La nuova veste del New York Times, tra interattività e native adv

img: from AdAge.com

Lo scorso 8 gennaio, il New York Times ha iniziato a proporre la nuova veste grafica. Obiettivo primario – come sintetizzato nel minisite del lancio – è quello di rendere l’esperienza di lettura più profonda e coinvolgente, offrendo ai lettori un’interfaccia in grado di rispondere con maggiore tempestività e semplicità ai bisogni informativi.

Le sei novità più sostanziose sono:

1. Gli articoli non sono più spezzati in diverse pagine, la lettura può proseguire con il solo scroll senza più la necessità di cliccare “Continua”. Le foto degli articoli, inoltre, possono essere ingrandite per poi tornare alla lettura.

2. L’area dedicata ai commenti è stata espansa e la si può navigare parallelamente all’articolo di modo da rendere gli interventi degli utenti di più facile comprensione;

3. La navigazione tra contenuti ora può avvenire anche in maniera orizzontale grazie a un box a lato dell’articolo e a una barra in alto che consente di scoprire gli altri contributi della sezione;

4. Il sito, nella parte alta, avvisa l’utente circa la pubblicazione delle breaking news;

5. Il tasto per la condivisione è, in alto, sempre visibile. Non è legato ai contenuti ma fa parte della cornice del sito entro la quale ogni articolo viene caricato. Lo stesso dicasi per le sezioni, raggruppate in un unico menu laterale.

6. Maggiore spazio ai suggerimenti che rimandano ad articoli correlati su una particolare tematica, e a quelli più condivisi.

Alle scelte legate al design sia affianca l’utilizzo da parte della testata del native advertising. Avevo già trattato l’argomento, ora anche il NYT ha deciso di proporre agli inserzionisti la pubblicazione di contenuti sponsorizzati.

La prima campagna, online per i prossimi tre mesi, vede protagonista Dell. A supporto della classica tabellare, è stata creata una sezione apposita che viene richiamata da un riquadro blu nella homepage nel quale campeggia la scritta “Paid Post”. Il click rimanda a paidpost.nytimes.com, un minisite che pubblica gli articoli sponsorizzati (“PAID FOR AND POSTED BY DELL” recita il titolo della pagina). Il primo post, Will millennials ever completely shun the office?, secondo quanto riportato da AdAge.com, sarebbe stato scritto da un freelance che collabora con la testata sulla base di un tema non legato in maniera diretta ai prodotti del colosso americano dell’hardware – quello appunto della cosiddetta milleniam generation – proposto da un editor del NYT e avvallato da Dell. I commenti all’articolo sono disattivati e, in caso di condivisione del contributo via Twitter, un testo predefinito suggerisce come prima parte del messaggio: “Dell Paid Post – From NYTimes.com” (da notare come il post non sia stato diffuso dalla testata nei propri profili social media).

Scorrendo la Timeline che sintetizza i vari cambiamenti della presenza online del NYT, è facile capire come il giornale in Rete stia diventando qualcosa di sempre più ibrido, capace di innovarsi facendo proprie le scelte di maggior successo di blog (es. articoli correlati, scroll per proseguire la lettura) e applicazioni (il flip laterale che in un certo senso richiama il voltare pagina di quotidiano cartaceo), e testando nuovi approcci pubblicitari (native advertising) alla ricerca di soluzioni valide a lungo termine.

Un anno di Daily Dish con Andrew Sullivan

Img: dish.andrewsullivan.com

Fine anno significa inevitabilmente anche tempo di bilanci, di valutazioni sulla base delle quali stilare buoni propositi e obiettivi per il futuro.

Uno dei progetti più interessanti dal punto di vista giornalistico dello scorso anno [citato nella versione digitale di News(paper) Revolution] è stato sicuramente The Daily Dish di Andrew Sullivan.

Il noto blogger, lasciato il Daily Beast, con una redazione di una mezza dozzina di persone, ha iniziato un nuovo progetto – il The Dish, appunto – completamente finanziato dai lettori (tramite donazioni o abbonamenti), senza pubblicità, sponsorizzazioni né finanziamenti da parte di terzi.

Una sfida difficile quanto intrigante, con un traguardo ben definito: arrivare, e magari superare, quota 900.000 dollari di entrate in un anno, l’editorial budget della precedente collaborazione al The Beast.

