo di tanto in tanto è spezzato da citazioni esplicative in grassetto su sfondo colorato e, anche per questo, risulta molto leggibile. Sulla destra, la foto dell’autore dell’articolo che, al click, mostra la biografia del giornalista, il suo account Twitter e un form che, configurato con il proprio indirizzo email, consente di scrivere un messaggio a chi ha firmato l’articolo.

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La pagina seguente è un’inserzione a tutto schermo: interessante notare come il contenuto non sia statico ma permetta di interagire visualizzando 5 diversi prodotti (in una sorta di slideshow) e di visitare i relativi minisite (che si aprono a pop-up).
Continuando nella navigazione, ho trovato altri spazi pubblicitari di differenti formati che, se affiancati agli articoli, restano fissi non seguendo il testo nel suo scorrimento.
Da segnalare anche la pagina dedicata alla campagna elettorale per le elezioni federali: la schermata è composta da una galleria di 10 immagini disposte in due righe che sintetizza i momenti recenti più caldi della scena politica canadese.

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Ovunque ci si trovi è possibile, cliccando in alto sul logo della testata, capire a che punto del giornale si è e scorrere, in una carrellata orizzontale, le notizie precedenti e successive. In alto sulla sinistra, invece, affianco al logo per la condivisione dei contenuti, è riconoscibile l’icona delle live news, aggiornamenti rispetto a quanto si sta sfogliando i cui alert possono essere personalizzati sulla base di 4 tematiche (sport, business, entertainment e weather).

Più che piacevole risulta sfogliare le pagine per leggere i contenuti, ascoltare audio (bello il contributo sull’influenza di Shakespeare nella musica che permette di ascoltare brevi clip di differenti artisti), visualizzare foto, video o mappe.

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Non si tratta insomma della replica del quotidiano a stampa quanto piuttosto di materiale pensato e organizzato proprio per l’applicazione, in virtù di un approccio redazionale che scommette su storytelling, interattività e multimedialità.

Persa la sfida legata al paywall, il giornale ha deciso di puntare sull’allargamento della base di lettori più che sugli abbonamenti con il duplice ambizioso obiettivo di attirare l’interesse del pubblico giovane e di tornare a crescere sul versante introiti dall’advertising.

Toronto Star, quando il paywall non è sinonimo di successo

Img: jpress.journalism.ryerson.ca

Oggetto delle riflessioni condivise nel blog sono spesso grandi testate, gruppi editoriali che possiedono ingenti risorse per finanziare la ricerca di approcci innovativi alla Rete. Quella che mi appresto a sintetizzare è invece una di quelle storie che, pur di secondo piano rispetto ai nomi altisonanti del “quarto potere”, offre indubbiamente spunti interessanti da valutare.

Nell’estate del 2013 il quotidiano più diffuso in Canada, il Toronto Star, a seguito del rinnovamento del design del proprio sito di inizio anno, introduce il paywall.
Consentendo di leggere solo 10 articoli gratis al mese, il giornale della Toronto Corp. punta, con gli abbonamenti, a recuperare i mancati introiti della pubblicità a stampa, di giorno in giorno sempre più in declino. Non si tratta di una “barriera” rigida: restano visibili gratuitamente a tutti gran parte degli articoli della homepage oltre ai video e, per utenti che mensilmente rinnovano, con un pagamento automatico, il proprio abbonamento al cartaceo, risulta un interessante servizio aggiuntivo a spese zero. A livello promozionale, tra l’altro, il primo mese di abbonamento è offerto a 0,99 centesimi, che poi diventano 9,99 dollari ogni trenta giorni.

Per la scena canadese la strada intrapresa dal Toronto Star non è una novità. Il paywall è infatti già stato precedentemente adottato da altri giornali molti diffusi nel Paese quali, ad esempio, il National Post e il Globe and Mail, anche se con differenti tipologie di prezzo e offerta.

Qualcosa però non va secondo i piani e così, a poco più di un anno e mezzo di distanza dal lancio, il Toronto Star torna sui propri passi informando gli utenti che il paywall dal 1° aprile non sarà più attivo e che tutti i contenuti della testata torneranno fruibili gratuitamente anche da tablet e mobile. Non si è trattato di un pesce di aprile – come forse qualcuno inizialmente ha pensato – ma, come recita la nota ai lettori, di un aggiustamento della strategia digitale messo in atto dalla testata per venire incontro alle tante richieste da parte di lettori e inserzionisti.

