Un nuovo giorno che tarda ad arrivare

Img: newstatesman.com

Trascorse solo nove settimane dal lancio di The New Day, il progetto del nuovo quotidiano inglese è già arrivato al capolinea. A darne l’annuncio Alison Phillips, la responsabile dell’ormai ex-quotidiano cartaceo che su Facebook ha spiegato come, nonostante l’impegno e il supporto ricevuto, il giornale non abbia saputo far fronte alle aspettative in termini di copie vendute (delle 200.000 copie giornaliere auspicate, a poche settimane dal lancio, le vendite si sono stabilizzate a quota 40.000). Politicamente neutrale, con un maggior spazio per le notizie “positive” e con un ridotto numero di inserzioni pubblicitarie, The New Day nutriva l’ambizione di far breccia su un pubblico giovane (in particolar modo femminile) con un “prodotto” di facile e veloce lettura, una sorta di versione “alleggerita” del Daily Mirror, il “fratello maggiore” del gruppo Trinity. Per raccogliere consensi e tentare di imporsi sin da subito, il giornale non aveva lesinato su investimenti pubblicitari e sul coinvolgimento di nomi noti quali, nel primo numero, il Primo Ministro David Cameron (con un articolo pro-Europa) l’ex attaccante del Liverpool e della nazionale inglese, Robbie Fowler.
L’ironia del destino ha però voluto che lo slogan del nuovo giornale – Life’s short, let’s live it well – si concretizzasse in coincidenza della diffusione dei dati dei primi tre mesi del 2016 relativi al gruppo editoriale di riferimento. Percentuali che, come forse era auspicabile aspettarsi, segnano un nuovo calo degli introiti del gruppo Trinity Mirror (-8,6%), un ulteriore rallentamento dei guadagni dalla pubblicità su carta (-19%) e dalla vendita dei giornali (-4,5%). L’unica voce positiva è risultata quella legata alla digital audience degli spazi online del gruppo, in crescita del +15,7%. Alla quale però il The New Day non ha per nulla contribuito in quanto, al lancio del giornale, per paradossale che possa sembrare, la redazione decise di non prevedere un sito web legato alla nuova testata.

James Wildman, chief revenue officer di Trinity Mirror Solutions, commentando quanto accaduto, si è definito orgoglioso di far parte di una realtà pronta a rischiare nel tentativo di (r)innovare. Un gruppo che farà sicuramente tesoro della “breve ma intensa” esperienza del New Day per continuare il proprio processo di diversificazione, per migliorare la distribuzione (da molti addetti ai lavori indicata come una delle principali carenze che hanno portato alla chiusura anticipata del giornale) e il packaging dei contenuti.

Dichiarazioni evidentemente di rito che però omettono un aspetto della vicenda tutt’altro che secondario: sono stati gli stessi analisti del Trinity Mirror ad avvallare il progetto prevedendo erroneamente che il The New Day potesse iniziare a guadagnare già entro l’anno. Salvo poi essere smentiti dai vertici del gruppo che, dopo poco meno di due mesi, hanno deciso di arginare le perdite mettendo fine all’esperimento. Sfida che evidentemente, visto il repentino cambio di programma, a loro avviso non aveva basi poi così solide sulle quali svilupparsi.

I giornalisti delle testate concorrenti, pur rammaricati per l’ennesima concreta dimostrazione della crisi del comparto editoriale, probabilmente non si stanno strappando le vesti per la chiusura anticipata di The New Day. Fosse passata l’idea che è sufficiente un team di 25 persone per produrre un quotidiano cartaceo di successo in un breve lasso di tempo, molto probabilmente ciò avrebbe dato il là a numerosi licenziamenti nel nome di riorganizzazioni giustificate da una presunta miglior efficienza oltre che dal contenimento dei costi.

Ciò che è accaduto dimostra ancora una volta quanto risicate siano le certezze del settore legato alla stampa. Nel quale anche una realtà di grande esperienza nell’ambito informativo dà la sensazione di brancolare nel buio nel tentativo di fermare quello che ad oggi sembra un inesorabile declino.

E’ la stampa (di oggi), bellezza.

The Atlantic, non tutto il native vien per nuocere

Img: associationsnow.com

Nell’aprile del 2105 il magazine The Atlantic decise di rinnovare la grafica del proprio sito web puntando su una homepage con una struttura composta da semplici riquadri di foto+titolo, efficace anche se fruita da mobile, da navigare sia nella tradizionale modalità verticale che in quella orizzontale.

