Parnassus, dico la mia sul film

parnassusIn questo post ho deciso di lanciare una sfida a me stesso: parlare di un film di fantasia adottando un’analisi pseudoscientifica in stile pagella Ziliani. Possibile? Ci provo.
La pellicola in questione è: Parnassus, l’uomo che voleva ingannare il diavolo.

Titolo italiano: voto 4
Il titolo originale – The Imaginarium odf Doctor Parnassus – risulta decisamente più appropriato. A ben vedere infatti non è tanto il Dottor Parnassus che si prende gioco del diavolo quanto quest’ultimo che ama lanciare sfide quasi impossibili a Parnassus giocando ovviamente con una delle caratteristiche che lo denotano: l’inganno. Da rivedere.

Trama: voto 6
Dallo sceneggiatore di Brazil e Il gioco di Ripley (Terry Gilliam) mi sarei aspettato un racconto più articolato, accattivante, emozionante. Non a caso, uscendo dalla sala, mi sono chiesto: “E se il film lo avesse scritto Tim Burton?”. Nella prima parte nonostante un po’ di cliché (la figlia oppressa da un padre troppo affettuoso, il ragazzo innamorato che propone la fuga, il fascino del nuovo arrivato…) scorre senza eccessi pur creando curiosità nello spettatore. La seconda parte, invece, mi pare un po’ troppo accellerata. Potrebbe essere una scelta voluta – in fondo nel mondo al di là dello specchio spazio e tempo agiscono in maniera differente – ma il cambiamento di Tony, da eroe positivo in grado di risollevare le sorti della campagnia teatrale a losco farabbutto senza scrupoli (il vero volto sotto la maschera con il naso a punta?) spiazza perchè troppo repentina e priva quasi di spiegazione. Anche la questione dei simboli sulla fronte viene ripresa più volte ma non viene mai affrontata: perchè quei segni? A quando risalgono? Cosa comportano?
Forse, anche in questo caso, a noi come al diavolo non è dato sapere, ma sembra un ennesimo particolare che pur potenzialmente molto intrigante non ha avuto l’attenzione che forse avrebbe meritato essendo un dettaglio non da poco nella storia di Tony (stessa cosa potrebbe essere obiettata per l’immortalità di Parnassus, sviluppata in piccolissima parte).
L’idea di avvicendare tre attori al ruolo di Leadger risulta invece funzionale alla sceneggiatura: tre mondi differenti, tre volti diversi, nulla da ridire (di Depp la performance più convincente dei tre). Leggerina.

Cast: voto 6 1/2
Se dovessi valutare Heath Ledger il voto sarebbe un 10 in memory of. Ma, in generale, tutti gli attori mi sono piaciuti. Forse solo Farrell mi è sembrato un gradino sotto gli altri come espressività. Sensuale e ambigua (un po’ donna angelo un diavoletta) l’interpretazione di Lily Cole (Valentina) mi ha affascinato: una figura eterea, un mix tra concretezza e immaginazione perfetta per il film. Tanto da far apparire Percy (Andrew Garfield) molto più piccolo di quanto non sia la reale differenza di età tra i due (in realtà Andrew è di 5 anni più vecchio di Lily). Anche Parcy – Verne Troyer – mi ha convinto, perfetto, anche nelle dimensioni, per il ruolo di “grillo parlante”, voce della coscienza. Cristopher Plummer e Tom Waits – rispettivamente Parnassune il diavolo – non mi hanno particolarmente impressionato: il primo troppo “Gandalf” il secondo toppo poco cattivo/perfido, troppo “Uomo con la bombetta” di Magritte. Buona la prima.

Effetti speciali: voto 6 +
Ok, è un film indipendente quindi il budget non sarà stato altissimo ma gli effetti speciali, pur carini nella “sostanza” risultano a mio modo di vedere un po’ primitivi nella “forma”. Sarà che sono reduce dalla mia prima esperienza con il cinema 3D (UP), ma le animazioni dei diversi mondi non sono state in grado di “avvolgermi” e di fare in modo che mi abbandonassi completamente all’immaginazione. Questo si nota anche nei “cambiamenti” dei paesaggi a mio avviso non abbastanza dinamici. Bolle blu.

