Magazine sempre più “quotidiani”: il caso The New Yorker

Img: newyorker.com

Nel mio seguire gli sviluppi dell’informazione online, quasi involontariamente, finisco per concentrarmi spesso sui quotidiani a discapito dei magazine, quelli che forse hanno sentito ancora di più il passaggio dalla carta stampata al digitale.
Ecco perché quando ho letto del restyling del famoso The New Yorker dello scorso luglio ho voluto approfondire la nuova strategia della nota rivista fondata da Harold Ross.
Il cambio di veste grafica, incentrato sul concetto di user experience, ha reso la fruizione dei contenuti molto più accattivante: indipendentemente dallo strumento utilizzato, i lettori hanno ora a disposizione uno spazio nel quale testi, immagini e video si alternano in maniera semplice, pulita e ordinata.
Per fare in modo che quanti più utenti potessero scoprire le novità, il magazine ha deciso di aprire il proprio archivio dando l’opportunità a chiunque di leggere ogni singolo articolo pubblicato dal 2007 (la testata ha invitato gli utenti a stilare la propria classifica, in molti hanno iniziato a proporre la propria lista di articoli preferiti condividendoli nei social network). L’operazione, della durata di 3 mesi e frutto della sponsorizzazione di alcuni brand come Haagen-Dazs che collaborano da tempo con la rivista, anticiperà entrata in vigore del paywall, il sistema in uso in molti giornali che consente agli utenti non registrati di leggere solo un determinato numero di articoli al mese. Ne seguirà lo sviluppo Charl Porter, che proprio dell’implementazione di un sistema analogo si era occupato al Financial Times, la sua precedente realtà lavorativa prima di entrare a Condé Nast.
L’apertura degli archivi a tutti gli utenti non è solo un tentativo di rilanciare il settimanale quanto piuttosto una scelta strategica per ricavare dati dalla cui analisi capire quali siano le preferenze dei lettori per calibrare così al meglio il paywall che dall’autunno sarà adottato dalla rivista.
Non è ancora chiaro se il paywall sarà esteso a tutti i contenuti e a tutte le sezioni del sito ma, sicuramente, rappresenta un passo in avanti rispetto alla strategia adottata dalla redazione che, sino a non molto tempo fa, per decidere quale pezzo pubblicare, ad ogni numero cartaceo riuniva i giornalisti attorno a un tavolo per scegliere gli articoli da caricare nel sito e quelli da invece riservare alla sola stampa tradizionale.

In un messaggio ai lettori pubblicato nel sito, si spiega come il sito web punti a diventare nel corso del tempo un’entità sempre più indipendente dal cartaceo: le 15 storie inedite pubblicate ogni giorno online cresceranno di numero e si affiancheranno a nuove rubriche quali il Daily Cultural Comment, per raccontare in maniera migliore i fatti del mondo e dar modo anche ai lettori del cartaceo di avere a disposizione contenuti diversi e multimediali (podcast, video, grafici interattivi e slide show). Ad oggi il 60/70% degli articoli online sono frutto del lavoro di freelance, l’obiettivo a lungo termine è quello di diminuire tale quota sfruttando al meglio lo staff “interno” a disposizione.

Una sfida non da poco quella del New Yorker e degli altri periodici: produrre continuamente nuovi contenuti capaci di incontrare i favori del pubblico (trasformandosi, almeno in parte, in quotidiani) mantenendo inalterate identità e autorevolezza.

Le storie più che le notizie salveranno il giornalismo?

Alcune settimane orsono, il Washington Post ha lanciato Storyline, una nuova iniziativa editoriale che propone su web il giornalismo narrativo alla Truman Capote.
In estrema sintesi, si tratta di raccontare storie (spesso legate ad un singolo individuo) attraverso le quali semplificare temi complessi. Non necessariamente fatti legati alle breaking news, le analisi approfondiscono una questione di pubblico interesse con frasi semplici, tono accessibile e precise spiegazioni di tutti i concetti espressi. Pezzi che sin dal titolo si pongono come obiettivo quello di trovare la risposta a una precisa domanda, superando lo sterile dibattito della politica e della finanza e preferendo concentrarsi – anche grazie a materiale multimediale e tabelle di dati – sull’impatto di una determinata questione nella vita di tutti i giorni delle persone. Storie che non si esauriscono nella pubblicazione dell’articolo ma che, nel corso delle settimane, seguono gli sviluppi della vicenda segnalata.