Un anno dopo, il giornale torna a far parlare di sé tra gli addetti ai lavori del comparto media per tre ragioni: in primo luogo, per la decisione di realizzare (in collaborazione con l’agenzia Wieden Kennedy) una campagna pubblicitaria con l’obiettivo di allargare il pubblico di lettori; in seconda istanza, per il progetto A&Q (la redazione ha individuato una 15ina di domande legate a problemi di ordine pubblico, dalle armi al clima, dalla gravidanza giovanile all’immigrazione clandestina, attorno alle quali sviluppare approfondimenti, chiedendo ai lettori di suggerire altre questioni sulle quali riflettere); infine per ciò che concerne la propria offerta di native advertising.

Secondo le parole rilasciate a digiday.com da Hayley Romer, vice presidente di The Atlantic, la cosiddetta pubblicità nativa punta a rappresentare quest’anno il 75% dei guadagni del giornale con un incremento stimato del 15% rispetto alle cifre del 2015, frutto anche di un consolidamento del team marketing che si occupa dei contenuti sponsorizzati – Atlantic Re:think – che può oggi contare su 32 persone.

Sembrano insomma lontani i tempi dei primi esperimenti del giornale in ottica native adv quando il contenuto sponsorizzato con oggetto Scientology diede il là ad aspre critiche da parte dei lettori tanto da spingere la direzione a pubblicare una lettera di scuse agli utenti nella quale fare ammenda per quanto accaduto (ammettendo un errore di valutazione della policy che all’epoca non prevedeva una così netta distinzione tra il contenuto pubblicitario e quello prettamente informativo). Dopo quello “scivolone” la testata decise di lavorare assiduamente per ripristinare la propria credibilità accettando di impegnarsi esclusivamente in progetti in grado di rappresentare valore per i lettori. Questo approccio “audience first” ha portato il giornale a focalizzare le risorse disponibili al fine di identificare i contenuti capaci di attirare l’attenzione degli utenti e, quindi, di avere un impatto concreto per gli inserzionisti (di fatto con il nuovo design i contenuti sponsorizzati sono diminuiti anche se risultano più corposi).

Uno degli esempi di successo in tal senso è l’articolo realizzato in occasione dei cento anni di Boeing che, con testi accompagnati di numerose gallerie fotografiche, ripercorre la storia dell’industria aerospaziale. Dal punto di vista grafico si tratta di qualcosa di completamente differente dal materiale informativo, immediatamente riconoscibile quale contenuto sponsorizzato. Contenuto che ha fatto registrare un buon livello di engagment arrivando a totalizzare oltre 7000 condivisioni su Facebook.

Con il diffondersi dei software ad blocker capaci di bloccare i messaggi pubblicitari rendendoli di fatto invisibili agli utenti, sono molte le realtà editoriali che considerano il native advertising – anche in virtù della sua perfetta compatibilità con il mobile – una delle (poche) armi a disposizione delle testate per far fronte al calo delle entrate registrato negli ultimi anni.

Ecco perché The Atlantic prosegue le fasi di test e sviluppo in modo da mettere a punto forme di native advertising capaci di funzionare quali leve di coinvolgimento degli utenti non solo in termini di interazione con il contenuto – click e condivisioni risultano difficili da ottenere per materiale etichettato come pubblicitario – quanto piuttosto in merito al tempo “speso” con il contenuto.

Lasso di tempo che Polar – piattaforma specializzata nella distribuzione contenuti legati al native adv – ha stimato aggirarsi, in media, in 2 minuti e 41 secondi. Intervallo di tempo che The Atlantic – a detta della stessa redazione di Washington – ha praticamente raddoppiato surclassando realtà molto quotate per quel che riguarda il native advertising quali BuzzFeed e Mashable.

The New Day: il giornale di carta per l’epoca digitale

Img: thedrum.com

Dopo l’articolo su The Independent delle scorse settimane, torno ad occuparmi della stampa d’Oltremanica. Oggetto del mio approfondimento è stavolta The New Day, il nuovo esperimento firmato Trinity Mirror, lanciato lo scorso 29 febbraio. Si tratta di un quotidiano in edicola dal lunedì al venerdì, il primo giornale cartaceo a pagamento lanciato nel Regno Unito dal 2010. Sono state ben 2 milioni le copie distribuite gratuitamente il primo giorno, precedute da una robusta campagna mediatica che ha visto anche l’utilizzo di radio e tv (5 i milioni di sterline spesi per la pianificazione dell’attività pubblicitaria a supporto del lancio del quotidiano).
Un giornale nuovo nell’approccio e nel formato: non politicamente schierato, senza editoriali né sito web (ma con profili Facebook e Twitter), The New Day è un giornale di 40 pagine appositamente pensato per essere letto in una 30ina di minuti, tempo questo ritenuto il più opportuno in considerazione del “bombardamento” mediatico al quale ognuno di noi è quotidianamente sottoposto.
Anche il linguaggio risulta rinnovato rispetto a quello degli altri giornali: il target di riferimento ha un’età compresa tra i 35 e i 55 anni, persone che – secondo le parole di Alison Phillips, direttrice di The New Day – non comprano più i giornali non perché abbiano smesso di apprezzare la carta stampa, quanto piuttosto perché in edicola non trovano ciò che possa assecondare le loro esigenze.
Un progetto ambizioso, strutturato per riempire il vuoto lasciato dal The Indepenent (che ha optato per il solo online) ma che può essere definito low-cost: le notizie sono le medesime del Daily Mirror e dal Mirror Online, (ri)elaborate dallo staff di 25 giornalisti della nuova testata.
L’obiettivo dichiarato dall’editore – Trinity Mirror ha appena reso noti ricavi in discesa anche per il 2015 – è quello di diventare profitable entro il 2017, attestandosi auspicabilmente sulle 200.000 copie vendute al giorno.