Regia: voto 6 1/2
Il gusto postmpoderno in cui bello e brutto, antico e moderno, e altri opposti si fondono in un occhio – quello sulla macchina da presa – tragicomico rende sicuramente ricoscibile Gilliam. L’atmosfera onirica viene trasmessa allo spettatore e la Londra nella quale si sviluppa la storia sembra la metropoli sospesa che nasconde mondi di magia come in Harry Potter. Incantesimo.

Il giudizio complessivo, quindi, è sicuramente positivo. Ciò non toglie, tuttavia, che il film ai miei occhi non si sia dimostrato il capolavoro che sperevo fosse: lo ammetto, in parte ha deluso le mie aspettative. Peccato perchè i presupposti per un film cult c’erano tutti: inno alla vita e alla fantasia e all’immaginazione che mostra, attraverso viaggi surreali, tutte le nostre potenzialità e tutte le nostre debolezze arrivato ai titoli di coda non mi ha convinto appieno. Non possono essere dimenticati gli sforzi che per vari motivi si sono resi necessari affinché il film uscisse nelle sale, ma l’impressione che qualcosa di (parzialmente) incompiuto rimane, almeno in parte.

La Woodstock di Ang Lee

motel-woodstockDopo il Watergate, la Guerra di secessione, Hulk e l’amore omosessuale tra due cowboy, Ang Lee torna a proporre un altro tema molto caro agli americani (e non solo): il concerto di Woodstock. Tratto dal libro di Elliot Tiber – Taking Woodstock. A True Story of a Riot, A Concert and a Life – la pellicola racconta la vita di Elliot, sgangherato pittore che, non riuscito a imporsi nella città, torna dai propri genitori – due ebrei fuggiti dall’est Europa – per aiutarli nella gestione di un malridotto motel in una sperduta cittadina immersa nei verdi pascoli.
Il film scorre leggero, tra gag e spunti più riflessivi, principalmente su due grandi fili conduttori: da una parte, il “conflitto” generazionale tra i genitori (e, in generale, gli abitanti del paesino) – gli spettatori di quanto stava succedendo sotto i loro occhi increduli – e i protagonisti veri e propri, ragazzi provenienti da tutta l’America con in tasca la delusione per una guerra mai compresa e sogni di libertà, musica, pace e armonia.
Dall’altra, ciò che accade allo stesso Elliot, all’inizio interessato alla megaconcerto rock per non far perdere ai genitori la loro ragione di vita ma che poi, con il passare del tempo, si rende conto (stupendosi) di aver contribuito a un evento storico nel quale i soldi sono solo una parte – e forse la più marginale – di quell’oceano di persone riunitasi per divertirsi insieme.
Il segreto per apprezzare al meglio il film, forse, sta nel dimenticare per un attimo il successo di Lee nel 2006, entrando nella sala in maniera spensierata, lasciandosi trascinare da questo che è una sorta di collage su come diverse persone abbiano vissuto – e quindi possono raccontare – Woodstock. Una pellicola che a dispetto del titolo, lascia la musica come sottofondo puntando a creare un arcobaleno di personaggi più o meno bizzarri (dalla guardia del corpo ai teatranti, dal promotore del concerto all’amico “schizzato” a causa del Vietnam di Elliot). Carino anche il montaggio che ci cala proprio “dentro” la scena, a volte suddividendo le schermo in più finestre come dei telefilm anni Settanta.