In realtà la decisione non è avvenuta in modo improvviso: già dallo scorso novembre il gruppo proprietario del giornale canadese, analizzando i dati di bilancio (digital revenue con segno meno) aveva annunciato il cambio di rotta che dal paywall avrebbe poi portato – con nuovi ingenti investimenti – a una rinnovata applicazione per tablet (sviluppata in collaborazione con il giornale di Montreal in lingua francese, La Presse) pensata per incentivare una lettura più interattiva, multimediale e multicanale da parte degli utenti.

Ai pochi (maledetti?) e subito, il giornale ha preferito tornare ad adottare un modello finalizzato ad allargare quanto più possibile il bacino di lettori (strizzando indirettamente l’occhio alla pubblicità), puntando in particolare sui giovani utenti, sicuramente più affini a tablet e social network che a un abbonamento a un giornale.

 

[update: Star Touch, quando il tablet vince sul paywall]

Il medium è i (propri) messaggi: la lezione del Financial Times

Whic FT reader are you?

Img: ft.com

Da alcune settimane l’autorevole Financial Times ha adottato una nuova veste per il quotidiano cartaceo e per il proprio spazio online. In occasione del restyling, il NeimanLab ha pubblicato una lunga intervista a Gillian Tett, U.S. managing editor del FT, dalla quale emerge come la caratteristica primaria dell’approccio adottato dal giornale economico-finanziario inglese sia la flessibilità.
In sintesi, oggi non è più sufficiente limitarsi a proporre la testata come digital-first e/o digitally focused, ma il giornale entra davvero nell’era digitale nel momento in cui riesce a far fronte alle diverse esigenze degli utenti.
Se è vero che l’evoluzione dalla stampa al digitale coinvolge molti lettori (ma non ancora tutti, per cui al momento non si può ancora prescindere dal quotidiano cartaceo), è altrettanto vero che nell’arco della giornata uno stesso utente si informa utilizzando differenti strumenti. L’unità di misura della stampa, il lettore, è oggi una realtà decisamente complessa: è il singolo individuo infatti, nel proprio consumo di notizie, ad essere sfaccettato.
La mattina, ad esempio, tra una riunione e l’altra, l’utente desidera essere aggiornato con tempestività e sintesi sulle breaking news, notizie da scorrere facilmente con lo smartphone (proprio sulla base di questa necessità sono declinate le opzioni fastFT e FT Antenna del Financial Times). La sera, invece, al termine di una giornata lavorativa, avendo maggior tempo a disposizione, può voler optare per le cosiddette “big page”, articoli lunghi e dettagliati che presentano il contesto nel quale gli avvenimenti principali si sviluppano.

Il digitale, in altre parole, accompagna l’evoluzione del giornale che – come dimostra l’esempio del FT – sta iniziando a proporsi come un’entità camaleontica in grado di adattare linguaggio e contenuti in base alle richieste dagli utenti. La celebre espressione di McLuhan: “il medium è il messaggio” forse andrebbe aggiornata con una versione 2.0 del tipo “il medium è… i (propri) messaggi”.

La flessibilità va intesa però come punto di arrivo non di partenza. A precederla, due “leve” alla base anche degli sviluppi del FT: la capacità di analizzare i dati a disposizione per individuare le esigenze del proprio bacino di lettori; e quella di innovare, creando nuovi strumenti (in questo senso da seguire gli sviluppo della collaborazione sui wearable device, gli strumenti che si indossano, tra FT e Samsung Gear) in grado di migliorare la fruizione delle notizie.

Le storie più che le notizie salveranno il giornalismo?