Anche la politica di prezzo, nella sua formulazione, risulta piuttosto aggressiva: dopo la distribuzione gratuita del giorno del lancio, da calendario, il prezzo di The New Day avrebbe dovuto restare per due settimane di 25 centesimi di sterline salvo poi attestarsi sui 50 centesimi.

Il secondo giorno a pagamento, il mercoledì successivo al lancio, il quotidiano ha venduto 148.000 copie, -4% rispetto al giorno precedente. Nel corso dei giorni a seguire le copie sono ancora scese, stabilizzandosi attorno alle 90.000 copie, motivo per il quale l’editore ha deciso di congelare ancora per “qualche settimana” il prezzo di 25 cent, evitando di raddoppiare la cifra per non perdere ulteriori lettori (contemporaneamente, l’editore ha anche scritto una lettera agli edicolanti, chiedendo il loro supporto nella distribuzione del giornale).

Insomma, il progetto a meno di un mese dal lancio deve già affrontare le prime difficoltà. E se all’interno della redazione tutti sperano si tratti di una “normale” flessione dopo i primi giorni di grande visibilità del giornale, qualcuno tra gli addetti ai lavori segnala come in realtà possa non trattarsi di qualcosa di banale. Un’altra delle novità del quotidiano è infatti quella di dar poco spazio alla pubblicità (e di non darlo per nulla agli annunci a pagamento). Motivo per cui il dato delle copie vendute risulta di capitale importanza. Soprattutto se, come riportato dal Guardian, gli spazi pubblicitari di The New Day sono stati proposti agli inserzionisti con la garanzia di un’audience di almeno 200.000 copie, pena il rimborso del 50% di quanto stanziato in advertising.

La speranza che The New Day non si dimostri un azzardo resta ancora viva. Ma la strada per il giornale, alla luce dei primi risultati, se possibile pare ancora più in salita.

The Independent, da marzo stop alla carta

Img: theguardian.com

Da alcuni giorni, i giornalisti d’Oltremanica si confrontano sulla scelta del The Independent di cessare le pubblicazioni cartacee focalizzandosi esclusivamente sul digitale. Si tratta del primo quotidiano nazionale britannico ad intraprendere una simile strada che, negli auspici della proprietà (ESI Media), consentirà alla testata di proseguire la crescita di lettori affiancando al giornalismo di qualità un futuro sostenibile. Un piano ambizioso che, entro il 2016, punta non solo a rafforzare la readership ma che si pone anche l’obiettivo di raddoppiare i guadagni del giornale. Interessante notare come, presentando la rivoluzionaria svolta del quotidiano, i vertici della testata abbiamo sottolineato come la scelta fatta consentirà a The Independent di continuare a investire in innovazione con la flessibilità tipica delle start-up ma, al contempo, con l’autorevolezza di un giornale dal posizionamento unico, nato 30 anni orsono da giornalisti del Times in profondo disaccordo con le scelte dell’allora nuovo proprietario Rupert Murdoch.
Il giornale ha più volte dimostrato una certa propensione all’”azzardo”, soprattutto in considerazione del fatto che sin dalla sua nascita si è voluto proporre quale quotidiano di qualità in contrapposizione alla stampa popolare (alla quale però rubò l’impaginazione a tabloid che, a cavallo degli anni Duemila, sostituì il formato a nove colonne). Proprio dall’incessante predisposizione alla sperimentazione è nato uno dei successi della testata: i, la versione sintetica e decisamente meno costosa del giornale vero e proprio, pensata per allargare il pubblico di lettori strizzando l’occhio in particolare ai giovani. Lanciata nel 2010, in pochi anni, a differenza del “fratello maggiore”, ha visto crescere sino ad oltre 280 mila le copie distribuite, in assoluta controtendenza rispetto al The Independent che negli ultimi cinque anni ha visto calare i lettori di due terzi, dagli oltre 185 mila del 2010 ai 61 mila del 2015. Forse le due testate invece di supportarsi si sono sfidate su un terreno comune – con grande dispendio di risorse – ma è singolare che proprio la parte più sana della distribuzione cartacea, stia per essere venduta al gruppo editoriale Johnston Press. Certo, il corrispettivo online – non più i100 ma indy100 – una sorta di BuzzFeed in salsa britannica, continuerà a restare un laboratorio per tentare di attirare pubblico e capirne le abitudini, ma senza il supporto della carta la crescita dello spazio rischia di essere più lenta.