Lebanon e il ruggito del Leone

lebanonDopo Women without men ho continuato la mia personale maratona sui film più acclamati alla mostra del cinema di Venezia vedendo la pellicola vincitrice del Leone d’oro: Lebanon di Samuel Maoz.
Un film strano, di quelli che o conquista o lascia perplessi senza via di mezzo. La storia è quella di in un gruppo di ragazzi che, con un carro armato, fungono da supporto a un plotone di paracadutisti inviati a perlustrare i resti di alcune cittadine bombardate dall’aviazione israeliana. Le continue inquadrature interne al carro armato (visione per questo motivo forse non proprio indicata a chi soffre di claustrofobia, all’uscita dalla sala sembra ci si sente quasi unti di olio come i protagonisti) fanno partecipare in prima persona lo spettatore alle tensione del conflitto e alla sopresa da parte dei giovani soldati di ritrovarsi di colpo catapultati dalle semplici quanto innocue eserciatazioni a un cruda realtà fatta di morte, urla e distruzione. Forse è proprio questo l’aspetto più angosciante della pellicola che mostra il terrore per il conflitto proprio di chi dovrebbe guidare la battaglia e che invece, quasi in maniera compulsiva, non sentendo proprio lo scontro, controlla con il mirino la situazione fuori dal cingolato ma resta quasi incapace di premere il grilletto e di eseguire gli ordini impartiti. I giovani militari, infatti, non sono eroi, non sono desiderosi di sacrificare la propria vita per l’annientamento del nemico, sono solo fragili ragazzi terrorizzati dall’essere in contatto così diretto con gli orrori della guerra, desiderosi solo di tornare vivi dalle loro famiglie e di lasciare quanto prima il campo di battaglia. Film forte, di poche parole, forse a tratti un po’ lento, ma di sicuro impatto.

Women without men, dal libro al film

women_without_menDal romanzo di Sharnush Parsipur – il cui titolo fa forse un po’ il verso al Men without women di John Ford – a Venezia è stato presentato l’omonimo film di Shirin Neshat, opera prima della nota artista e fotografa iraniana fresca vincitrice del Leone d’argento per la regia in Laguna.
Il film è ambientato nella Teheran della metà degli anni Cinquanta – un periodo di forte subbuglio politico – e racconta la lotta quotidiana di quattro donne tra loro diverse ma unite dal senso di frustrazione, di oppressione, di crescente insoddisfazione verso un destino caustrofobico. La loro vita diventa così la ricerca di una via di fuga – nel film idealizzata in un giardino (l’Eden?) – per scappare da abusi, umiliazioni e sofferenze, nel tentativo di trovare indipendenza e serenità, conforto e calore umano.
Una fotografia impeccabile, un’atmosfera sospesa tra sogni/incubi e realtà, Women without men è un film dal retrogusto triste, delicato ma emozionante, un grido sordo che diventa un inno alla libertà. Da vedere.

Valzer con Bashir (…la storia si ripete)

valzer bashirLa mia mente associa in maniera pressoché automatica film di animazione a divertimento, spasso, buoni sentimenti, ilarità. E invece pochi giorni fa mi sono dovuto in parte ricredere vedendo una pellicola davvero singolare, che ho molto apprezzato. Si tratta di Valzer con Bashir, opera cartoonesca che racconta del massascro avvenuto nei primi anni Ottanta a Sabra e Chatila (e che inevitabilmente traccia una linea tra passato e presente in una zona, quella del Medio Oriente, ancora oggi martoriata da conflitti armati, odio e violenza). Il film, dell’israeliano Ari Folman, mi ha sin dalle prime battute ricordato Full Metal Jacket, solo in versione onirico-introspettiva nella quale l’attuale è più volte interrotto dai flash back. Il vero protagonista a ben vedere è però il ricordo. O meglio il non ricordo. Un uomo, sulla scia delle riflessioni/angosce di un amico di gioventù, cerca di scavare nel proprio passato accorgendosi quasi improvvisamente di avere delle zone d’ombra nella propria memoria, di sapere perfettamente di essere stato in una determinata zona per un determinato periodo di tempo, ma di non riuscire a delineare cosa gli sia successo in quel lasso di tempo, di cosa sia stato testimone, volontario o meno. E così risente vecchi compagni di avventura inseguendo i ricordi che mancano all’appello. Ma il cammino è impervio e c’è il rischio che nella foga di scavare a ritroso, non ci si renda conto che la verità che si brama, pur legata ad avvenimenti remoti, può avere ricadute anche sul presente, sul modo di essere e di porsi nei confronti della vita. Sempre ammesso e non concesso che una lettura dei propri trascorsi sia fattibile, sia la cruda verità e non una rappresentazione filtrata dall’istinto di soppravvivenza che cancella ciò che la mente non è bene ricordi. Un film riuscito non c’è che dire (a ripopra di ciò, la pellicola è già pluripremiata) capace di presentare l’orrore della morte e, di contro, la vitalità della giovinezza, con molto tatto, con una delicatezza che forse solo l’animazione consente. A riportare lo spettatore alla realtà però, a ricordare a tutti che non si tratta di una favola disneyna, le immagini non più frutto di elaborazioni digitali, vere, reali, delle ultime sequenze che ci invitano a non dimenticare. E a impegnarci perchè non si ripetano più tragedie analoghe.

