Quando la stampa scopre l’ecommerce

Img: wwd.com

Alcuni giorni fa mi è stato chiesto di commentare la partnership tra Harper’s Bazaar, storico magazine di moda e stile del gruppo Hearst, con l’italiana Yoox (UPDATE: l’intervista è stata pubblicata nel numero di dicembre di AdV). Ho in questo modo potuto approfondire gli aspetti legati al rapporto tra stampa ed ecommerce che, focalizzando la mia attenzione prevalentemente al mondo dei quotidiani, avevo forse tralasciato.

In questi ultimi anni molti sono i gruppi editoriali che hanno deciso di puntare sul commercio elettronico. Condé Nast, tanto per citare un altro esempio, ha investito in due marketplace: Farfetch, spazio che unisce boutique indipendenti e Vestiaire Collective, community dedicata alla vendita online di abiti e accessori di lusso usati.

In ordine di tempo, una delle prime strette collaborazioni tra chi scrive contenuti e chi vende beni su web, è stata quella di Vogue che, per la settimana della moda di New York del settembre 2012, offrì alle proprie lettrici la possibilità di acquistare, attraverso il luxury retailer Moda Operandi, i capi di abbigliamento presentati nelle passerelle.

Altro caso degno di nota è quello di Elle che lo scorso anno ha iniziato a sperimentare il social e-commerce. La redazione presentava alcuni capi “must” della stagione in arrivo, gli utenti potevano interagire con in contenuti scegliendo tra “Love”, “Want”, “Own” o, più sotto, “Buy”.

In realtà, scandagliando la Rete ho trovato anche qualcosa di relativo ai quotidiani. L’autorevole Washington Street Journal ha, infatti, da alcuni giorni lanciato un proprio canale ecommerce. Si chiama The Shops, un sito di vendita online di prodotti di lusso sponsorizzato da Capital One (e dalla sua carta di credito). Tutto torna. O quasi. Perché poi, in fondo alla pagina, un riquadro magenta sottolinea come il sito operi in maniera indipendente dalla redazione del quotidiano finanziario.

L’editoria in crisi sperimenta nuove soluzioni – che alle volte si allontanano dal core business delle news – alla ricerca di modelli economici alternativi.
Se per la stampa l’ecommerce possa rappresentare una interessante fonte di reddito forse è troppo presto per dirlo. In ogni caso, da lettore, mi auguro che ciò avvenga in maniera trasparente salvaguardando la distinzione tra contenuto informativo e pubblicitario.

Promuovere gli ebook, il mio intervento su #nepare

Nella giornata di ieri ho avuto l’onore di partecipare, in qualità di relatore, al primo corso dedicato agli editori digitali promosso da Simplicissimus Book Farm. Un intervento, a chiusura della giornata di formazione dedicata agli ebook, che mi ha dato modo di raccontare alcune delle iniziative da me attivate nella Rete a supporto di News(paper) Revolution.

Una semplice carrellata di suggerimenti (non volevo certo infierire dopo ore e ore di attenzione massima) che mi sono sentito di condividere nella mia duplice veste di autore e di “stratega” della promozione online del libro. Immagino non sia una situazione usuale, ma in virtù della mia esperienza con web e social media, l’editore (Fausto Lupetti che ringrazio per avermi messo in contatto con gli organizzatori del corso), al momento del lancio del saggio, mi ha lasciato carta bianca offrendomi massima libertà di azione.

Quando gli investimenti pubblicitari sono di tasca propria e si utilizzano per “spingere” il frutto del proprio lavoro, di ore passate davanti alla schermo di un computer, la responsabilità insita nella sfida di utilizzare al meglio le poche risorse disponibili è ancora più sentita.

La promozione del libro continua (il prossimo 19 novembre presenterò il testo su Second Life) ma, dopo alcuni mesi dall’uscita, era forse tempo di stilare un primo bilancio. La presentazione, in questo senso, è stata una buona occasione per vagliare aspettative, difficoltà incontrare, miglioramenti apportati in corsa e nuove nozioni apprese.

Non si tratta di soluzioni tecniche che garantiscono il successo, ma di 6 semplici step che rappresentano l’approccio al web che mi sento di consigliare.