Alcune settimane orsono, il Washington Post ha lanciato Storyline, una nuova iniziativa editoriale che propone su web il giornalismo narrativo alla Truman Capote.
In estrema sintesi, si tratta di raccontare storie (spesso legate ad un singolo individuo) attraverso le quali semplificare temi complessi. Non necessariamente fatti legati alle breaking news, le analisi approfondiscono una questione di pubblico interesse con frasi semplici, tono accessibile e precise spiegazioni di tutti i concetti espressi. Pezzi che sin dal titolo si pongono come obiettivo quello di trovare la risposta a una precisa domanda, superando lo sterile dibattito della politica e della finanza e preferendo concentrarsi – anche grazie a materiale multimediale e tabelle di dati – sull’impatto di una determinata questione nella vita di tutti i giorni delle persone. Storie che non si esauriscono nella pubblicazione dell’articolo ma che, nel corso delle settimane, seguono gli sviluppi della vicenda segnalata.

Il progetto, annunciato lo scorso gennaio, ha avuto il via ufficiale a fine luglio sotto l’egida di Jim Tankersley, giornalista economico del giornale. Proseguendo la strada già intrapresa dal New York Times con The Upshot e da ESPN con Five Thirthy Eight, è stato dallo stesso Tankersley così presentato:

“We care about policy as experienced by people across America. About the problems in people’s lives that demand a shift from government policymakers and about the way policies from Washington are shifting how people live.”

La lunga genesi di Storyline è probabilmente dovuta in parte allo stato di crisi del giornale e i timori pre-Bezos della testata circa il lancio di nuove iniziative, in parte all’uscita di scena della redazione dal WaPo con direzione Vox.com di Ezra Klein, (giovane e brillante) giornalista che nel 2011 lanciò Wonkblog, il blog di maggior successo della testata, diventato punto di riferimento proprio per la sua capacità di affrontare in maniera diretta e con semplicità temi “caldi” per il grande pubblico americano quali l’assistenza sanitaria (suo è anche l’interessante esperimento Know More di cui ho scritto qui).

E se fosse proprio lo storytelling l’antidoto per contribuire a salvare il giornalismo?

In un mondo, quello delle Rete, nel quale sono moltissimi gli spazi che aggiornano su ciò che sta accadendo nel mondo, la vera differenza per gli utenti la fanno i siti che “formano” più che “informano”, che riescono cioè a sviscerare i fatti affrontandoli con semplicità, che consentono di “capire” oltre che di “conoscere”.
Il lancio di agenzia è certo utile, ma da solo non poi così costruttivo.

Giornali e blog di testata: un rapporto in evoluzione

Img: heartland.org

Il fenomeno dei blog nacque nella metà degli anni Novanta e più precisamente quando, nel 1994, Justin Hall, allora studente dello Swarthmore College, iniziò a raccontare la propria vita e le proprie avventure nella Rete in una sorta di diario online. Justin’s Links from the Underground, questo il nome dello spazio Web, è comunemente accettato quale primo rudimentale prototipo di blog.
Per le versioni più simili a quelle attualmente in uso occorrerà tuttavia attendere sino al 1999 quando Evan Williams e Meg Hourihan lanciarono Blogger, società poi acquistata nel 2003 da Google.
I blog, nel corso degli anni, hanno fatto registrare un notevole successo, contribuendo non poco all’evoluzione della Rete e, di riflesso, del giornalismo e della professione giornalistica. L’esempio forse più eclatante in questo senso è l’Huffington Post ma, in generale, tutte le testate hanno attinto a piene mani dalla blogosfera, sia in termini di forma che di sostanza.