Palermo Shooting

palermo_shootingGià dal titolo si può facilmente intuire come Palermo Shooting sia un film sul tema della fotografia e sull’arte di raccontare il mondo per immagini. Non ho potuto quindi, guardando l’ultima fatica di Wenders, non pensare al bellissimo libro di Roland Barthes, La camera chiara, e a quello che lo studioso francese definisce come Spectrum, il bersaglio, l’oggetto della foto: il termine se da una parte richiama la parola spettacolo, dall’altra suggerisce anche “quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia […], la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti”. Il protagonista della pellicola è un fotografo abituato a manipolare la realtà che immortala con l’ausilio della sua macchinetta per renderla più gradevole ed efficace, come in una sorta di puzzle nel quale i vari pezzi risultano intercambiali ma la con un’unica esatta combinazione. Una sera però un incontro inaspettato quanto fortuito gli permette di imprimere nella pellicola ciò che per definizione risulta inafferrabile: la morte. Inizia così un turbamento emotivo e psicologico dove sogno e realtà si mescolano sino a confondersi, nel quale l’uomo si interroga sul significato della propria esistenza. A metà strada tra Il posto delle fragole e Il Settimo Sigillo, il film di Wenders scava nell’inconscio dello spettatore e attraverso sequenze oniriche, dialoghi stringati e un ritmo lento, quasi delle riflessioni a voce alta del protagonista della pellicola – che poi a ben vedere si può identificare con l’alter-ego del regista tedesco – alla ricerca di risposte alle questioni profonde con cui l’uomo (e l’artista in primis) si arrovella da sempre. Nel complesso il film riesce però a metà, diventando più una sorta di omaggio al potere insito nella raffigurazione del reale (fissa e in movimento) che una propria interpretazione originale circa il medium “immagine” o dei ragionamenti su “vita e amore” come scritto nella locandina dell’opera cinematografica.