Il progetto, annunciato lo scorso gennaio, ha avuto il via ufficiale a fine luglio sotto l’egida di Jim Tankersley, giornalista economico del giornale. Proseguendo la strada già intrapresa dal New York Times con The Upshot e da ESPN con Five Thirthy Eight, è stato dallo stesso Tankersley così presentato:

“We care about policy as experienced by people across America. About the problems in people’s lives that demand a shift from government policymakers and about the way policies from Washington are shifting how people live.”

La lunga genesi di Storyline è probabilmente dovuta in parte allo stato di crisi del giornale e i timori pre-Bezos della testata circa il lancio di nuove iniziative, in parte all’uscita di scena della redazione dal WaPo con direzione Vox.com di Ezra Klein, (giovane e brillante) giornalista che nel 2011 lanciò Wonkblog, il blog di maggior successo della testata, diventato punto di riferimento proprio per la sua capacità di affrontare in maniera diretta e con semplicità temi “caldi” per il grande pubblico americano quali l’assistenza sanitaria (suo è anche l’interessante esperimento Know More di cui ho scritto qui).

E se fosse proprio lo storytelling l’antidoto per contribuire a salvare il giornalismo?

In un mondo, quello delle Rete, nel quale sono moltissimi gli spazi che aggiornano su ciò che sta accadendo nel mondo, la vera differenza per gli utenti la fanno i siti che “formano” più che “informano”, che riescono cioè a sviscerare i fatti affrontandoli con semplicità, che consentono di “capire” oltre che di “conoscere”.
Il lancio di agenzia è certo utile, ma da solo non poi così costruttivo.

Branded content e native advertising: differenze e punti di contatto

Nelle scorse settimane una giornalista che collabora con un mensile che si occupa di strategie di comunicazione mi ha contattato per chiedermi un commento sul native advertising. Tra le domande alle quali con piacere ho risposto, una mi è particolarmente dispiaciuto che non abbia trovato spazio nell’articolo sul rapporto tra editoria e pubblicità. Ho così deciso di riproporre i miei ragionamenti in un post. La questione sollevata dalla mia interlocutrice è stata molto semplice e diretta: qual è la differenza tra branded content e native advertising?

Il fenomeno dei contenuti brandizzati è esploso con la diffusione virale di video su YouTube creati dagli utenti. Non che prima non esistessero, ma è proprio grazie all’avvento dei social network che, in virtù della semplicità con la quale è possibile condividere un contributo, i numeri sono diventati rilevanti. Star Wars Kid, Numa Numa ed Evolution of Dance sono solo alcuni esempi di contenuti che registrano milioni di visualizzazioni frutto del passaparola spontaneo. Tali successi hanno inevitabilmente attirato l’attenzione dei brand che cominciano così a sperimentare realizzando video che puntano sulla diffusione “virale” nella Rete: contenuti con lo scopo di sorprendere più che di presentare un prodotto e le sue caratteristiche. Nascono così i Viral Branded Video che, giocando su originalità ed emozione, fanno leva sugli utenti (e sulle loro condivisioni ad amici, conoscenti e familiari) per diffondere i clip.
Uno degli esempi di branded content che ultimamente ha fatto più parlare di sé è il video First Kiss che con oltre 87 milioni di visualizzazioni ha colpito molti utenti (il video riprende 20 sconosciuti ai quali viene chiesto di baciarsi). Nei giorni successivi alla pubblicazione, quando il contenuto era già diventato un tormentone, si è scoperto come in realtà i protagonisti fossero attori e che si tratta dell’operazione pubblicitaria – davvero ben riuscita – di Wren, brand di moda di Los Angeles.

Il native advertising, invece, si rifà ai media tradizionali, mettendo in contatto la marca e le redazioni per creare contenuti che possano suscitare l’interesse degli utenti sfruttando l’autorevolezza della testata nella quale compaiono. E’ una forma di comunicazione che ancora deve trovare degli standard ben definiti ma che, in generale, si presenta sotto forma di contributi (articoli ma anche video o foto) sponsorizzati. Gli esperimenti in questo senso più interessanti a mio modo di vedere sono quelli che, un po’ come per alcuni dei viral branded video di maggior successo, alludono a un prodotto senza però limitarsi a mostrarne le peculiarità. Per cui, ad esempio, una delle prime “uscite” del native advertising è nata dalla collaborazione tra un noto brand di computer (Dell) con una famosa testata (New York Times) che ha pubblicato nel giornale un paid post sulle nuove generazioni e il loro modo di lavorare in mobilità.