Sul fronte pubblicitario, le parole di Jon O’Donnell, direttore commerciale ESI Media, hanno sottolineato come la trasformazione del giornale in pubblicazione esclusivamente online renderà i rapporti con gli inserzionisti “più chiari”, consentendo al giornale di concentrare tutti i propri sforzi sui contenuti, sulla lettura dei dati a disposizione e sulle modalità per far crescere la propria offerta legata al native advertising.

Particolare tutt’altro che secondario, The Independent si è posto l’obiettivo di affidare il 100% dei propri spazi pubblicitari, entro la fine del 2017, al cosiddetto programmatic advertising. Tale modalità, in estrema sintesi, consente la gestione automatizzata delle inserzioni attraverso software che puntano a migliorare l’efficienza degli investimenti facendo incontrare domanda e offerta con maggiore flessibilità e immediatezza.

Insomma, una serie di sfide impegnative attendono The Independent nei prossimi mesi. La speranza della proprietà è quella che, anticipando i tempi, l’aver abbandonato la carta si dimostri alla lunga (ma non troppo) una scelta lungimirante per ottimizzare le risorse e continuare a raccogliere consensi.

Rinnovato il sito, parte una delle settimane più lunghe per il Corriere (ma forse anche per l’editoria italiana)

Ad inaugurare una settimana che si preannuncia storica per il Corriere della Sera – in particolar modo per il reparto digital della testata – da ieri, lunedì 25 gennaio, è online la rinnovata veste grafica del sito del quotidiano RCS Mediagroup.

Con molta curiosità, appena appreso del “lancio” dal tweet del direttore del quotidiano, mi sono precipitato a visitare – prima da smartphone e poi in maniera più approfondita da notebook – la nuova homepage del giornale. E, devo riconoscerlo, l’impatto è stato positivo: lo stile, che mi ricorda quello del New York Times, fatto sottili linee nere a separare i diversi contenuti su sfondo bianco risulta semplice, essenziale e quindi a mio parere leggero “quanto basta” da fruire.

Dopo una sintetica panoramica sulla homepage mi sono annotato gli aspetti che invece mi convincono meno, quelli che, a puro giudizio personale, se avessi potuto partecipare in maniera costruttiva al progetto – seguire il quale immagino sia stato tutt’altro che semplice, complimenti al team coinvolto – avrei consigliato di realizzare diversamente.

Img: corriere.it

Img: corriere.it

Le icone dei social network sotto ogni articolo

Trovo che siano ridondanti e che possano inconsapevolmente incentivare la condivisione da hp più che la lettura dell’articolo. Sarò fissato con nyt.com ma avrei lasciato la sola indicazione dei commenti, quella che a differenza delle altre icone non si esaurisce nel click ma che, almeno potenzialmente, porta l’utente a cliccare sullo strillo e a leggere il pezzo prima di condividere il contenuto e/o interagire con la redazione/gli altri utenti.

Ultimo inciso di natura strettamente tecnica: i link di condivisione degli articoli su Twitter sono lunghissimi, urge sintesi anche in quell’aspetto!

Il logo delle testata

Il logo della testata, allo scroll, sparisce. A ben vedere, nel menu in alto fisso, se si scende con la pagina, compare una “C” nella parte iniziale a sinistra. Ma mi pare pochino, il simbolo del giornale si perde di vista e si ha quasi l’impressione di essersi dimenticati dove ci si trovi. Avrei fatto in modo che, come per la homepage di altre testate (es. guardian e wsj), il logo accompagnasse il lettore sino alla fine, restando sempre ben visibile (anche se graficamente di dimensioni minori) di modo da contribuire a mantenere ben chiara l’identità della testata, valore questo che mi pare molto importante per il quotidiano milanese.

Scroll eccessivo

La mancanza del logo della testata si sente anche perché, iniziato lo scroll, si ritrova l’immagine alla fine della pagina, quando tutti i contenuti della home sono stati mostrati. Il fatto è che per giungere nella parte più bassa della home le schermate sono davvero molte, per i miei gusti personali decisamente troppe. La percezione che la testata copra uno svariato numero di notizie si ha netta ma, nel mio caso, ciò non necessariamente corrisponde ad un valore positivo. Insomma, vista la quantità di notizie oggi disponibili mi aspetto ancora di più che il giornale funga da “filtro” per ciò che effettivamente merito di conoscere. Da questo punto di vista, promuovo a pieni voti il nyt e il guardian, rimando corriere e wsj: una homepage meno articolata senza essere più povera mi “spaventa” di meno e può essere un viatico a una “pagina di ingresso” che si rinnova di più e in un arco temporale minore.