Alcune settimane fa però, uno tra i più autorevoli giornali ha in realtà fatto un passo indietro. Il New York Times ha infatti annunciato la decisione di diminuire (gradatamente) il numero di blog della testata, unendo quelli che affrontano tematiche più simili ed eliminando quelli non ritenuti più interessanti. Che cosa si cela dietro la decisione di uno degli spazi informativi più all’avanguardia di ridimensionare la propria componente blog? Immagino che la scelta derivi da una serie di considerazioni, non da un’unica causa scatenante, ma resta il fatto che mi ha davvero colpito leggere della decisione del NYT. Cercando maggiori informazioni, ho capito che alla base vi siano delle valutazioni sul traffico generato (per alcuni blog le visite erano poche se paragonate a quelle fatte registrare dagli spazi più seguiti), sulla frequenza di pubblicazione (non tutti i blog erano così frequentemente aggiornati) e sulla qualità dei post (diminuendo il numero dei blog ci si può concentrare su un numero complessivo minore di articoli qualitativamente migliori). Altra discriminante potrebbe essere stata quella dei link di arrivo ai blog: a quanto pare, gli utenti, per la stragrande maggioranza dei casi, visitano i blog tramite click sui link della homepage o vi giungono da collegamenti condivisi, pochissimi sono gli utenti che nella lettura partono direttamente dai blog. Infine, dal punto di vista tecnico, il software utilizzato per i blog del giornale pare non sia perfettamente compatibile con il design utilizzato per gli articoli della testata.
Il cambiamento intrapreso rappresenta l’inizio di un ridimensionamento dei blog da parte delle redazioni storiche?
Stando alle parole di Ian Fisherassistant managing editor al NYT – il giornale non vuole rinunciare all’aspetto conversazionale dei post. Solo, per ottimizzare le risorse, sta vagliando nuove modalità attraverso le quali inserire i contributi del proprio network di blog all’interno del flusso delle notizie, evitando così l’isolamento dei weblog a qualcosa di “altro” rispetto agli articoli del quotidiano online.

Obiettivo più che legittimo, resta da capire però come (e se) sia possibile sfruttare al meglio i blog senza snaturarne gli aspetti salienti che li differenziano, per tono, linguaggio e modalità di scrittura, dalle storie comunemente raccontate in un giornale.

News via Whatsapp, ci prova l’Oxford Mail

theguardian.com

Uno dei fronti più caldi degli ultimi anni è quello della cosiddetta “internet in mobilità”. Tra coloro che si occupano di comunicazione e advertising, il mobile rappresenta, almeno potenzialmente, una delle opportunità più ghiotte sulle quali scommettere. Smartphone e tablet sono sempre più diffusi, le connessioni proposte dagli operatori sempre più veloci, i costi mediamente accessibili, ormai per molte persone il web non è più unicamente sinonimo di personal computer. Ovviamente anche il mondo del giornalismo osserva con attenzione gli sviluppi del comparto, tentando di individuare le eventuali possibilità per adattarsi ai nuovi strumenti e sfruttarne appieno le caratteristiche.
Alle applicazioni delle varie testate sui circuiti Google Play, iTunes o sviluppate in maniera indipendente, gratuite o a pagamento, da alcune settimane si è affiancato un interessante esperimento del quotidiano locale Oxford Mail.
Dallo scorso 2 giugno è infatti attivo un servizio tramite il quale la testata inglese comunica con i propri lettori anche tramite WhatsApp, la app di messaggistica istantanea che, sfruttando la connessione alla Rete, consente di scambiare messaggi con i propri contatti senza dover pagare il costo degli SMS.
Il lettore interessato, aggiungendo alla propria rubrica il numero del giornale e indicando NEWS o SPORT (o entrambe le tematiche), riceverà le notizie della testata nel proprio telefonino. Al momento, per non risultare troppo invasivi, la comunicazione si limita a un messaggio di prima mattina contenente le 5/6 storie principali (titoli e link) e l’immagine della prima pagina, al quale seguono eventualmente, nel corso della giornata, le breaking news più rilevanti.
L’esperimento, nelle previsioni dei responsabili della testata, punta ad entrare in contatto più diretto con i lettori utilizzando uno strumento nel quale la concorrenza – a differenza di Twitter e Facebook – è al momento sicuramente meno agguerrita se non del tutto inesistente. Il superamento dei 250 contatti con i quali chattare contemporaneamente, invece, è un problema facilmente risolvibile creando un nuovo gruppo di utenti.

Nulla di nuovo, sistemi di alert che diffondono le notizie o ci informano di nuovi contenuti sono già molto utilizzati (dalle email agli RSS, dagli SMS alle notifiche).