Brand content e native adv fanno quindi riferimento a forme espressive differenti. Hanno tuttavia un punto in comune: il superamento dei classici format pubblicitari. Il fine ultimo di queste due modalità è infatti quello di entrare nel flusso comunicativo-informativo di solito precluso alla pubblicità. Le inserzioni, anche online, sono relegate entro precisi confini che gli utenti, nel corso degli anni, hanno ben imparato a conoscere (ed evitare?). Riuscire a trasformare in notizia qualcosa che richiami, direttamente o indirettamente, una marca o un prodotto, consentirebbe al messaggio di svincolarsi da banner e affini aumentandone così, almeno potenzialmente, l’efficacia.

Giornali e blog di testata: un rapporto in evoluzione

Img: heartland.org

Il fenomeno dei blog nacque nella metà degli anni Novanta e più precisamente quando, nel 1994, Justin Hall, allora studente dello Swarthmore College, iniziò a raccontare la propria vita e le proprie avventure nella Rete in una sorta di diario online. Justin’s Links from the Underground, questo il nome dello spazio Web, è comunemente accettato quale primo rudimentale prototipo di blog.
Per le versioni più simili a quelle attualmente in uso occorrerà tuttavia attendere sino al 1999 quando Evan Williams e Meg Hourihan lanciarono Blogger, società poi acquistata nel 2003 da Google.
I blog, nel corso degli anni, hanno fatto registrare un notevole successo, contribuendo non poco all’evoluzione della Rete e, di riflesso, del giornalismo e della professione giornalistica. L’esempio forse più eclatante in questo senso è l’Huffington Post ma, in generale, tutte le testate hanno attinto a piene mani dalla blogosfera, sia in termini di forma che di sostanza.

Alcune settimane fa però, uno tra i più autorevoli giornali ha in realtà fatto un passo indietro. Il New York Times ha infatti annunciato la decisione di diminuire (gradatamente) il numero di blog della testata, unendo quelli che affrontano tematiche più simili ed eliminando quelli non ritenuti più interessanti. Che cosa si cela dietro la decisione di uno degli spazi informativi più all’avanguardia di ridimensionare la propria componente blog? Immagino che la scelta derivi da una serie di considerazioni, non da un’unica causa scatenante, ma resta il fatto che mi ha davvero colpito leggere della decisione del NYT. Cercando maggiori informazioni, ho capito che alla base vi siano delle valutazioni sul traffico generato (per alcuni blog le visite erano poche se paragonate a quelle fatte registrare dagli spazi più seguiti), sulla frequenza di pubblicazione (non tutti i blog erano così frequentemente aggiornati) e sulla qualità dei post (diminuendo il numero dei blog ci si può concentrare su un numero complessivo minore di articoli qualitativamente migliori). Altra discriminante potrebbe essere stata quella dei link di arrivo ai blog: a quanto pare, gli utenti, per la stragrande maggioranza dei casi, visitano i blog tramite click sui link della homepage o vi giungono da collegamenti condivisi, pochissimi sono gli utenti che nella lettura partono direttamente dai blog. Infine, dal punto di vista tecnico, il software utilizzato per i blog del giornale pare non sia perfettamente compatibile con il design utilizzato per gli articoli della testata.
Il cambiamento intrapreso rappresenta l’inizio di un ridimensionamento dei blog da parte delle redazioni storiche?
Stando alle parole di Ian Fisherassistant managing editor al NYT – il giornale non vuole rinunciare all’aspetto conversazionale dei post. Solo, per ottimizzare le risorse, sta vagliando nuove modalità attraverso le quali inserire i contributi del proprio network di blog all’interno del flusso delle notizie, evitando così l’isolamento dei weblog a qualcosa di “altro” rispetto agli articoli del quotidiano online.

Obiettivo più che legittimo, resta da capire però come (e se) sia possibile sfruttare al meglio i blog senza snaturarne gli aspetti salienti che li differenziano, per tono, linguaggio e modalità di scrittura, dalle storie comunemente raccontate in un giornale.