Ringraziando ancora una volta chi mi ha dato modo di parlare della mia esperienza (e, di riflesso, del mio libro), resto a disposizione per eventuali curiosità o suggerimenti.

[update: l’intervento di cui sopra è diventato un ebook, Web Marketing: questione di metodo]

Orange County Register, il giornale controcorrente

Aaron Kushner

Img: cjr.org

Il mondo dell’editoria non sta vivendo un periodo felice. I dati sugli introiti pubblicitari continuano a scendere, le redazioni sono alle prese con tagli del personale e drastiche riorganizzazioni.

In un clima così tetro, la notizia circa l’esperimento del quotidiano californiano Orange County Register sembra quasi un miraggio.
Il giornale, infatti, pare percorrere in senso contrario il declino della stampa. Sta assumendo personale, sta puntando forte sulla versione cartacea della quale ha aumentato la foliazione e, soprattutto, sta registrando una crescita dei ricavi.

Fondato nel 1905, il giornale ha attraverso alcuni momenti davvero difficili ma, da un anno a questa parte, la storia del quotidiano è cambiata completamente. La testata ha visto l’ingresso di due nuovi soci: Eric Spitz e Aaron Kushner. Quest’ultimo, nonostante la mancanza di esperienza nel campo giornalistico, sembra per ora aver vinto la propria scommessa.

Come? Puntando sui contenuti, non sul mezzo. E così, in un momento di crisi come quello attuale, per prima cosa Kushner ha voluto ampliare l’edizione cartacea (più pagine a colori) e il personale – fotografi e giornalisti – per coprire al meglio le notizie locali. Fede, scuola, cibo, cronaca e sport i focus principali, con un notevole spazio – nell’edizione del fine settimana – alle attività sportive femminili e maschili delle high school per avvicinare alla testata anche il pubblico più giovane. Anche l’offerta è stata semplificata: che sia carta o web, il giornale chiede ai propri lettori 1 dollaro al giorno (con un paywall online molto restrittivo).

L’ambizione è quella di poter offrire ai propri lettori un giornale che rappresenti lo strumento più adatto per essere informati e capire la comunità nelle quale si vive o lavora. Un quotidiano utile al proprio pubblico, dai contenuti rilevanti e originali (in un parallelismo televisivo, uno dei giornalisti della testata, Rob Curley, parlando della sfida di rendere unico il quotidiano, ha citato l’esempio dei Soprano, trasmessi solo da HBO e da nessun’altra parte).

Il modello del Orange County molto probabilmente non è così facilmente replicabile in altre redazioni, ma resta interessante da seguire nei suoi ulteriori sviluppi.
Perché in fondo, la considerazione di Kushner secondo la quale mai come oggi il pubblico di lettori è vasto, risulta inattaccabile. Tornare a concentrarsi sull’idea di servizio al cittadino, puntando sulla qualità dei contenuti appare una scelta più che condivisibile.

L’innovazione? A Boston è di casa

Img: 61Fresh.com

Il mercato dell’editoria sta vivendo un momento molto difficile. Il termine innovazione è ormai sulla bocca di quasi tutti gli addetti ai lavori, concentrati nel capire quale sia la strada più sicura sulla quale affrontare i cambiamenti in atto. Mettere in pratica processi che portino a risultati migliori è però molto complicato: in un contesto nel quale, a fronte di investimenti, l’obiettivo risulta ottenere effetti pressoché immediati, ragionare in termini di lungo periodo, vista la rapida evoluzione della Rete, è quasi impossibile.

Nonostante tutto, alcune testate, continuano a provare nuovi approcci al web. Non si tratta esclusivamente di redazioni arcinote, esiste un “sottobosco” di quotidiani a carattere locale che, come avvenne agli esordi di internet con il Chicago Tribune e il Nando Times (in Italia con l’Unione Sarda), per tentare di allargare il proprio pubblico di riferimento o per offrire un’alternativa al mainstream, continuano a proporre nuovi strumenti e nuove modalità di approccio all’informazione.

Uno dei casi di maggior successo in questo senso (successo misurato non esclusivamente in termini di parametri numerici quanto di capacità di rinnovare la propria identità adattandola agli sviluppi della Rete) è il Boston Globe. La testata – come citato anche in News(paper) Revolution – possiede due declinazioni: una, a pagamento, propria del giornale cartaceo, un’altra gratuitamente fruibile – Boston.com – molto più focalizzata sulle notizie locali e indirizzata a un pubblico più trasversale.