Com’è andata? Come reso noto dallo stesso Sullivan, la cifra agognata non è stata raggiunta, anche se davvero per poco (gli introiti da abbonamenti del 2013 si sono fermati a 851.000 dollari). L’iniziativa, tuttavia, per molti versi si può ritenere un successo.

Come già in parte accennato, il “sistema Dish” si regge su abbonamenti annuali (19,99 dollari) e mensili (1,99 dollari). Ogni utente non registrato ha un bonus di 5 click per leggere per intero gli articoli del blog, usufruito il quale scatta il blocco del paywall.

Gli abbonati annuali del 2013 sono stati 34.000, dei quali 9.000 hanno già deciso di rinnovare anche per il nuovo anno. 28.000 invece gli utenti che, raggiunto il limite di lettura gratis, non hanno deciso di abbonarsi, dimostrazione di come ci siano margini di crescita nel bacino di lettori del blog.

Nel grafico che sintetizza l’andamento delle revenue mensili del blog da notare come, dopo leggero ribasso dei mesi estivi, ottobre abbia segnato un notevole balzo in virtù della crisi del debito degli Stati Uniti che, proprio in autunno, ha innescato un acceso un dibattito al Congresso in grado di stimolare l’interesse degli utenti alle considerazioni della redazione su quanto stava avvenendo sulla scena politica.

Un’ultima considerazione. Nel suo messaggio di fine anno Sullivan scrive:

[…] we’ll finally have a solid basis for a ongoing, entirely-online blogazine with no sponsored content and (so far) no advertizing […]

L’utilizzo dell’espressione “so far” preannuncia probabilmente qualche novità nella testata. Il modello attualmente alla base del The Daily Dish potrebbe infatti declinarsi a breve in due versioni: da una parte, la fruizione gratuita per tutti gli utenti con i contenuti affiancati dalla pubblicità, dall’altra l’edizione libera dall’adv per gli abbonati.

Il primo anno si concluso molto bene, ripetersi e mantenere in piedi il progetto redendo solida la base di lettori non sarà certo facile (se dai 34.000 abbonati togliamo i 9.000 che hanno già rinnovato e immagininamo che i 25.000 restanti siano utenti interessati al supporto annuale con il blog, questi rappresentano circa 500.000 dollari, più della metà degli incassi dell’anno, non dovessero continuare a supportare la testata, sarebbe un bel problema!).

Con la speranza che il progetto continui ad avere un seguito, non posso che augurare ad Andrew e al suo staff un 2014 ricco di (nuove) soddisfazioni.

News Corp scommette sul social journalism di Storyful

Img: CNN.com

Ho scoperto Storyful circa un anno fa. Stavo ultimando lo studio sul rinnovamento del mondo dell’informazione che poi ha portato a News(paper) Revolution e, concentrato sul “fenomeno” del citizen journalism (anche se personalmente preferisco l’espressione open journalism), ero alla ricerca di qualche nuovo progetto capace di ben interpretare esigenze e ruolo del rinnovato panorama informativo. Storyful attirò subito la mia attenzione proprio per l’originalità del proprio approccio alle sfide della Rete.

[…] società con sede a Dublino composta da un team di professionisti che 24 ore su 24 monitorano i web (e in particolare i social media) catturando immagini e contenuti degli utenti da poi vendere alle testate di tutto il mondo. Ecco “manifesto” presente nel sito ufficiale: «Storyful is the first news agency of the social media age. We separate the news from the noise. Storyful gives journalists and media professionals the power to discover, validate and deliver the most compelling content on the social web. Storyful helps newsrooms and publishers create newswires designed to meet the needs of their target audiences. Our goal is to create a sustainable model for a new form of social and collaborative journalism». Come funziona? In estrema sintesi, individuato un contenuto “dal basso”, lo staff ne approfondisce i dettagli mettendo poi in caso tra loro in contatto utente – ad esempio un ragazzo con i propri scatti diffusi tramite Twitter è diventato testimone degli scontri di Tripoli – e testata giornalistica.

Non nascondo quindi che, leggendo dell’acquisizione di Storyful da parte del colosso News Corp di Rupert Murdoch (per 25 milioni di dollari) abbia provato un certo orgoglio per aver “scovato” una realtà che nel giro di un anno dalla mia citazione, ha saputo attirare le attenzioni di uno dei maggiori gruppi editoriali.