Disposizione articoli colonna di destra

Se apprezzo la disposizione a colonne, trovo talvolta confusionaria l’organizzazione dei contenuti, in particolare per ciò che concerne la colonna di destra posizionata sotto la parte degli editoriali. Sarà il fatto di non essere un nativo digitale quanto piuttosto uno di quelli che il giornale di carta, almeno la domenica, lo sfoglia ancora ma per il sottoscritto la gerarchia delle notizie ha un valore. E le notizie della colonna di destra – quella che forse si aggiorna più spesso – mi paiono di un piano decisamente differente rispetto alle “vicine” news che, anche visivamente, rappresentano il centro della pagina e i pezzi più importanti. Calciomercato, tecnologia, televisione, di nuovo calcio, Roma, proteste in Rete… non intravedo un filo logico e le notizie, apparentemente senza un comune denominatore, a differenze delle inchieste della colonna di sinistra, paiono susseguirsi senza un ordine né in termini di rilevanza né di tematica.

Avrei studiato la disposizione a colonne in maniera diversa per distinguere, ad esempio, in maniera più netta le breaking news, evidenziando gli ultimi aggiornamenti dagli altri approfondimenti.

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Img: corriere.it

Link “spezzati” nei titoli

Alcuni titoli, nell’essere disposti su due righe, presentano link spezzati. Per capirci, se un titolo è formato da due frasi, la prima frase sembra rimandare a un link differente rispetto alla seconda in quanto, pur facendo parte del medesimo titolo, non c’è continuità nel tag a href. Il collegamento è lo stesso e per questo motivo (in realtà non peculiarità della nuova versione) trovo la cosa inutile e confusionaria. “Tutto il Corriere: dove, come e quando volete”: Tutto il – Corriere: – dove e quando volete, tre parti del testo cliccabili che puntano però allo stesso articolo. La cosa non sarà mica voluta per aumentare il numero dei click, vero?

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Img: corriere.it

Blog del Corriere

I blog delle singole firme – tra i quali Italians di Servegnini – sono relegati propria alla fine della homepage, distanti un bel po’ anche dagli spazi multiautore. Questi ultimi, tra l’altro, mostrano in home l’autore dell’ultimo pezzo sotto il nome del blog non a margine dell’articolo e quindi possono a mio avviso dare adito a fraintendimenti in chi non visita il sito con la frequenza necessaria per notare i differenti giornalisti che contribuiscono (eccezion fatta per Piazza Digitale sempre a cura di admin, nonostante all’interno poi le firme sia varie).
In ogni caso, i blog non mi sembrano sfruttati a dovere, quasi nascosti, difficili da trovare anche perchè li conosce e sa per certo che da qualche parte devono pur essere stati posizionati (serendipity ai valori minimi).

Queste alcune delle mie impressioni a caldo, l’analisi del sito sicuramente proseguirà nei prossimi giorni, ben vengano nel frattempo pareri e valutazioni da parte di chi desidera offrire, con un commento, una mail, un tweet, nuovi spunti di riflessione.