Di questi giorni è la notizia che, proprio lo spazio informativo Boston.com, dal prossimo anno, offrirà una maggiore flessibilità ai propri lettori. Non sono trapelate moltissime informazioni a proposito ma sulla base di quanto dichiarato da Jeff Moriarty – Vicepresidente del Boston Globe e General Manager di Boston.com – il sito proseguirà lo sviluppo della sua costruzione “responsive” anche in ottica utente. Nel 2011 il quotidiano di Boston è stato tra i primi a implementare un sito in grado di adattarsi al device utilizzato. Il giornale, in altre parole, fermo restando i contenuti, è in grado di modificare il proprio aspetto in base al supporto con il quale viene fruito. In questo modo, ad esempio, l’impaginazione è differente se l’utente visita lo spazio informativo da computer, da tablet o da smartphone.
Dal 2014 però la testata farà un ulteriore passo modellandosi anche in base alle modalità di utilizzo del lettore: se l’utente preferirà leggere piuttosto che sfruttare il materiale multimediale a disposizione, il sito sarà in grado di proporre un più alto numero di testi. In qualche modo, quindi, sarà il comportamento stesso dell’utente a configurare la griglia informativa del quotidiano. Un progetto ambizioso che, sulla scia di quanto sta accadendo su Facebook, punta alla personalizzazione, al superamento del giornale indifferenziato, uguale per tutti.

Altro progetto da seguire, sempre a firma Boston Globe, è 61Fresh. E’ uno spazio informativo capace di captare i tweet locali di Boston e dintorni che richiamano le notizie di uno dei 500 siti di notizie della capitale del Massachusetts. Alla base un algoritmo in grado di vagliare la popolarità e la freschezza delle news per riproporre le notizie più chiacchierate dell’area metropolitana.

Complimenti ai responsabili della testata, anche un periodo di crisi può in fondo rappresentare un’opportunità. Per mettersi in gioco e vagliare nuove opzioni.

Know More, l’esperimento semiserio del Washington Post

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Img: http://knowmore.washingtonpost.com

Quando mi capita di parlare in pubblico di web e comunicazione [a proposito, per chi ancora non lo sapesse, domani presenterò News(paper) Revolution a La Fiera delle Parole], uno dei punti sui quali insisto maggiormente è quello relativo alla mia convinzione che, proprio in virtù del mare magnum che è il web, la funzione di “filtro” sia necessaria per non rischiare di perdere la bussola.
A tal proposito cito spesso l’esempio di Compendium, il progetto del New York Times in virtù del quale gli utenti possono organizzare una sorta di bacheca (Pinterest docet) con i contenuti della testata che reputano più interessanti, da condividere con amici e conoscenti (il primo filtro è il giornalista, il secondo, ancora più accurato, è il lettore).
E’ di questi giorni un’iniziativa analoga del Washington Post, forse più “scanzonata”, più semplice ma non per questo non degna di nota.
Lo spazio al quale faccio riferimento è Know More, una riproposizione in salsa blog (trae origine dal Wonkblog) di una bacheca virtuale nella quale però i contenuti sono per la stragrande maggioranza esterni alla testata. Foto, video, grafici sintetizzati con un titolo accattivante che, se cliccati, si aprono a tutto schermo mostrando ai lati due bottoni: No more e Know more. Se si sceglie l’opzione di sinistra (la prima) il contenuto scompare dalla bacheca, se si opta per la seconda si viene rimandati alla fonte dell’informazione. Chi sceglie cosa pubblicare? Una miniredazione composta, al momento, da Dylan Matthews e Ezra Klein. Quest’ultima, presentando l’iniziativa ha sottolineato come lo scopo sia quello di stimolare nei lettori l’approfondimento, un supporto agli articoli interessanti ma non costruiti abbastanza bene da essere trovati dal pubblico. L’aspetto singolare è che mentre solitamente le iniziative editoriali puntano a incrementare il tempo speso entro i propri “confini”, il successo di Know More si misurerà nel numero di utenti che sceglieranno di lasciare lo spazio per leggere altrove. Sintetico e audace, da seguire.