Ma cosa ha suscitato così tanto l’interesse della società del Wall Street Journal e del New York Post? Di certo le valutazioni che hanno portato all’acquisizione della start-up irlandese saranno state molte ma, a mio modo di vedere, due su tutte hanno fatto la differenza.

Storyful ha messo a punto una routine lavorativa che consente, seguendo i dettami del “buon giornalismo”, di verificare e commercializzare i cosiddetti user-generated content. La capacità di separare del brusio delle conversazioni online, materiali fotografici o video interessanti anche dal punto di vista giornalistico, rappresenta un valore aggiunto notevole. Vincere la sfida di proporre al pubblico delle breaking news – tramite i contributi di semplici cittadini testimoni diretti di ciò che è accaduto – prima delle altre testate, non può che essere un risultato al quale ambire.

L’abilità nell’uso dei social media e, in generale, la robusta presenza nell’ambito dei media digitali di Storyful, può tornare decisamente utile anche sul fronte dell’advertising sempre alla ricerca di valide soluzioni.

Delle tante dichiarazioni seguite all’acquisizione, mi ha colpito quella del CEO di News Corp, Robert Thomson, che ha sintetizzato i cambiamenti in atto come la trasformazione di un gruppo fondato su brand legati a giornali cartacei in quello che punta su piattaforme informative digitali.

La rivoluzione continua.

De Correspondent, la proposta olandese per un nuovo giornalismo

Img: gigaom.com

In questi giorni ho avuto modo di conoscere un progetto giornalistico che mi ha davvero colpito per la propria originalità. Si tratta di De Correspondent, start-up olandese che, nata lo scorso settembre (la campagna di comunicazione è in realtà partita alcuni mesi prima, a marzo), è riuscita a raccogliere, grazie alle donazioni di circa 19.000 utenti, la considerevole cifra di 1.7 milioni di dollari.

Di cosa si tratta? Di una piattaforma giornalistica online che punta sull’analisi approfondita di storie che normalmente non trovano spazio – o ne trovano poco – nel mainstream.
Forse la definizione sembra un po’ fumosa ma sta di fatto che il team guidato da Rob Wijnberg (classe ’82!)– che conta su 11 professionisti full-time tra giornalisti, fotografi e grafici, e una 15ina di corrispondenti – può già contare su oltre 20.000 abbonati.

Scorrendo le informazioni riportate nel sito, appare chiaro come la sfida di De Correspondent sia decisamente impegnativa. Al centro dell’iniziativa vi è, infatti, il superamento del concetto di “notizia” come attualmente viene concepito dalle redazioni tradizionali.
La start-up con sede ad Amsterdam, nella sua attività punta alla realizzazioni di “pezzi” che scavino in profondità un determinato argomento senza l’ansia del dover coprire per forza di cose le breaking news. La rilevanza di un fatto, quindi, supera la sua attualità: un modo alternativo di fare giornalismo basato sul fact-checking, capace di trascendere le divisioni con le quali solitamente vengono organizzate le notizie (carattere nazionale, internazionale, di politica, di economia, eccetera), con reportage curati direttamente dalla redazione, e sull’autonomia di giudizio che deriva dalla semplice considerazione che i giornalisti non sono automi ma professionisti con una propria sensibilità che non deve quindi portare a nascondere la sorpresa, le speranze, i timori e gli entusiasmi che derivano dalle loro inchieste, dai loro contributi. Un recupero del lato umano sottolineato anche dall’invito alla partecipazione attiva dei lettori chiamati e a contribuire sui diversi temi trattati dalla redazione non solo economicamente ma in virtù della propria esperienza.

Un progetto for-profit ma il cui modello di business si basa su contenuti da vendere ai lettori non agli advertiser. Abbonamenti e donazioni che saranno la base degli ulteriori sviluppi della piattaforma la cui innovazione sarà finanziata da, almeno, il 20% dei guadagni della testata. De Corrispondent non si avvale della pubblicità e, anche per questo motivo, nella scelta degli argomenti da trattare, previene la necessità di dover, ad esempio, analizzare ciò che un determinato target potrebbe trovare interessante. Come sostegno, chiede 60 euro anno ai propri lettori. E’, a tutti gli effetti, un digital medium e quindi è fruibile su desktop, tablet, smartphone e anche via app. Consente la condivisione di articoli anche ai non iscritti ma con delle precise limitazioni.