Due però gli aspetti che mi hanno incuriosito: la comunicazione delle notizie via WhatsApp mira a raggiungere i lettori in un luogo (virtuale) nel quale sono soliti comunicare con amici e conoscenti. Le redazioni, quindi, seguono gli utenti in un terreno “incontaminato”, sarà interessante capire come i contenuti e le modalità comunicative si adatteranno a questo nuovo canale.
In secondo luogo, i responsabili del progetto dell’Oxford Mail, hanno tenuto a precisare che WhatsApp non rappresenta un’alternativa agli altri social media utilizzati dalla testata quanto uno strumento che si aggiunge a quelli già in uso e che dimostra la dinamicità del giornale nel far proprie le diverse possibilità tecnologiche offerte oggi agli utenti.

Un esperimento simile è stato messo in pratica dalla BBC News in India nel corso delle elezioni di aprile/maggio per le quali la redazione, oltre a WhatsApp, ha utilizzato anche WeChat allo scopo di raccogliere le opinioni degli elettori e di distribuire al contempo informazioni (video, grafici, interviste) sulla tornata elettorale.

I numeri sono ancora ridotti ma si intravedono buone potenzialità: se è vero che il numero dei messaggi al giorno per non essere considerato spam è da considerarsi nell’ordine delle poche unità, il tasso di interazione degli utenti con i link proposti risulta piuttosto elevato e quello di abbandono del servizio basso.

Il prossimo passo, già tracciato, sarà quello di utilizzare WhatsApp non solo per inviare le notizie ma per raccogliere con maggiore semplicità ed immediatezza le segnalazioni degli utenti rendendoli più partecipi del flusso informativo.

[update: il 9 gennaio 2015 anche la Repubblica ha lanciato un servizio di breaking news via WhatsApp]

L’innovazione del giornalismo secondo il New York Times

Img: mashable.com

Da un mese a questa parte uno dei documenti più discussi tra coloro che occupano di media è l’Innovation Report del New York Times, un pdf di 97 pagine che traccia lo status attuale del famoso quotidiano statunitense identificando le nuove sfide che il giornale dovrà affrontare sin da subito per rispondere alla sempre più agguerrita concorrenza su web.

Se l’obiettivo della testata resta sempre quello di produrre il miglior giornalismo, sin dalle prime righe appare chiaro come il Times necessiti di una nuova strategia, un moderno atteggiamento che possa far fronte alla diminuzione del bacino di lettori (non solo del sito ma anche della app) fatta registrare i primi mesi del 2014.

Il successo del paywall offre la stabilità economica necessaria per continuare a rinnovare il giornale proseguendo la ricerca di un nuovo equilibrio lontano dalla tradizione carto-centrica sulle cui basi la testata ha costruito i suoi più rilevanti successi. Si tratta di una transizione che, adottando l’approccio del digital first porta, ad esempio, ad utilizzare per il giornale a stampa i migliori contenuti digitale, non viceversa.

Il nuovo modus operandi si basa su tre concetti fondamentali: discovery, promotion e connection. In sintesi: studiare come proporre e distribuire i contenuti, come attirare l’attenzione degli utenti, come creare relazioni durature e continuative con i lettori.

Lettori che in percentuali sempre più alte utilizzano tablet e smartphone per informarsi, e che arrivano alle notizie più dai social network che dalla hompege del sito (nonostante i vari restyling, solo 1/3 dei lettori visita la “prima pagina” su web del giornale).
L’audience va quindi cercata, l’edizione cartacea funge sono in pochissimi casi da traino per il sito online. I giovani lettori, in particolare, stanno abbandonando la navigazione a favore dei social media: “se qualcosa è importante, mi troverà”, lasciano siano le notizie a raggiungerli piuttosto che operarsi per trovare il contenuto a loro più adatto.

Focalizzarsi sui lettori è condizione necessaria ma non sufficiente, occorre infatti ripensare anche i contenti e alle modalità con le quali le notizie sono proposte. Ancora troppo spesso i giornalisti pensano che il proprio compito si esaurisca con la pubblicazione del pezzo. In realtà, come dimostra il successo Huffington Post (e l’attenzione posta dalla redazione alla fasi successive la messa online dell’articolo), la vita di un contributo inizia con la diffusione pubblica su web, non si esaurisce semplicemente con l’upload.

In generale, quindi, va ripensato il modo di proporre le news. Il traffico generato da una notizia scema drammaticamente dopo un solo giorno dalla pubblicazione. Occorre vagliare nuove soluzioni per allungare il “tempo di interesse” delle informazioni proposte, facendo in modo che gli articoli siano più utili, più rilevanti, più propensi alla condivisione da parte degli utenti.