Se potessi avere un milione di abbonati al mese

Img: bostonglobe.com

Il New York Times, con un comunicato ufficiale pubblicato lo scorso 8 agosto, ha reso noto il superamento (a fine giugno) della quota di 1 milione di abbonati digital-only. Il risultato è stato ottenuto grazie al paywall, sistema che dal 2011 consente agli utenti non abbonati di fruire gratuitamente di un numero limitato di articoli del giornale al mese, richiedendo la sottoscrizione di un abbonamento per proseguire la lettura dei contenuti della testata. Al lancio, in un mondo – quello editoriale – che faceva della gratuità online una sorta di dogma della Rete, in pochi avrebbero immaginato che in poco meno di quattro anni e mezzo il NYT potesse raggiungere tale traguardo (anche il Wall Street Journal, a quota 900.000 abbonati, intravede la meta). Il presupposto che gli utenti potessero essere inclini a pagare per leggere informazioni disponibili senza costi in molte (altre) risorse su web non sembrava credibile a tal punto da superare il timore di un allontanamento repentino dei lettori dalla testata proprio in virtù di una richiesta economica all’epoca quanto mai inusuale. Nonostante i foschi presagi però, il NYT è riuscito a raggiungere per primo l’ambizioso obiettivo – una pietra miliare come l’ha definita Mark Thompson, presidente e CEO di The New York Times Company – frutto tanto di un giornalismo conosciuto ed apprezzato da anni nel mondo quanto di ingenti investimenti in innovazioni tecnologiche capaci, nel corso degli anni, di continuare a far eccellere la testata nonostante la forte concorrenza.
Se il traguardo del milione di abbonati certifica l’efficacia della strategia digitale del giornale (crescita nell’ultimo quarter, in termini di guadagni, del 14,2%) per paradossale che possa sembrare, la strada da fare per arginare la continua discesa degli introiti pubblicitari – che complessivamente, nonostante la crescita del comparto digital, negli ultimi quattro mesi hanno fatto registrare un -5,5% in virtù soprattutto di un nuovo ribasso della pubblicità a stampa – è ancora in salita, irta di difficoltà. Notevoli progressi sono stati fatti dal NYT per equilibrare il rapporto tra abbonamenti e pubblicità: ad oggi gli abbonati nella loro totalità (cartaceo e/o digitale) rappresentano il 55% dei guadagni complessivi della testata contro il 39% di revenue provenienti dalla pubblicità. Appare chiaro tuttavia che per gestire i costi dello sviluppo tecnologico necessario per competere con gli altri player, sia necessario lavorare ancora più assiduamente sulla quella enorme fetta di utenti che, visitato il sito del giornale, fruisce dei contenuti senza però siglare un abbonamento (in questo senso, quanto accaduto per la app NYT Now, è rappresentativo della difficoltà di attirare il pubblico giovane). Al momento, infatti, i “pochi” paganti (stime parlano di una percentuale nell’ordine di poche unità di abbonati in rapporto ai visitatori unici al mese fatti registrare dal sito) consentono anche ai non abbonati di fruire dei contenuti della redazione.
Vinta una “battaglia”, insomma, la “guerra” per veder crescere i guadagni del giornale resta ancora lunga. Nonostante gli sforzi, infatti, se il NYT negli ultimi anni (2014 e 2013) ha evitato il passivo nel computo dei guadagni totali della testata, ha visto una crescita flebile arrivata lo scorso anno a 0,7%.
Ancora troppo poco per dichiarare il modello del giornale come solido ed efficace anche sul lungo periodo.

Il futuro di Twitter nelle news più che nelle conversazioni?

Img: buzzfeed.com

Dallo scorso lunedì 3 agosto, per alcuni utenti statunitensi e giapponesi, tra le voci del menu orizzontale (Home, Notifiche, Messaggi e Account le opzioni sinora presenti) è apparsa anche la nuova icona News. Si tratta di un esperimento portato avanti dalla società californiana nel tentativo di offrire nuove e più semplici modalità per individuare i contenuti più interessanti. Una volta cliccato News, Twitter visualizza le notizie più discusse mostrandone l’origine (la testata), il titolo e un’immagine di anteprima. Scelta una voce, il messaggio si espande visualizzando, oltre a titolo e alla fonte, un blocco di testo dell’articolo e il link cliccando il quale leggere il pezzo. Come sottolinea un interessante articolo di BuzzFeed (tra le prime testate a riportare la notizia dalla nuova feature di Twitter), con questa mossa – e con il crescente interesse per gli eventi live – Twitter ha forse intrapreso definitivamente la strada che porterà la app a diventare una sorta di motore di ricerca di contenuti piuttosto che esclusivamente uno strumento per condividere informazioni. Il cambio di prospettiva, però, non è solo finalizzato a un miglioramento della cosiddetta user experience (e, quindi ad incrementare il numero della base di active user la cui crescita resta piuttosto lenta), alla base della decisione c’è sicuramente anche l’aspetto legato ai profitti. Il limite di Twitter per molti inserzionisti è oggi come oggi rappresentato dalla difficoltà di inserire messaggi pubblicitari all’interno di conversazioni tra utenti senza che questi siano percepiti come ostacolo al flusso comunicativo. Prevedendo una sezione apposita per le notizie (che in questa fase sperimentale non presenta advertising ed è appannaggio di un numero limitato di partner), è facile intuire come obiettivo di Twitter sia quello di offrire nuovi spazi di azione più efficaci a chi desidera pubblicizzare la propria azienda, rinnovando le possibilità di native advertising messe a disposizione dallo strumento.
Ad inizio aprile Twitter ha abbandonato Discover, superando la possibilità di individuare contenuti sulla base delle persone seguite e semplificando l’emergere di hashtag e argomenti di tendenza (che vengono elencati scegliendo lo strumento della lente per la ricerca in alto a destra) a livello più esteso.

Dopo Facebook e Snapchat, anche Twitter dunque punta sulle news offrendo ad un comparto media, sempre più competitivo, una più stretta collaborazione. Con la speranza che la sinergia possa essere win-win, proficua per entrambi i soggetti in gioco.

Nuovo corso per il Financial Times: sole levante o luna crescente?