I quotidiani locali nel web: il caso The Oregonian

Parlando di social media e comunicazione online ci si riferisce spesso quasi esclusivamente a grandi aziende. Il citare realtà di grosso calibro è quasi un atto involontario perché i brand più noti hanno maggiore visibilità, una presenza nelle Rete più strutturata e investimenti più rilevanti. In realtà, il mondo oltre le multinazionali, nella diversità di approccio alla sfida delle Rete, è altrettanto interessante.
Un esempio? Navigando in GoogleNews mi sono imbattuto nella storia del The Oregonian e ho deciso di approfondirla perché, in qualche modo, può essere considerata alternativa ai grandi gruppi editoriali statunitensi e più vicina al giornalismo dei quotidiani locali.

The Oregonian è il più antico quotidiano della West Cost: nato come settimanale nel 1850, è il giornale della città di Portland che, in termini di tiratura, occupa la 19esima posizione tra i newspaper degli Stati Uniti.
Non passa un periodo felicissimo tanto che, la scorsa estate, è stata comunicata la riorganizzazione dello staff e la scelta di ridurre a quattro le copie a stampa per focalizzare gli sforzi nell’informazione online. L’obiettivo dichiarato è quello di far diventare il gruppo editoriale una digital-first company.
Per adattarsi ai cambiamenti del pubblico di lettori e del mondo della pubblicità, la prima mossa è stata quella di puntare sullo sviluppo di OregonLive.com che, se mette in secondo piano la testata e il formato giornale, risulta probabilmente uno spazio più dinamico per informare i cittadini. In secondo luogo la direzione ha deciso di dare maggiore enfasi alle edizioni digitali del giornale pensate (e impaginate) per essere fruite da smartphone e tablet.
La problematica più difficile da affrontare per molte piccole-medie testate è il ridimensionamento della pubblicità: se, a livello generale, la pubblicità su Google e gli altri strumenti della Rete ha negli USA ormai sorpassato l’advertising a stampa, le cifre per quel che riguarda il comparto editoriale non sembrano seguire lo stesso trend. E così, all’implosione del mercato pubblicitario su carta, quasi mai corrisponde una solida crescita dell’adv online. Non resta, quindi, che tentare di ridurre i costi (sperando di non dover abbattere la scure sul personale).

Leggendo l’editoriale pubblicato da Peter Bhatia, vicepresidente dell’Oregonian Media Group, che presenta il cambio di rotta entrato del The Oregonian entrato nel vivo lo scorso primo ottobre, emergono alcuni spunti interessanti:

• se Internet enfatizza la velocità, c’è ancora spazio per redazioni che si occupino di inchieste, di approfondimenti, di verifica delle fonti;
• i giornalisti non si devono più preoccupare del posizionamento della notizie sul quotidiano, devono pensare in funzione del web non più della carta (spazio quindi, ad esempio, alla multimedialità);
• la sfida è, per i giornalisti come per chiunque si occupi di comunicazione nel web, quella dell’engagement dei lettori; e l’interattività dei mezzi digitali in questo senso offre notevoli opportunità;
• di fondamentale importanza l’analisi dei dati relativi al comportamento dei lettori che possono aiutare la redazione a focalizzare al meglio ciò interessa alla comunità.

Il viaggio intrapreso dal giornale di Portland e da tante altre testate a carattere locale è una gara ad ostacoli che comporta un radicale cambiamento culturale, una nuova prospettiva con ben poche certezze. Che investe le figure professionali come i semplici lettori. Ma che pare ormai inevitabile da affrontare, prenderne coscienza è un buon inizio.

