The Independent, da marzo stop alla carta

Img: theguardian.com

Da alcuni giorni, i giornalisti d’Oltremanica si confrontano sulla scelta del The Independent di cessare le pubblicazioni cartacee focalizzandosi esclusivamente sul digitale. Si tratta del primo quotidiano nazionale britannico ad intraprendere una simile strada che, negli auspici della proprietà (ESI Media), consentirà alla testata di proseguire la crescita di lettori affiancando al giornalismo di qualità un futuro sostenibile. Un piano ambizioso che, entro il 2016, punta non solo a rafforzare la readership ma che si pone anche l’obiettivo di raddoppiare i guadagni del giornale. Interessante notare come, presentando la rivoluzionaria svolta del quotidiano, i vertici della testata abbiamo sottolineato come la scelta fatta consentirà a The Independent di continuare a investire in innovazione con la flessibilità tipica delle start-up ma, al contempo, con l’autorevolezza di un giornale dal posizionamento unico, nato 30 anni orsono da giornalisti del Times in profondo disaccordo con le scelte dell’allora nuovo proprietario Rupert Murdoch.
Il giornale ha più volte dimostrato una certa propensione all’”azzardo”, soprattutto in considerazione del fatto che sin dalla sua nascita si è voluto proporre quale quotidiano di qualità in contrapposizione alla stampa popolare (alla quale però rubò l’impaginazione a tabloid che, a cavallo degli anni Duemila, sostituì il formato a nove colonne). Proprio dall’incessante predisposizione alla sperimentazione è nato uno dei successi della testata: i, la versione sintetica e decisamente meno costosa del giornale vero e proprio, pensata per allargare il pubblico di lettori strizzando l’occhio in particolare ai giovani. Lanciata nel 2010, in pochi anni, a differenza del “fratello maggiore”, ha visto crescere sino ad oltre 280 mila le copie distribuite, in assoluta controtendenza rispetto al The Independent che negli ultimi cinque anni ha visto calare i lettori di due terzi, dagli oltre 185 mila del 2010 ai 61 mila del 2015. Forse le due testate invece di supportarsi si sono sfidate su un terreno comune – con grande dispendio di risorse – ma è singolare che proprio la parte più sana della distribuzione cartacea, stia per essere venduta al gruppo editoriale Johnston Press. Certo, il corrispettivo online – non più i100 ma indy100 – una sorta di BuzzFeed in salsa britannica, continuerà a restare un laboratorio per tentare di attirare pubblico e capirne le abitudini, ma senza il supporto della carta la crescita dello spazio rischia di essere più lenta.

Sul fronte pubblicitario, le parole di Jon O’Donnell, direttore commerciale ESI Media, hanno sottolineato come la trasformazione del giornale in pubblicazione esclusivamente online renderà i rapporti con gli inserzionisti “più chiari”, consentendo al giornale di concentrare tutti i propri sforzi sui contenuti, sulla lettura dei dati a disposizione e sulle modalità per far crescere la propria offerta legata al native advertising.

Particolare tutt’altro che secondario, The Independent si è posto l’obiettivo di affidare il 100% dei propri spazi pubblicitari, entro la fine del 2017, al cosiddetto programmatic advertising. Tale modalità, in estrema sintesi, consente la gestione automatizzata delle inserzioni attraverso software che puntano a migliorare l’efficienza degli investimenti facendo incontrare domanda e offerta con maggiore flessibilità e immediatezza.

Insomma, una serie di sfide impegnative attendono The Independent nei prossimi mesi. La speranza della proprietà è quella che, anticipando i tempi, l’aver abbandonato la carta si dimostri alla lunga (ma non troppo) una scelta lungimirante per ottimizzare le risorse e continuare a raccogliere consensi.

La favola del re balbuziente

Dopo il trionfo (in parte inaspettato) agli Oscar, non ho potuto esimermi dal vedere il tanto acclamato Il discorso del re. E sinceramene non mi ha colpito particolarmente. Un film carino, a tratti simpatico, ben recitato dall’attore protagonista Colin Firth (che infatti si è aggiudicato la statuetta come migliore attore).
Ma non mi ha lasciato molto alla fine: la sceneggiatura, molto semplice, non è riuscita a trascinarmi e, a tratti, mi è parsa lenta e scontata. L’idea di un sovrano “imperfetto”come ognuno dei propri sudditi (e in questo molto “democratico”, alcuni osservatori suggeriscono che anche per questo motivo, sull’onda di quanto sta accadendo nel Nord Africa, forse si è voluto premiare il film per regalare al mondo un messaggio di speranza) è stata sviluppata, a mio modo di vedere, solo in maniera superficiale e per nulla corale.

Alcuni giorni dopo aver visto il film al cinema mi è tornato alla mente un altro film inglese, The Queen – La Regina datato 2006, che mi pare avere più di un’analogia con la pellicola di Tom Hopper.

Pur presentando dei monarchi praticamente agli antipodi i due film sembrano in qualche modo legati: se ne Il discorso del re la sofferenza è causata da una forma debilitante di balbuzie, in The Queen, la difficoltà di parola è dovuta alla prematura morte di un parente scomodo probabilmente mai accettato in famiglia sino in fondo. In entrambi i casi il popolo è allo stesso tempo un “test” da superare e uno “specchio” in base al quale valutare il proprio indice di gradimento. Ma mentre il logopedista Logue riesce nell’intento di far “maturare” il futuro Re Giorgio VI d’Inghilterra, il povero Tony Blair convincerà con estrema fatica la regina Elisabetta II a esprimere pubblicamente il cordoglio per la morte della Principessa Diana.

Insomma se entrambe le pellicole si focalizzano sull’istituzionalità del conservatorismo regale, paradossalmente esce dal confronto vincitore il monarca più lontano dai nostri giorni.

Concludendo: il film è piacevole ma leggerino e a mio modo di vedere complessivamente non all’altezza dei “rivali” alla corsa dell’Oscar The Social Network, Inception e Il Cigno Nero. Nonostante la vittoria finale.

Tornassi indietro mi piacerebbe vedere il film in lingua originale per apprezzare ancora di più gli attori protagonisti e le loro inflessioni.