Img: theguardian.com

Il Financial Times è una delle testate di riferimento per quel che concerne l’informazione online, sicuramente uno degli esempi più virtuosi (e citati, anche in questo nel blog) di come il web possa rappresentare per il giornalismo un’opportunità e non necessariamente una minaccia.

Un modello di business audace quanto efficace (incentrato su un rigido paywall), un brand riconosciuto ed apprezzato per integrità, autorità e accuratezza, una diffusione cresciuta del 30% negli ultimi cinque anni (rappresentata, oggi come oggi, per il 70% da abbonati “digitali” al quotidiano), una forte spinta – per metà del traffico complessivo – da mobile. Insomma, una situazione invidiabile per molti gruppi editoriali, in difficoltà nell’individuare strategie in grado di far fronte alla contrazione – in termini di introiti – del mercato pubblicitario.

Ciò nonostante il gruppo Pearson alcuni giorni fa ha confermato la vendita di FT al giapponese Nikkei, cessione che consentirà alla società fondata da Samuel Pearson di focalizzarsi su istruzione e formazione, colonne portanti della realtà inglese che nel 1957 acquistò l’autorevole giornale economico-finanziario.

In un articolo pubblicato pochi giorni fa, Jonh Fallon, chief executive di Pearson, raccontando il passaggio di consegne (e, in qualche modo, difendendo la scelta fatta), descrive l’attuale momento come un periodo di crisi dei media: la dirompente diffusione delle nuove tecnologie e, in particolare, le crescite esplosive di mobile e social media, rappresentano sfide molto impegnative per la produzione e la vendita del giornalismo. In virtù di ciò, nonostante la readership oggi registrata sia per il Financial Times la più elevata di sempre (e i lettori siano disposti a pagare come mai per essere informati), dopo attente analisi e riflessioni, il gruppo Pearson ha ceduto FT per dare l’opportunità alla redazione di far parte di una realtà giornalistica digitale globale, focalizzata al 100% sull’editoria.

Non sono un esperto di alta finanza ma il messaggio, tra le righe, mi pare un modo elegante per indicare i media tradizionali, benché capaci di reinventarsi e crescere sottoforma digitale, quali strutture ancora fragili e inadatte a garantire guadagni crescenti. Insomma, non così accattivanti per chi, operando in altri settori, voglia investire del denaro (a conferma di ciò, pare che anche l’Economist, altra testata in orbita Pearson, sia sul mercato).

Il valore pagato da Nikkei per FT è di 1,3 miliardi di dollari, 5 volte la somma versata nel 2013 da Bezos per acquistare il Washington Post. Se non c’è alcun dubbio sul fatto che la cifra sia davvero notevole, è altrettanto vero che le parole di Naotoshi Okoda, presidente e amministratore del quotidiano Nikkei, sembrano comunque confermare i limiti della stampa: “Siamo giornali. L’affare [con Pearson] non punta a incrementare i profitti. Lo abbiamo fatto perché vogliamo crescere l’influenza del [nostro?] giornalismo”.

Il futuro di FT (e, generale, del “Quarto Potere”) insomma, resta ancora tutto da decifrare.

L’informazione può prescindere da Facebook?

Img: dawn.com

Il rapporto tra il mondo dell’editoria e Facebook ha vissuto fasi alterne. Al grande entusiasmo delle principali testate per le applicazioni di Social Reading – adottate a partire dal 2009 per leggere, commentare, condividere gli articoli proprio attraverso il social network di Palo Alto – si è registrato un raffreddamento in virtù dei successivi cambiamenti nell’algoritmo della gestione del flusso di notizie (e dei conseguenti ridimensionamenti del traffico da Facebook) che hanno messo la parola fine a molti dei progetti di stretta collaborazione.

Dalla scorsa settimana, una notizia pubblicata dal New York Times, ha però riportato sotto i riflettori l’ambizione di Facebook di diventare il “miglior giornale personalizzato del mondo”. Pare infatti che il social network guidato da Zuckerberg, forte dei suoi 1,4 miliardi di utenti, abbia iniziato ad intavolare con una dozzina di media company (tre le quali BuzzFeed, National Geographic, il Guardian, l’Huffington Post, Quartz e lo stesso NYT) una serie di incontri per valutare la disponibilità delle testate a veicolare i contenuti direttamente nel social network piuttosto che utilizzare, come avviene ora, collegamenti esterni ai vari articoli.

L’obiettivo parrebbe quello di incrementare la soddisfazione del lettore in termini di user experience: superando l’ostacolo del rimando ai siti delle testate e, conseguentemente, il caricamento di nuove pagine, il rischio di spazientire l’utente, soprattutto se si tratta di un lettore che naviga su web da mobile, si ridimensionerebbe notevolmente. Ciò comporterebbe un aumento del tempo speso nel social network e, quindi, un incremento dell’esposizione ai messaggi pubblicitari veicolati attraverso Facebook.