Senza dimenticare gli aspetti legati alla personalizzazione delle notizie, sulla cui tecnologia molti sono i player (da Facebook Paper al Washington Post) che stanno investendo.

Che si tratti o meno della versione definitiva del documento presentato al management della New York Times Company, il testo raccoglie molti spunti interessanti che dimostrano come la sfida del web non sia ancora vinta appieno e non vi siano molte certezze nemmeno per un gruppo solido come quello del Times chiamato ogni giorno a rimettersi in gioco continuamente.

Il futuro incerto di Libération specchio dell’attuale momento dell’editoria?

Img: theguardian.com

Pensando al giornalismo online la mia mente rimanda subito, quasi inconsciamente, all’esperienza statunitense. Non necessariamente perché sia la migliore ma forse perché gli USA – come ha scritto Danilo Taino sul Corriere della Sera – rappresentano “forse il Paese più avanzato e sofisticato in termini di utilizzo dell’informazione digitale”.
Quando riesco, però, tento di aggiornarmi anche sulle redazioni a noi più vicine (sia in senso geografico che di prossimità delle dinamiche legate al sistema informativo). In questi giorni, per esempio, mi sono appassionato alle vicende legate a Libération, lo storico giornale francese (co)fondato, nel 1973, dal filosofo Jean-Paul Sartre.
Anche l’editoria francese, come quella nostrana, sta attraverso un momento molto difficile: il calo di lettori dei quotidiani a stampa e la contrazione degli investimenti pubblicitari minano la sopravvivenza dei giornali.
Gli azionisti di Libération, per arginare il passivo in continua crescita della testata, decidono di operare cambi radicali nella gestione del quotidiano. Due su tutti: trasformare la prestigiosa sede in un centro culturale trasferendo gli uffici in un’altra zona di Parigi; cambiare l’approccio del giornale alle notizie avvicinandolo maggiormente alle dinamiche tipiche dei social media nel tentativo di individuare una piattaforma multimediale remunerativa (un BuzzFeed in salsa francese?).
I giornalisti non ci stanno e a distanza di meno di una settimana dall’annuncio proclamano uno sciopero di 24 ore. Il giorno che precede la protesta la redazione opta per una prima pagina di impatto: “Noi siamo il giornale. Non un ristorante, non un social network, non uno studio TV, non un bar, non un incubatore di startup”. Anche nelle pagine interne i giornalisti non usano giri di parole per esprimere le loro preoccupazioni per un progetto che minaccia di ridurre la testata a un “mero” brand.
La sfida pare infatti giocarsi non tanto sul piano di tagli, pensionamenti e decurtazioni di salario – proposte certo non ben digerite dallo staff – quanto sul piano predisposto dalla dirigenza per Libération, poco incline, secondo i lavoratori, alla linea editoriale di qualità che ha da sempre caratterizzato la testata.
Passano i giorni e lo scontro, fattosi sempre più aspro, culmina nelle dimissioni del (giovane) direttore del giornale Nicolas Demorand che, indicato dai giornalisti come parte del problema, si vede negare la pubblicazione di un proprio articolo sui cambiamenti pronosticati per la testata. All’insubordinazione dei giornalisti di Libération, Demorand risponde non solo gettando la spugna ma rilasciando un’intervista al “rivale” Le Monde nella quale dichiara di aver tentato invano di portare al passo con i tempi un giornale ancorato al formato a stampa.

Libération nel corso degli anni ha ammorbidito la propria posizione, mitigando le idee inizialmente radicate nel pensiero politicamente vicino a quella che in Italia chiameremmo l’estrema sinistra. Resta un giornale a vocazione anti-establishment che pare tuttavia non avere l’appeal necessario per attirare i giovani (che preferiscono informarsi online attraverso altre testate).
Se, come sottolineato da Natalie Nougayrède, editor-in-chief di Le Monde, mai come oggi si ha bisogno di giornalismo di qualità, quali le scelte più idonee per rendere l’informazione (anche nettamente schierata) sostenibile? Rien ne va plus?