Un’iniziativa sicuramente da seguire, un’alternativa all’idea stessa di giornale che in qualche modo, facendo propria la lezione del The Dish di Sullivan, punta sullo sviluppo di una community attorno alle notizie e al superamento del “palinsesto” canonico delle news. Complimenti e in bocca al lupo!

Da free al paywall. E dal paywall all’all-access subscription

Img: jxpaton.wordpress.com

Lo scorso martedì 19 novembre, in uno degli appuntamenti su Second Life di Gate42 (progetto che, per chi non lo conoscesse ancora, invito a seguire, un ringraziamento a @imparafacile per avermi ospitato), ho avuto modo presentare il mio libro parlando dei cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo.
Una delle questioni venuta a galla, inevitabilmente, è stata quella legata all’advertising su web e alla sostenibilità del mondo dell’informazione in Rete.

Proprio su questo (delicato) versante, da segnalare una novità firmata John Paton, CEO di Digital First Media, colosso statunitense che gestisce più di 800 attività online/digitali (soprattutto legate a redazioni a carattere locale) in 18 stati americani in grado di far registrare oltre 61 milioni di utenti mese.
In un blog, l’ex direttore del Guardian e di El Pais, spiega le scelte operate presentandole alla forza lavoro della realtà che è chiamato a dirigere ma, chiaramente, pubblicandole su web senza alcun vincolo, le rende note anche a tutti noi “semplici” utenti.

Da un po’ di tempo seguo quello spaccato di quotidianità giornalistica online. Ho potuto così seguire il percorso adottato dal gruppo in merito alla gestione dei contenuti.
Come molte altre realtà legate al mondo dell’informazione, Digital First Media, per 22 suoi quotidiani online prima fruibili in maniera gratuita, successivamente opta per il Paywall. Una scelta dettata dalla necessità di sperimentare più che della consapevolezza di adottare una soluzione valida a lungo periodo. Una modalità per tentare di rendere più stretto il rapporto con i lettori, chiedendo loro di sottoscrivere un abbonamento. I risultati però non sono per nulla soddisfacenti, le cifre, in termini di guadagni, troppo basse. Il gruppo decide così di passare a un Paywall 2.0, una evoluzione di quanto utilizzato in prima istanza strutturata sulla base delle best pratice del settore.
Contemporaneamente avvia in 75 quotidiani un esperimento alternativo al concetto di “pagamento”. Con la collaborazione di Google, nella sezione multimediale Media Center, ogni 10 immagini mostra all’utente un sondaggio al quale è chiamato a rispondere per proseguire la navigazione all’interno del sito. I risultati di quest’ultima iniziativa sono incoraggianti per cui i vertici del gruppo decidono di concentrarsi sullo sviluppo di un Paywall 3.0 che riesca a combinare le due soluzioni in qualcosa di più dinamico, capace di garantire introiti senza ridimensionare troppo il traffico.

A meno di un anno di distanza però, Digital First Media cambia di nuovo rotta. Il guadagni del gruppo sono in crescita (rispetto al 2009, il digital adv è cresciuto, nel 2012, dell’89%) ma la soluzione del paywall, nelle sue diverse versioni, non convince appieno.
L’esperimento con Google, dopo un inizio promettente, perde di efficacia e quindi, un po’ a sorpresa, il gruppo decide di superare, almeno in parte, la strategia del paywall puntando sull’All-Access print-digital subscription: i lettori non registrati alla testata potranno leggere solo alcuni articoli al mese, gli utenti abbonati, invece, avranno accesso all’edizione cartacea, a quella digitale e ai contenuti su mobile.

Stimolante sfida, non resta che restare sintonizzati nel blog di John Paton per conoscere il bilancio di questo nuovo approccio adottato da Digital First Media.

New York Times Company, crescono i profitti. Ma non grazie all’adv.

nyt_3rdquarter_13Ultimamente ho focalizzato la mia attenzione su alcune redazioni locali statunitensi e sul loro approccio alla crisi della stampa. Con questo post, invece, torno ad occuparmi di uno dei colossi del giornalismo a stelle e strisce. Sono infatti stati resi noti i dati relativi al terzo quarter del 2013 di The New York Times Company. Le cifre pubblicate permettono di avere un’idea sullo stato di salute di una delle aziende più importanti al mondo nel panorama dei media.
Il primo dato è quello che, rispetto allo stesso periodo del 2012, i profitti sono in aumento: dagli 8.9 si è passati quest’anno ai 12.9 milioni di dollari, una crescita che, al netto della svalutazione, dell’ammortamento e di alcune liquidazioni di fine rapporto, è stimata attorno al 35%.
Nel terzo quarter del 2013 il totale delle entrate è aumentato del 1.8%, 4.8% se considerata la sola distribuzione. Da notare come, proprio per quel che concerne la diffusione dei giornali, i guadagni crescano sia per il comparto digitale sia per quello della stampa classica nonostante quest’ultima registri un calo delle vendite. La diminuzione del numero di copie cartacee acquistate è stato infatti bilanciata da un aumento del prezzo del quotidiano.