Strizh, un “taglio di capelli” kazako

StrizhIn occasione della serie di incontri dell’Asiatica Film Mediale in corso a Roma ho avuto modo di vedere il film di Abai Kublai, Strizh (Swift in inglese). La pellicola del regista kazako racconta le giornate di Ainur, una ragazza che tra mille difficoltà cresce scontrandosi giorno dopo giorno con problemi dovuti all’assenza di una famiglia unita e di amici che possano supportarla nel suo processo di crescita. E qui la mia fantasia ha colto la prima metafora: ho intravisto nella ragazza il  riflesso della stessa Repubblica del Kazakistan, così fragile, impegnato nell’autocostruzione di sé stesso – ecco forse spiegato le tante imamgini di cantieri – ma al contempo spaesato, solo e alla continua ricerca di una propria definita indentità. La ragazza vive tra casa e scuola anche se spesso si ritrova per strada, seduta sulla panchina di un parco o in cima alla montagna per vedere da sopra la piccola cittadina nella quale abita, immersa nei propri pensieri, lontana dai litigi, dalle incomprensioni, dalle lacrime amare. E proprio quando le cose sembrano andare meglio, quando finalmente si varca quel luogo visto sempre come irraggiungibile (forse non a caso sferico come il mondo nel quale viviamo), se il sogno si trasforma nel giro di alcuni istanti da sogno a incubo, allora trovare la forza per continuare nonostante tutto e tutti risulta un’impresa più che ardua.
Un film quello di Kubai dalle atmosfere rarefatte, lontate, fredde, che rende bene l’idea di cosa possa voler dire vivere in una realtà tanto difficile, così lontana, povera ma al contempo ricca di contraddizioni.

Vicky Cristina Barcelona

Vicky Cristina BarcelonaSono un fan di Woody Allen, del suo umorismo graffiante, della sua ironia caustica, dei suoi aforismi brillanti. Ultimamente però al cinema fatico a riconoscerlo. Forse è semplicemente maturato, più soddisfatto e fiducioso di sé e quindi meno “paranoico” nelle pellicole che lo vedono dietro la macchina da presa. O forse la lontananza dalla sua amata New York gli ha permesso di divincolarsi dal “suo” cinema per sperimentare altri modi di raccontare, sta di fatto che appena finita la visione di Vicky Cristina Barcelona, faticavo a pensare che il film fosse l’ultima fatica dallo stesso regista di Harry a pezzi o di Zelig. Insomma, il film con protagonisti Scarlett Johansson, Javier Bardem e Penelope Cruz non è brutto, ma forse sa un po’ troppo di spot pro-Catalogna (e pro-Fiat/Alfa Romeo), risultando vivace ma, se confrontato con il primo Allen, troppo leggerino. Per carità i momenti di satira non mancano. In particolare due temi del film mi sono piaciuti: da una parte lo sketch circa l’equilibrio di coppia da cercare (e trovare) al di fuori della coppia stessa, in una terza persona capace di diventare l’anello forte del legame in una relazione allargata ma finalmente stabile. E poi il fatto che, in definitiva, nonostante i triangoli amorosi, l’arte, il sole e l’estate, una volta finita la vacanza, alla fine poi torni tutto come prima. Tra l’altro a ben guardare in tutta la pellicola non c’è ombra di coppia “funzionante”: litigi, dubbi, gelosie, tradimenti, rimpianti, ricongiungimenti e allontamenti repentini, rappresentano la “normalità”. Proprio in ciò (e nel richiamo all’arte – nel caso specifico pittorica – come espressione del proprio io) credo risieda la firma di Woody: tra le righe riemerge infatti quel pessimismo cronico verso un rapporto di coppia duraturo che sin dai tempi di Io & Annie il regista di Brooklyn ha trasmesso non solo sullo schermo ma anche nella sua travagliata vita privata.