Tina Brown e lo strano caso del Newsweek


Lo scorso dicembre, in aeroporto per un viaggio all’estero, in attesa dell’imbarco, gironzolando, entrai in un’edicola, una di quelle con un nutrito numero di riviste internazionali. Nonostante non cercassi nulla di particolare, uscii con un magazine in mano (vedi mio tweet). Era l’ultima copia cartacea del Newsweek sulla cui copertina, una panoramica in bianco e nero di New York, capeggiava la scritta sottoforma di hashtag #lastprintissue. Un passaggio epocale era alle porte: alla vigilia degli 80 anni di “onorato” servizio, il giornale fondato da Thomas J. C. Martyn (precedentemente giornalista di cronaca internazionale per il Time), si apprestava a lasciare la carta per il web. Una sfida, quella della Rete, resasi necessaria (in realtà già annunciata nell’ottobre 2012). Newsweek, infatti, acquistato nel 1961 dal gruppo Washington Post Co. nel corso degli anni vede erodersi l’appeal nei confronti dei lettori tanto che, nel 2010, il settimanale è venduto a Sidney Harman per 1 dollaro (confermo: 1 solo dollaro; ma 47 milioni di dollari di passivo). Di lì a poco lo stesso Harman dà vita a una joint venture con l’InterActiveCorp (IAC) creando così una nuova realtà editoriale capace di unire alla freschezza e alla dinamicità di The Daily Beast, la storia e l’autorevolezza del Newsweek. A capo dell’ambizioso progetto, Tina Brown, acclamata ex-direttrice di Vanity Fair e di The New Yorker. Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Perché, notizia di questi giorni, Tina Brown ha deciso di lasciare. Eppure nel suo editoriale pubblicato nell’ultimo numero cartaceo di Newsweek, poco più di un anno fa, sembrava avere le idee molto chiare sul panorama dell’editoria, sui difetti del giornalismo e sugli ostacoli da superare per avere successo. Qualcosa sembra, quindi, non tornare. Tanto che qualcuno tra gli addetti ai lavori inizia a chiedersi se sia a rischio la sopravvivenza del Daily Beast, co-creato nel 2008 dalla stessa Brown e da Barry Diller, spazio informativo vincitore nel 2011 e nel 2012 del Webby Award come migliore sito di notizie. Sì perché, se recentemente lo stesso Diller ha ammesso come l’acquisizione del Newsweek sia stato un errore (il “bistrattato” magazine è stato nuovamente venduto lo scorso agosto, alla IBT Media), sembra che anche per sito le cose non vadano benissimo. Secondo Adweek, infatti, se theDailyBeast.com sembra recuperare in termini di traffico e revenue, le perdite per l’anno in corso sono stimate in 12 milioni di dollari. Tempi duri per chi lavora nell’editoria. Ad ogni livello.

Bezos acquista il Washington Post, il giornalismo torna a sperare

Photo: Billboard.com

La notizia dell’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos mi ha colto di sprovvista, ero in vacanza fuori Italia e non avevo modo, visto il saltellante wifi dell’albergo dove mi trovavo, di approfondire la questione. Così, una volta tornato a casa, ho cercato di rifarmi leggendo notizie e considerazioni su un’operazione, forse proprio per il clima vacanziero, passata un po’ in sordina nonostante si riferisca al giornale della capitale degli Stati Uniti, conosciuto anche oltreoceano per il Watergate che portò all’impeachment di Nixon.

Il punto di partenza è stata la lettera con la quale, al momento dell’acquisto, il fondatore di Amazon ha voluto rassicurare i dipendenti della testata. Un testo semplice, chiaro, che se da un lato ribadisce il valore del giornale come fulcro degli interessi dei lettori, dall’altra sottolinea come Internet stia trasformando l’intero comparto dell’informazione, accorciando il ciclo delle notizie, erodendo la forza numerica delle fonti di guadagno che sembravano consolidate e dando luogo a una nuova competizione editoriale. Nuove sfide, insomma, che a fronte delle attuali mancate certezze del mercato legato alla stampa, Bezos invita a superare inventando e sperimentando. Nel segno della tradizione dei Graham e mantenendo sempre al centro del progetto (lo ripete) i lettori e le loro esigenze.

Ma perché Bezos ha deciso di acquistare il WaPo? Quale il suo obiettivo?

Sottolineato che, secondo alcune stime, i 250 milioni di dollari versati da Bezos, rappresenterebbero meno dell’1% del capitale del fondatore di Amazon, i maligni individuano questioni di opportunità: la proprietà dello storico quotidiano potrebbe portare in dote contatti influenti della scena politica statunitense utili, forse, per agire indirettamente su questioni molto importanti quali, ad esempio, la tassazione sugli acquisti online.

In fondo, se è vero che Bezos è “ossessionato” dalla customer experience e dai programmi di lungo periodo, è altrettanto vero che il Washington Post, nella propria versione cartacea, nel 2012 abbia fatto registrare perdite per oltre 53 milioni di dollari. La sfida, insomma, appare decisamente impegnativa (lo stesso Bezos, nel novembre dello scorso anno, affermò di prevedere la scomparsa dei giornali di carta entro 20 anni).