I guadagni provenienti degli abbonamenti digitali ammontano, nel terzo quarter del 2013, a 37.7 milioni di dollari, +29% rispetto allo stesso periodo del 2012. Se l’analisi si allarga ai primi nove mesi del 2013, la percentuale rispetto allo scorso anno sale al 42.4.

Il numero delle iscrizioni digitali continua ad aumentare attestandosi, per quel che concerne New York Times e Herald Tribune, a circa 727.000, il 29% in più rispetto al medesimo periodo del 2012.

Nell’insieme di cifre in progresso è però da notare la frenata degli introiti derivanti dalla pubblicità. Se il -1.6% dei guadagni da adv cartaceo era quantomeno prevedibile, il -3.4% dell’adv online rispetto al 2012 fa sicuramente riflettere. I guadagni da adv digitali, rispetto al totale delle revenue pubblicitarie del gruppo, scendono a 23.8% rispetto al 24.1% dello scorso anno. In realtà è da inizio anno che le entrate pubblicitarie sembrano soffrire: considerando i primi nove mesi del 2013 rispetto a quelli del 2012, l’adv digitale registra un -7.3%, quello a stampa un -3.2%.

In sostanza, da quanto emerge, il The New York Times Company si dimostra ancora una volta un gruppo solido e in salute. Con il progressivo abbassamento dei costi in atto e la parallela crescita dei profitti, il colosso statunitense sta affrontando al meglio le sfide che le testate giornalistiche sono chiamate oggi ad affrontare.

Il fatto che gli introiti pubblicitari, digitali o a stampa, non riescano a tornare a crescere, risulta, in estrema sintesi, un “monito” per tutte le testate: ad oggi, preferibile puntare sui contenuti (e, in generale, sulle iniziative volte a migliorare il rapporto con i lettori) piuttosto che sulla pubblicità che questi possono veicolare.

L’innovazione? A Boston è di casa

Img: 61Fresh.com

Il mercato dell’editoria sta vivendo un momento molto difficile. Il termine innovazione è ormai sulla bocca di quasi tutti gli addetti ai lavori, concentrati nel capire quale sia la strada più sicura sulla quale affrontare i cambiamenti in atto. Mettere in pratica processi che portino a risultati migliori è però molto complicato: in un contesto nel quale, a fronte di investimenti, l’obiettivo risulta ottenere effetti pressoché immediati, ragionare in termini di lungo periodo, vista la rapida evoluzione della Rete, è quasi impossibile.

Nonostante tutto, alcune testate, continuano a provare nuovi approcci al web. Non si tratta esclusivamente di redazioni arcinote, esiste un “sottobosco” di quotidiani a carattere locale che, come avvenne agli esordi di internet con il Chicago Tribune e il Nando Times (in Italia con l’Unione Sarda), per tentare di allargare il proprio pubblico di riferimento o per offrire un’alternativa al mainstream, continuano a proporre nuovi strumenti e nuove modalità di approccio all’informazione.

Uno dei casi di maggior successo in questo senso (successo misurato non esclusivamente in termini di parametri numerici quanto di capacità di rinnovare la propria identità adattandola agli sviluppi della Rete) è il Boston Globe. La testata – come citato anche in News(paper) Revolution – possiede due declinazioni: una, a pagamento, propria del giornale cartaceo, un’altra gratuitamente fruibile – Boston.com – molto più focalizzata sulle notizie locali e indirizzata a un pubblico più trasversale.