News via Whatsapp, ci prova l’Oxford Mail

theguardian.com

Uno dei fronti più caldi degli ultimi anni è quello della cosiddetta “internet in mobilità”. Tra coloro che si occupano di comunicazione e advertising, il mobile rappresenta, almeno potenzialmente, una delle opportunità più ghiotte sulle quali scommettere. Smartphone e tablet sono sempre più diffusi, le connessioni proposte dagli operatori sempre più veloci, i costi mediamente accessibili, ormai per molte persone il web non è più unicamente sinonimo di personal computer. Ovviamente anche il mondo del giornalismo osserva con attenzione gli sviluppi del comparto, tentando di individuare le eventuali possibilità per adattarsi ai nuovi strumenti e sfruttarne appieno le caratteristiche.
Alle applicazioni delle varie testate sui circuiti Google Play, iTunes o sviluppate in maniera indipendente, gratuite o a pagamento, da alcune settimane si è affiancato un interessante esperimento del quotidiano locale Oxford Mail.
Dallo scorso 2 giugno è infatti attivo un servizio tramite il quale la testata inglese comunica con i propri lettori anche tramite WhatsApp, la app di messaggistica istantanea che, sfruttando la connessione alla Rete, consente di scambiare messaggi con i propri contatti senza dover pagare il costo degli SMS.
Il lettore interessato, aggiungendo alla propria rubrica il numero del giornale e indicando NEWS o SPORT (o entrambe le tematiche), riceverà le notizie della testata nel proprio telefonino. Al momento, per non risultare troppo invasivi, la comunicazione si limita a un messaggio di prima mattina contenente le 5/6 storie principali (titoli e link) e l’immagine della prima pagina, al quale seguono eventualmente, nel corso della giornata, le breaking news più rilevanti.
L’esperimento, nelle previsioni dei responsabili della testata, punta ad entrare in contatto più diretto con i lettori utilizzando uno strumento nel quale la concorrenza – a differenza di Twitter e Facebook – è al momento sicuramente meno agguerrita se non del tutto inesistente. Il superamento dei 250 contatti con i quali chattare contemporaneamente, invece, è un problema facilmente risolvibile creando un nuovo gruppo di utenti.

Nulla di nuovo, sistemi di alert che diffondono le notizie o ci informano di nuovi contenuti sono già molto utilizzati (dalle email agli RSS, dagli SMS alle notifiche).

Due però gli aspetti che mi hanno incuriosito: la comunicazione delle notizie via WhatsApp mira a raggiungere i lettori in un luogo (virtuale) nel quale sono soliti comunicare con amici e conoscenti. Le redazioni, quindi, seguono gli utenti in un terreno “incontaminato”, sarà interessante capire come i contenuti e le modalità comunicative si adatteranno a questo nuovo canale.
In secondo luogo, i responsabili del progetto dell’Oxford Mail, hanno tenuto a precisare che WhatsApp non rappresenta un’alternativa agli altri social media utilizzati dalla testata quanto uno strumento che si aggiunge a quelli già in uso e che dimostra la dinamicità del giornale nel far proprie le diverse possibilità tecnologiche offerte oggi agli utenti.

Un esperimento simile è stato messo in pratica dalla BBC News in India nel corso delle elezioni di aprile/maggio per le quali la redazione, oltre a WhatsApp, ha utilizzato anche WeChat allo scopo di raccogliere le opinioni degli elettori e di distribuire al contempo informazioni (video, grafici, interviste) sulla tornata elettorale.

I numeri sono ancora ridotti ma si intravedono buone potenzialità: se è vero che il numero dei messaggi al giorno per non essere considerato spam è da considerarsi nell’ordine delle poche unità, il tasso di interazione degli utenti con i link proposti risulta piuttosto elevato e quello di abbandono del servizio basso.

Il prossimo passo, già tracciato, sarà quello di utilizzare WhatsApp non solo per inviare le notizie ma per raccogliere con maggiore semplicità ed immediatezza le segnalazioni degli utenti rendendoli più partecipi del flusso informativo.

[update: il 9 gennaio 2015 anche la Repubblica ha lanciato un servizio di breaking news via WhatsApp]

L’innovazione del giornalismo secondo il New York Times

Img: mashable.com

Da un mese a questa parte uno dei documenti più discussi tra coloro che occupano di media è l’Innovation Report del New York Times, un pdf di 97 pagine che traccia lo status attuale del famoso quotidiano statunitense identificando le nuove sfide che il giornale dovrà affrontare sin da subito per rispondere alla sempre più agguerrita concorrenza su web.

Se l’obiettivo della testata resta sempre quello di produrre il miglior giornalismo, sin dalle prime righe appare chiaro come il Times necessiti di una nuova strategia, un moderno atteggiamento che possa far fronte alla diminuzione del bacino di lettori (non solo del sito ma anche della app) fatta registrare i primi mesi del 2014.

Il successo del paywall offre la stabilità economica necessaria per continuare a rinnovare il giornale proseguendo la ricerca di un nuovo equilibrio lontano dalla tradizione carto-centrica sulle cui basi la testata ha costruito i suoi più rilevanti successi. Si tratta di una transizione che, adottando l’approccio del digital first porta, ad esempio, ad utilizzare per il giornale a stampa i migliori contenuti digitale, non viceversa.