Personalmente, però, sono tra coloro che intravedono benefici nell’ingresso nel mondo dell’editoria di una tale personalità. Bezos ha investito in dot company quali Twitter e Airbnb, ed è a capo di Amazon, realtà da anni nel business della creazione e distribuzione dei contenuti che ha fatto la sua fortuna soprattutto grazie all’infrastruttura tecnologica, uno degli aspetti del mondo del giornalismo che necessitano di profonda innovazione.

Con la speranza che Bezos possa portare nuova linfa – in termini di approccio, strategie e soluzioni – al mondo della stampa, in attesa delle prime scelte concrete, non mi resta che annotare quanto accaduto per un eventuale aggiornamento di News(paper) Revolution.

Qualche considerazione sul Digital News Report 2013

Pic from ReutersInsitute

Da poco più di un mese è stato pubblicato il Digital News Report 2013 Tracking the Future of News che, a causa dei miei molteplici impegni, ho potuto leggere con attenzione solo negli ultimi giorni. La mole di dati analizzati, sulla base delle risposte di sondaggi online (per l’Italia 965 il numero degli utenti interpellati) è davvero notevole e, provenendo da diversi Paesi (un blocco europeo, Stati Uniti, Giappone e Brasile), permette una visione di insieme del mondo delle notizie molto interessante.

Scorrendo l’indice dello studio, tra le tante voci, una ha subito colpito la mia curiosità: quella relativa al pagamento delle notizie. Il capitoletto – intitolato Paying for Digital News – esordisce indicando due percentuali non molto incoraggianti per il giornalismo online. Rispetto alla data di compilazione del questionario sulla quale è basata l’analisi dello studio (gennaio/febbraio 2013), se il 50% degli intervistati dichiara di aver acquistato un giornale cartaceo, solo il 5% afferma di aver pagato, nelle stesso periodo, per fruire di notizie in via digitale. Se è vero che tale percentuale tiene conto del fatto che ad oggi la maggior parte dei quotidiani online continua ad offrire le notizie senza richiederne un corrispettivo in denaro, considerando l’avanzare di strategie quali paywall, abbonamenti combinati carta-digitale e applicazioni a pagamento, questa mi pare piuttosto bassa. E’ anche vero che in Inghilterra, proprio sulla scia delle nuove più restrittive modalità con le quali le redazioni d’Oltremanica propongono i propri contenuti nel web, la percentuale di acquisto di informazione digitale, in un anno, tra un sondaggio e l’altro, è passata dal 4% al 9%. La media dei lettori paganti, tuttavia, non sembra al momento poter rispondere al calo degli introiti della pubblicità delle testate su carta.
Per quel che concerne il nostro Paese, nello specifico, il 76% degli intervistati non ha mai pagato per una notizia digitale. Andando più a fondo della questione e suddividendo la audience dei lettori in classi di età, netta è la differenza tra gli individui compresi tra i 25 e i 34 anni e gli utenti più anziani. Mentre i primi risultano in media i più predisposti all’acquisto di notizie digitali (con un 20% degli appartenenti rispetto al numero totale del gruppo di età sopracitato), per gli altri la percentuale si abbassa notevolmente. Ciò è probabilmente dovuto ad un utilizzo maggiore, da parte della classe 25-34, di dispositivi quali tablet, smartphone e ebook reader e, quindi, di applicativi che su abbonamento o attraverso micropagamenti permettono l’acquisto di brani musicali, libri, giochi e notizie.
Altra particolarità, proprio per restare in tema di tablet, è quella legata ai possessori di iPad e affini: questi mostrano infatti una propensione doppia, rispetto a chi fruisce delle notizie da computer, all’acquisto di informazione digitale (e, ancora entrando ancora più nello specifico, i prodotti Apple, rispetto ai concorrenti registrano le percentuali più alte di propensione dei propri utilizzatori all’acquisto di informazione online). Questo deriva sicuramente dalle caratteristiche intrinseche dello strumento e delle sue modalità di utilizzo ma anche del tenore di vita superiore rispetto alla media di chi appartiene alla classe che utilizza tali mezzi.
Altro aspetto interessante è quello relativo alla tipologia di pagamento associato alla notizia digitale: se negli Stati Uniti e in Danimarca di gran lunga è l’abbonamento la forma di pagamento più utilizzata tra i lettori della Rete, in Europa e Giappone, pur con differenti percentuali, resta ancora il pagamento “one-off” (un singolo pagamento) la tipologia più scelta, segno che sul versante della distribuzione delle notizie ci sia ancora molto da lavorare (come anche sulla costruzione di un rapporto più solido e continuativo tra utente e testata). Tra l’altro, proprio il nostro Paese, con Francia e Spagna, è quello nel quale, in base alle risposte degli intervistati, il pagamento delle notizie avviene soprattutto tramite applicazioni.