Al di là delle modalità legate alla pubblicità all’interno dei contenuti delle testate – pare che Zuckerberg e soci vogliano proporre agli editori una sorta di affiliazione: spazi pubblicitari gestiti da Facebook inseriti negli articoli e suddivisione degli introiti in base alle performance – resta da capire se le testate accetteranno di scambiare la visibilità dei loro pezzi cedendo però a Facebook i (preziosi) dati circa i profili dei lettori e il loro comportamento nei confronti del materiale informativo.

Leo Mirani, in un interessante articolo pubblicato da Quarz, ha sottolineato come l’offerta di contenuti a “spazi terzi” (quali, ad esempio, YouTube e Snapchat) attraverso i quali diffondere gli articoli, non sia per le redazioni una novità. Proprio per questo motivo, a suo dire, non bisogna temere l’iniziativa di Facebook (che, tra l’altro, non prefigura il social network come canale giornalistico esclusivo). Perché non si può insistere nel pensare che siano i lettori a visitare i siti delle varie testate: chi produce contenuti deve essere presente nei luoghi dove gli utenti sono soliti raccogliersi.

E sotto questo punto di vista, nel bene e nel male, prescindere da Facebook oggi non sembra possibile.

Google ed editori: c’eravamo tanto amati

Img: presstv.ir

La sfida tra editori e Google ha segnato nei giorni scorsi un nuovo avvenimento degno di nota: il gigante editoriale tedesco Alex Springer ha abbandonato, dopo solo due settimane di test, il blocco che limitava l’accesso ad alcune delle proprie pubblicazioni al motore di ricerca offrendo una free license per l’utilizzo dei contenuti di 4 siti del gruppo (welt.de, computerbild.de, sportbild.de e autobild.de).

L’irritazione degli editori (in Germania ma anche in Spagna, Francia e Italia solo per citare alcuni dei Paesi nei quali il problema ha dato adito ai dibattiti più accesi) è dovuta al fatto che l’azienda di Mountain View non si limita a riportare, nei risultati di una ricerca, i soli link agli articoli dei giornali ma presenta anche degli estratti dei contenuti. Secondo i detrattori, Google sfrutterebbe il materiale delle redazioni senza pagare alcunché alle testate ma anzi, guadagnando, anche grazie ad esso, in virtù degli annunci sponsorizzati del proprio circuito.
Gli editori, in alcuni stati, hanno perciò iniziato a riunirsi in consorzi (es. VG Media con oltre 200 editori tedeschi) chiedendo a gran voce che i propri rappresentanti politici si adoperino per tutelare il copyright dei loro contributi e per imporre a Google e altri aggregatori il pagamento di una fee (sintetizzata in Google Tax) per rendere pubblica la preview dei contenuti delle varie testate.

E’ interessante notare come la decisione di Springer che, sulla base del calo di traffico – sceso del 40% dal motore di ricerca e dell’80% da Google News – ha deciso di tornare ad adottare una posizione meno intransigente, susciti riflessioni opposte nei due schieramenti “in campo” (o forse, per meglio dire, “in rete”).
Se Mathias Doepfner, Chief Executive di Springer, sottolinea come quanto accaduto sia la prova più lampante della posizione dominante di Google nel mercato del search e quando sia stata discriminante la scelta del gruppo editoriale di provare a limitare il motore di ricerca (alcuni hanno notato come la marcia indietro del gruppo sia stata pressoché contemporanea all’annuncio dei dati che mostrano un utile ancora in discesa per il gruppo editoriale a causa, soprattutto, di incassi minori dalla pubblicità a stampa), dalla sede Google in Germania si fa notare come i numeri emersi dalla vicenda dimostrino quanto l’azienda californiana sia importante per il contributo fornito all’economia dell’informazione online.

Se è vero che Google guadagna dalla pubblicità veicolata attraverso l’indicizzazione di contenuti non propri nella SERP (il ragionamento che vale per le testate risulta valido, su scala minore, anche per i blog) è altrettanto vero che è proprio grazie al motore di ricerca o all’aggregatore di notizie Google News che i contenuti possono essere trovati dagli utenti, sempre più inclini a interrogare la Rete piuttosto che a visitare le homepage delle varie testate.

La questione, seppur delicata, sembra però una sorta di diversivo rispetto a una problematica ben più complessa: Google per il mondo dell’editoria pare essere più un’opportunità che una minaccia, ciò che continua a mancare è un modello (valido) di business che consenta alle testate di finanziarsi a prescindere dagli strumenti che gli utenti usano per trovare i contenuti informativi.

Un po’ come guardare il dito di chi indica il cielo.