La banda Baader Meinhof

Baader MehinofIn occasione della Festa del Cinema di Roma ho potuto vedere in anteprima, pochi giorni prima dell’uscita nelle sale italiane (nella triplice versione in tedesco con sottotitoli in inglese con sottosottotitoli in italiano) il film Der Baader Meinhof komplex (La banda Baader Meinhof). La pellicola racconta la storia della nascita della RAF, un gruppo terroristico che a cavallo degli anni Settanta con le sue azioni scovolse la Germania Occidentale (sempre sul medesimo oggetto, quasi in contemporanea, è stato presentato anche il film Schattenwelt). Il regista Uli Edel narra le vicende di un gruppo di uomini e donne impegnati nel sensibilizzare, con i loro atti, l’opinione pubblica contro il neocolonialismo consumista made in Usa. Lo fa tramite un film che, anche in virtù della durata, risulta tutt’altro che leggero. Tuttavia, forse per evitare di prendere una posizione netta e dar luogo a polemiche, la sceneggiatura pecca un po’ nell’analisi della psiche dei vari componenti del gruppo: molta azione e tensione ma poco spazio ai conflitti interni a ognuno dei protagonisti che forse avrebbero permesso di capire più nel dettaglio da cosa nascesse il disprezzo e risentimento nei confronti dei militanti verso una società nella quale non si riconoscevano. D’altra parte, l’obiettivo di raccontare tutti i fatti accaduti nel decennio di attività della RAF risulta compito improbo e, in ultima analisi, alcune parti sembrano a mio giudizio “romanzate”, troppo lontane dall’ideale di guerriglia urbana e di azione di liberazione che invece immaginavo prima di entrare in sala. La parte che mi ha affascinato di più è stata quella relativa al rapporto tra i fondatori della RAF in regime di isolamento e le generazioni che a loro si ispiravano mettendo in atto una lotta terroristica ugualmenente provocatoria ma, almento da quanto emerge dal film, assai diversa nelle modalità di azione. Una pellicola coraggiosa che però non è riuscita ad entrare nella classifica dei miei film preferiti forse anche in virtù del fatto che la storia, nonostante i possibili parallelismi con le Brigate Rosse, mi è apparsa un lontata, incapace di coinvolgermi appieno.

Astropia, dall’Islanda con furore

Tento di descrivere la situazione nella quale sono stato involontario protagonista la scorsa domenica. Ore 17, Casa del Cinema di Roma. Riesco ad essere tra i “fortunati” che potranno assistere alla proiezione di Astropia. Età media, contro tutte le mie aspettative, sulla 50ina. Un signore dopo aver mostrato il suo disappunto per l’impossibilità da parte sua di tenere accanto a sé un posto occupato per un’amica non presente nell’edificio e che, con le entrate bloccate, non avrebbe potuto godersi lo spettacolo, lascia la sala spazientito. La signora accanto mi chiede se siano le 18.30 perchè lei in tv ha sentito che per l’ora solare è necessario spostare le lancette in avanti. Le rispondo che invece grazie al nuovo orario abbiamo dormito un’ora in più, domandandomi tra me e me che film si aspetti di vedere sul grande schermo. Se queste sono le premesse, si preannuncia un pomeriggio niente male. La pellicola per la quale sono lì è l’opera prima di un registra islandese e racconta la storia di una ragazza “molto pin-up” che, improvvisamente senza lavoro, trova occupazione in un negozio di fumetti/dvd/giochi vari. La cosa divertente è che le viene assegnato il reparto “giochi di ruolo” che non conosce per nulla. Il responsabile della rivendita la invita così a partecipare a una “sessione” per rendersi conto in prima persona di cosa sia un role playing. E così il film si sdoppia: la realtà diventa virtuale, fumetto e al contempo gioco di ruolo con la protagonista che assume i panni di una principessa in lotta contro orchi brutti e cattivi in pieno stile Signore degli Anelli. La pellicola – un sucessone in Islanda – corre via veloce e leggera tra varie gag alle quali la platea risponde con grasse (alle volte eccessivamente grasse) risate e citazioni comprese solo da pochi. Il film mi ricorda vagamente Hot Fuzz e Shaolin Soccer, altre due pellicole “demenziali”. Quando si accendono le luci in sala regna un misto tra stupore e incredulità. Arriva il regista, Gunner Bjorn Gudmunsson, e raccoglie un caloroso applauso rendendosi disponibile per rispondere alle domande e alle osservazioni del pubblico. Una delle prime è: “cos’è un nerd?” (ahia, allora forse la vena ironico-parodistica del film non è proprio così chiara….). Poi all’improvviso una gentile nonnina prende la parola per ringraziare il regista per averla aiutata a comprendere (finalmente, meglio tardi che mai!) i giochi dei nipoti: un tripudio da pelle d’oca e calde lacrime. Che pomeriggio indimenticabile.