Se l’individuazione di un modello alternativo alla gratuità supportata dalla pubblicità online registra una certa resistenza da parte delle testate, per ciò che concerne gli utenti, leggendo i dati dello studio, non mi pare di aver notato in nessuna sezione una loro ritrosia al pagamento delle notizie in Rete. Probabilmente, quindi, la vera sfida non è tanto convincere i lettori a pagare per la fruizione di informazioni digitali quanto stimolare una predisposizione che emerge dai dati dell’analisi del Reuters Institute ma che va sicuramentecoltivata e assecondata con proposte che in termini economici, di modalità di fruizione e di contenuto, possano convincere il lettore a pagare, anche nella Rete, per essere informato.

Guardian e Mail, due mosche bianche del giornalismo?

The Guardian

Pic from MoreIntelligentLife.com

Per quel che riguarda il mondo del giornalismo, nei giorni scorsi due notizie dall’Inghilterra sono passate quasi inosservate nonostante nel buio della crisi (non solo) del mondo dell’editoria, rappresentino dei segnali potenzialmente positivi, almeno per quel che concerne il mondo dell’informazione digitale.

Da una parte i risultati resi noti dal Guardian News & Media, il gruppo dietro il Guardian e l’Observer, i cui introiti provenienti dal digitale hanno fatto da contraltare alle perdite della stampa cartacea. Nei primi tre mesi del 2013, infatti, secondo quanto riportato dal Financial Times, le digital revenue di GNM sono aumentate del 28.9% raggiungendo i quasi 56 milioni di sterline. Tale risultato ha consentito al gruppo di registrare un incoraggiante +1% nei guadagni globali, primo segno positivo del bilancio dal 2008. Non va dimenticato che la diminuzione del disavanzo è in parte dovuta anche ai tagli del personale, in grado, da soli, di far risparmiare 7 milioni di sterline anno ma, per uno dei pochi giornali che ha espressamente deciso di non affidarsi al paywall (che consente la lettura gratuita di un numero limitato di articoli al mese), il messaggio per il mercato è comunque positivo. Fanno tuttavia riflettere le parole di Andrew Miller, CEO del gruppo, che analizzando in maniera più approfondita i risultati ottenuti dal colosso che dirige, ha sottolineato come la “monetizzazione” dei lettori (il quotidiano inglese Guardian è molto letto anche in America, pubblico sicuramente molto più avvezzo alla Rete) attraverso l’advertising e le iniziative di sponsorizzazione sia ancora molto bassa (dichiarando, tra le righe, la mancanza ad oggi di un modello valido). Altro dato interessante che emerge dalle cifre fornite, è quello degli abbonamenti alle applicazioni a pagamento del Guardian per iPad e iPhone (la prima è proposta a 11.99 sterline mese, la seconda a 3.99 sterline per sei mesi). Mentre gli utenti che fruiscono del giornale via tablet salgono di circa 6.000 unità, nello stesso periodo gli abbonati al quotidiano via smartphone crollano dagli 80.000 di un anno fa, ai circa 57.000 dell’inizio 2013.

La seconda notizia riguarda un altro colosso internazionale dell’editoria, che sfida proprio il Guardian per il podio di giornale più letto al mondo. Si tratta del Daily Mail, che proprio sulla scia del successo della testata, ha deciso di espandere il proprio staff incrementando gli occupati nelle sedi di Londra, New York e Los Angeles e immaginando anche nuovi uffici in giro per il mondo.

Canto del cigno o due piccole-grandi testimonianze di un futuro digitale credibile anche per la stampa?