Il nuovo modus operandi si basa su tre concetti fondamentali: discovery, promotion e connection. In sintesi: studiare come proporre e distribuire i contenuti, come attirare l’attenzione degli utenti, come creare relazioni durature e continuative con i lettori.

Lettori che in percentuali sempre più alte utilizzano tablet e smartphone per informarsi, e che arrivano alle notizie più dai social network che dalla hompege del sito (nonostante i vari restyling, solo 1/3 dei lettori visita la “prima pagina” su web del giornale).
L’audience va quindi cercata, l’edizione cartacea funge sono in pochissimi casi da traino per il sito online. I giovani lettori, in particolare, stanno abbandonando la navigazione a favore dei social media: “se qualcosa è importante, mi troverà”, lasciano siano le notizie a raggiungerli piuttosto che operarsi per trovare il contenuto a loro più adatto.

Focalizzarsi sui lettori è condizione necessaria ma non sufficiente, occorre infatti ripensare anche i contenti e alle modalità con le quali le notizie sono proposte. Ancora troppo spesso i giornalisti pensano che il proprio compito si esaurisca con la pubblicazione del pezzo. In realtà, come dimostra il successo Huffington Post (e l’attenzione posta dalla redazione alla fasi successive la messa online dell’articolo), la vita di un contributo inizia con la diffusione pubblica su web, non si esaurisce semplicemente con l’upload.

In generale, quindi, va ripensato il modo di proporre le news. Il traffico generato da una notizia scema drammaticamente dopo un solo giorno dalla pubblicazione. Occorre vagliare nuove soluzioni per allungare il “tempo di interesse” delle informazioni proposte, facendo in modo che gli articoli siano più utili, più rilevanti, più propensi alla condivisione da parte degli utenti.

Senza dimenticare gli aspetti legati alla personalizzazione delle notizie, sulla cui tecnologia molti sono i player (da Facebook Paper al Washington Post) che stanno investendo.

Che si tratti o meno della versione definitiva del documento presentato al management della New York Times Company, il testo raccoglie molti spunti interessanti che dimostrano come la sfida del web non sia ancora vinta appieno e non vi siano molte certezze nemmeno per un gruppo solido come quello del Times chiamato ogni giorno a rimettersi in gioco continuamente.

Il ruolo di web e tv nella campagna elettorale 2014

Mentre gli echi della tornata elettorale della scorsa domenica paiono ancora lontani dall’esaurirsi, una volta diffusi i dati del voto, forse per deformazione professionale, mi é venuto spontaneo riflettere sul ruolo della Rete nella (brutta) campagna elettorale appena conclusasi.
Rispetto alle elezioni politiche del 2013 (l’appuntamento con i seggi più vicino in termini temporali), mi è parso che il ruolo del web sia rimasto “stabile” se non addirittura in discesa.
Con questo non voglio intendere che la Rete abbia avuto un ruolo marginale nel dibattito politico, ma parlando in termini di media, ad averla fatta da padrona mi è sembrata essere (nuovamente) la televisione.
E questo non solo perché anche il Movimento 5 Stelle, precedentemente molto lontano dalle dinamiche televisive, non è riuscito ad esimersi dai confronti tv, quanto perché al di là dei post di Grillo, dei tweet di Renzi e degli status su Facebook di Matteo Salvini (giusto per citare 3 protagonisti della scena politica italiana), il consenso mi sembra essersi costruito soprattutto sul vecchio “tubo catodico”.
In altre parole, benché cresca – tra politici e non – l’uso del web e la dieta informativa di ognuno di noi sia ormai formata da una molteplicità di stimoli provenienti da strumenti e fonti differenti, la tv continua ad essere nel nostro Paese il medium per eccellenza.

Nell’analisi del rapporto web-tv mi è stato di supporto un interessante libro di Lella Mazzoli dal titolo Cross-news. L’informazione dai talk show ai social media. Un testo che, sulla base delle interviste ad alcuni dei più autorevoli professionisti della tv, tenta di tracciare i cambiamenti in atto nel mondo televisivo sulla scia delle nuove modalità di fruizione delle informazioni che il web consente. La scelta dello studio, nello specifico, dei talk show non è stata per nulla casuale: sono proprio questi programmi quelli che (probabilmente assieme ai talent) più tentano di far proprie le dinamiche della comunicazione interattiva online rimettendosi in gioco, almeno parzialmente, per superare il dogma dello spettatore passivo che per anni ha caratterizzato l’informazione televisiva.

Img: codiceedizioni.it

Non si tratta di un vero e proprio cambiamento di paradigma, quanto piuttosto di un’ibridazione di tecnologie che rende il panorama più frastagliato. Basti pensare, per esempio, al fenomeno del cosiddetto second screen per il quale gli spettatori non concentrano più le proprie attenzioni verso un solo schermo ma, pressoché in tempo reale, commentano ciò che vedono/sentono attraverso i social network. Un nuovo pubblico che se forse non rappresenta ancora la maggioranza di chi guarda la tv, sta sicuramente contribuendo a riscrivere le regole che sottendono ai palinsesti televisivi.

In questo senso, i talk show, una delle principali forme di approfondimento e formazione dell’opinione pubblica, non poteva certo esimersi dal testare nuove forme di creazione dei contenuti, di conduzione dei dibattiti, di partecipazione del pubblico.

In realtà, senza poi svelare troppo circa le conclusioni alle quali arriva il libro, sebbene il processo di rinnovamento sia inevitabilmente partito, la Rete (e quindi gli utenti online) non è ancora riuscita ad entrare nel vivo dei programmi. L’interazione, ad esempio, per molte trasmissioni non è tanto tra la redazione e gli utenti, quanto tra spettatori e spettatori il cui confronto anima il dibattito solo online.

Da questo punto di vista, mi pare emblematico il caso del profilo @RaiBallaro che pur potendo contare su oltre 134.000 follower e oltre 5.200 tweet, non “segue” nessuno e non interagisce con gli altri utenti.
Nulla di sbagliato, per carità, legittima scelta. Solo, mi pare, un utilizzo riduttivo – una sorta di mera cassa di risonanza – di uno strumento che ha profondamente cambiato il panorama informativo.

Il Los Angeles Times e il mobile first design

Img: digiday.com

Lo scorso 6 maggio la versione online del Los Angeles Times ha cambiato pelle. Non si è trattato di un semplice aggiustamento grafico (l’ultimo sostanzioso restyling risaliva al 2009) quanto di un vero e proprio cambiamento di prospettiva. Il nuovo spazio del quotidiano del gruppo Tribune & Co., infatti, ha deciso di scommettere sul mobile, ripensando il proprio spazio web per fare in modo che le informazioni veicolate possano essere fruite in maniera semplice e completa da ogni piattaforma, con un particolare riguardo per coloro i quali si informano tramite smartphone e tablet.
Se ad oggi questi utenti non rappresentano ancora la maggioranza dei lettori, è pur vero che la percentuale di chi consuma news da dispositivi mobili è in crescita costante. Che il mobile first rappresenti il passo successivo al digital first già adottato da alcune testate giornalistiche? Sicuramente si tratta di una scelta lungimirante che però comporta un quasi totale ripensamento dell’esperienza informativa. In realtà, nel caso del latimes.com, non si tratta di un cambiamento radicale quanto dell’inizio di un percorso di sviluppo che mette al centro la dinamicità dei nuovi device (sempre in evoluzione) piuttosto che la maturità forse ormai acquisita del classico personal computer.

In questo senso, esemplificativo del nuovo approccio della testata, è la possibilità di navigazione “visuale” (basta cliccare, in alto a sinistra, su “Visual Browse”) dei contenuti pensata appositamente per dispositivi in mobilità: i titoli quasi spariscono lasciando spazio alle immagini che sintetizzano i diversi contenuti navigabili – sullo stile di Flipboard – sia scorrendo la pagina che spostandosi orizzontalmente tra i contenuti.

Anche la scelta di optare per un menu laterale sempre visibile e che, cliccata una voce, mostra le relative sottosezioni, rende l’accesso alle notizie molto veloce e intuitivo. Da segnalare anche la sintesi (alle volte disponibile anche in più versioni) di ogni articolo che consente la condivisione – su Twitter o Facebook – davvero rapidissima: non si tratta della banale ripetizione del titolo, quanto piuttosto di un sunto di pochi caratteri che rappresenta una valida alternativa agli improbabili status con link lunghissimi che contengono simboli non di uso comune, che alle volte vengono proposti in alcuni siti informativi.

Altri due aspetti di sicuro interesse sono: l’unico scroll che non presenta più un solo articolo anche ma anche tanti altri contenuti (in sostanza non esiste più la paginetta contenente una sola notizia) in un unico flusso informativo e, in secondo luogo, “Neighborhoods”, la voce che, dalla sezione “Local” della homepage, permette di visualizzare una mappa dei diversi quartieri di Los Angeles cliccando i quali è possibile scegliere una particolare comunità non solo per leggerne le notizie correlate (dalle breaking news alle recensioni dei ristoranti, un’opportunità per lettori e inserzionisti) ma anche per verificare lo status della zona selezionata sulla base di 3 parametri (2 legati al crimine e 1 al ranking delle scuole) identificati come unità di misura.

Per i primi tre giorni dalla messa online, il sito è stato visibile completamente e senza limiti (anche il Los Angeles Times adotta la formula del paywall) di modo che chiunque potesse visionare le novità del giornale. Questa sorta di anteprima “trasversale” è stata possibile grazie alla sponsorizzazione della compagnia aerea Etihad Airways.

I pareri sulla nuova versione del Los Angeles Times sono piuttosto contrastanti (molte le critiche soprattutto per la parte dedicata ai commenti, non visibilissima di lato a metà articolo che non permette di scrivere avendo la notizia sotto gli occhi e che, quindi, pare disincentivare l’interazione piuttosto che promuoverla) ma la scommessa del puntare sul mobile non sembra del tutto azzardata. Resta da capire se nel breve questa sia la scelta più azzeccata.

Il sito, secondo gli ultimi dati di ComScore, a marzo ha incrementato il proprio numero di visitatori online del 30% rispetto allo stesso mese dello scorso anno ma la redazione cartacea continua a soffrire e si prospettano nuovi tagli al personale dopo i licenziamenti della scorsa estate.

Slate lancia Slate Plus, l’alternativa freemium al paywall

Img: wikimedia.org

Nella puntata dello scorso 28 aprile di Eta Beta, programma radiofonico condotto da Massimo Cerofolini e dedicato nell’occasione ai cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo, ho avuto modo di citare la pratica del paywall tramite la quale i quotidiani online hanno iniziato a proporre i propri contenuti (per chi non lo conoscesse, si tratta di un monte articoli al mese, di solito compreso nella sua forma più soft tra 10 e 20 pezzi gratuitamente fruibili, superato il quale le notizie per essere lette necessitano di una forma di abbonamento). Non si tratta dell’unico approccio adottato ma sicuramente di quello che, nonostante i detrattori non lo vedano come soluzione valida a lungo termine, sta contribuendo ad arginare le perdite del comparto editoria.

Un’iniziativa di sicuro interesse in questo senso è quella proposta dal magazine statunitense Slate. I contenuti del sito restano free per tutti ma ai lettori è anche offerta l’opportunità di sottoscrivere l’abbonamentp a Slate Plus.

Slate Plus is an all-access pass for readers who support our journalism and want a closer connection to it. For $5 a month or $50 a year, a richer Slate experience awaits you.

Diventando membri di S+ si possono leggere le notizie tutte in una pagina, i propri commenti vengono pubblicati a margine dell’articolo senza apparire in un pop-up, si possono ascoltare dei podcast esclusivi (o senza interruzioni pubblicitarie), vedere video del dietro le quinte del lavoro della redazione o partecipare a chat private con alcune delle firme più prestigiose, acquistare con lo sconto del 30% il merchandise ufficiale.

David Plotz, presentando l’iniziativa, ha sottolineato più volte come S+ non sia una modalità freemium tramite la quale chiedere soldi ai lettori in cambio di articoli informativi quanto piuttosto un tentativo di proporre delle opportunità extra ai lettori rispetto a quanto proposto a incondizionatamente a tutti.

L’articolo, in data odierna, è stato commentato 1368 volte. Scorrendo fra i commenti un confronto su tutti mi è parso interessante: un utente (aka Krocnyc) esprimendo un suo giudizio sull’abbonamento si chiede perché debba pagare per avere i bonus previsti da S+; gli risponde Jennifer Lai, moderatrice Slate che cita l’esempio di coloro i quali acquistano i DVD edizione speciale (con extra quali il commento del regista o le scene tagliate) pur potendo risparmiare con la semplice proposta “DVD solo film”. La conversazione continua con l’utente che lapidario chiede: “Esiste ancora qualcuno che compra DVD? Per i contenuti extra?”

La risposta circa il vero intento di S+ a mio modo di vedere arriva poche righe più in basso quando Jennifer Lai indica come duplice scopo del nuovo membership program prima di tutto quello di cercare di focalizzarsi maggiormente sull’aspetto conversazionale delle notizie tra utenti e tra lettori e giornalisti (livechat, videochat, maggior spazio ai commenti, etc.) e, dall’altro lato, quello di supportare il giornalismo che Slate incarna.

Al di là dei primi giudizi, sarà interessante vedere come i lettori di Slate reagiranno alla proposta della redazione. Sinceramente, i benefit offerti non mi sembrano giustificare il costo mensile di 5 dollari, ma  è anche vero che se qualcosa mi gratifica (e la lettura di articoli interessanti sicuramente può essere annoverata tra ciò che mi appaga), sono ben disposto a dimostrare il mio apprezzamento a prescindere dai bonus.

E se invece che “Join S+” fosse stato proposto un più semplice “Support Us”?

L’importanza crescente dei nativi digitali del giornalismo

Img: pbs.org

Da alcuni giorni è disponibile State of the News Media 2014, l’annuale report del Pew Research Center che analizza il panorama informativo statunitense.
Delle tante osservazioni interessanti che i documenti presentano, la mia attenzione si è focalizzata soprattutto sui cosiddetti nativi digitali del giornalismo americano, le redazioni cioè nate nella Rete che nel corso degli anni hanno saputo ritagliarsi un ruolo sempre più importante nell’ecosistema editoriale a stelle e strisce. Un comparto, quello delle realtà informative online, in crescita nonostante la crisi della stampa: non solo BuzzFeed, Huffington Post, ProPublica, Politico, il panorama statunitense offre ai lettori una miriade di spazi diversi su web ai quali rivolgersi per leggere notizie. La cospicua “migrazione” di grandi firme dal giornalismo “tradizionale” legato alla carta a quello pensato e realizzato unicamente su web – due su tutte, Bill Keller lascia New York Times per l’iniziativa nonprofit The Marshall Project, Jim Roberts dal NYT passa a Mashable – contribuisce a suggellare l’importanza ormai acquisita dell’universo delle news online, non più considerato alla stregua di un “campionato di seconda divisone”.

Un mondo fatto di molte realtà “giovani” (il report analizza i 30 più grandi siti informativi all digital e altre 438 piccole redazioni del web), nate negli ultimi 10 anni, che si occupano di notizie locali o iperlocali, che puntano sull’inchiesta, che spesso devono far fronte a bilanci in rosso – se crescono gli investimenti nel comparto informativo digitale ciò non significa che l’industria delle news online abbia trovato la formula per monetizzare questo crescente interesse verso le notizie – e che, con il loro approccio innovativo alla Rete, stanno tentando di adattarsi a un panorama in rapida e costante evoluzione.

Adottando modalità differenti di raccontare e proporre le news rispetto a quelle dei media classici, molto più focalizzate su formati e strumenti in grado di sfruttare appieno le peculiarità della Rete, i siti informativi nativi digitali riescono a coinvolgere maggiormente i lettori che spesso, da semplici cittadini, diventano “volontari” in grado di supportare le redazioni con testimonianze dirette su ciò che succede loro. Forse anche per questo motivo, i siti informativi digitali risultano più accattivanti per il pubblico giovane generalmente poco incline al formato giornale.

Al di là del successo imprenditoriale di alcuni “esperimenti”, le realtà nate nella Rete svolgono una funzione sociale non di poco conto andando a riempire e a ampliare l’orizzonte che nella stampa cartacea (soprattutto per quel che riguarda i magazine), invece, si sta via via riducendo. Non solo dal punto di vista strettamente legato al numero e alla tipologia di notizie proposte ma anche da quello delle professionalità che nell’editoria lavorano: se nelle newsroom tradizionali continuano i tagli al personale, per ciò che concerne le redazioni online, almeno per quelle di maggior successo (delle 438 piccole realtà analizzate, più della metà sono formate da uno staff full-time di 3 persone o meno), si assistente invece a una notevole crescita. Solo due anni fa il team di BuzzFeed era formato da una mezza dozzina di persone, oggi può contare su 170 professionisti. Analogo discorso per Vice Media che solo nell’ultimo anno ha allargato il proprio staff a 48 new entry. O per Quarz, testata nata nel 2012 ma che può già contare su una rete di reporter a Londra, Bangkok e Hong Kong. E se l’HuffPost punta ad ampliare ancora il bacino delle proprie edizioni facendo salire da 11 a 14 i Paesi nei quali essere presente, Business Insider è attualmente alla ricerca di altre 25 nuove figure per il allargare la propria squadra.

Difficile prevedere gli sviluppi di ciò che sta accadendo. Di certo, l’industria dell’editoria “tradizionale” che aveva inizialmente snobbato la Rete deve oggi affontare una duplice sfida tutt’altro che semplice: da un lato il calo dei lettori e dei guadagni derivanti dalla pubblicità, dall’altro concorrenti digitali sempre più agguerriti.