Di questi giorni è la notizia che, proprio lo spazio informativo Boston.com, dal prossimo anno, offrirà una maggiore flessibilità ai propri lettori. Non sono trapelate moltissime informazioni a proposito ma sulla base di quanto dichiarato da Jeff Moriarty – Vicepresidente del Boston Globe e General Manager di Boston.com – il sito proseguirà lo sviluppo della sua costruzione “responsive” anche in ottica utente. Nel 2011 il quotidiano di Boston è stato tra i primi a implementare un sito in grado di adattarsi al device utilizzato. Il giornale, in altre parole, fermo restando i contenuti, è in grado di modificare il proprio aspetto in base al supporto con il quale viene fruito. In questo modo, ad esempio, l’impaginazione è differente se l’utente visita lo spazio informativo da computer, da tablet o da smartphone.
Dal 2014 però la testata farà un ulteriore passo modellandosi anche in base alle modalità di utilizzo del lettore: se l’utente preferirà leggere piuttosto che sfruttare il materiale multimediale a disposizione, il sito sarà in grado di proporre un più alto numero di testi. In qualche modo, quindi, sarà il comportamento stesso dell’utente a configurare la griglia informativa del quotidiano. Un progetto ambizioso che, sulla scia di quanto sta accadendo su Facebook, punta alla personalizzazione, al superamento del giornale indifferenziato, uguale per tutti.

Altro progetto da seguire, sempre a firma Boston Globe, è 61Fresh. E’ uno spazio informativo capace di captare i tweet locali di Boston e dintorni che richiamano le notizie di uno dei 500 siti di notizie della capitale del Massachusetts. Alla base un algoritmo in grado di vagliare la popolarità e la freschezza delle news per riproporre le notizie più chiacchierate dell’area metropolitana.

Complimenti ai responsabili della testata, anche un periodo di crisi può in fondo rappresentare un’opportunità. Per mettersi in gioco e vagliare nuove opzioni.

Scrivi e vinci una copia di News(paper) Revolution

logo_nepare

L’editore mi ha fornito alcune copie di News(paper) Revolution in versione cartacea e ho pensato di distribuirle mediante un’iniziativa che vado a presentare.

(rullo di tamburi)

Nelle occasioni pubbliche spesso mi è capitato di sottolineare come il mio saggio voglia essere l’inizio di una conversazione, un punto di partenza per una riflessione sui cambiamenti in atto nel mondo dell’informazione e, più in generale, della comunicazione.

Ecco perché vorrei coinvolgere direttamente gli utenti per chiedere loro quale sia lo strumento utilizzato maggiormente per informarsi online.

Scrivi una email all’indirizzo indicato nella sezione @bout indicando una delle opzioni. Con un po’ di fortuna, sarai ricontatto per la conferma dell’assegnazione di una copia del saggio.

Quale strumento utilizzi in misura maggiore per informarti online?

Quotidiano solo online
Versione online di quotidiano cartaceo
Magazine online
Motore di ricerca (Google, GoogleNews…)
Applicazione “social magazine” (Zite, Flipboard…)
Facebook
Twitter
Google+
Blog

Un ringraziamento a chi deciderà di partecipare e a chi segnalerà l’iniziativa nei social network (su Twitter utilizzate l’hashtag #nepare, mi raccomando). In bocca al lupo!

 

[update: ho replicato il “sondaggio” nella colonna di destra per chi volesse esprimere una preferenza senza dover partecipare al contest scrivendo una email]

Know More, l’esperimento semiserio del Washington Post

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Img: http://knowmore.washingtonpost.com

Quando mi capita di parlare in pubblico di web e comunicazione [a proposito, per chi ancora non lo sapesse, domani presenterò News(paper) Revolution a La Fiera delle Parole], uno dei punti sui quali insisto maggiormente è quello relativo alla mia convinzione che, proprio in virtù del mare magnum che è il web, la funzione di “filtro” sia necessaria per non rischiare di perdere la bussola.
A tal proposito cito spesso l’esempio di Compendium, il progetto del New York Times in virtù del quale gli utenti possono organizzare una sorta di bacheca (Pinterest docet) con i contenuti della testata che reputano più interessanti, da condividere con amici e conoscenti (il primo filtro è il giornalista, il secondo, ancora più accurato, è il lettore).
E’ di questi giorni un’iniziativa analoga del Washington Post, forse più “scanzonata”, più semplice ma non per questo non degna di nota.
Lo spazio al quale faccio riferimento è Know More, una riproposizione in salsa blog (trae origine dal Wonkblog) di una bacheca virtuale nella quale però i contenuti sono per la stragrande maggioranza esterni alla testata. Foto, video, grafici sintetizzati con un titolo accattivante che, se cliccati, si aprono a tutto schermo mostrando ai lati due bottoni: No more e Know more. Se si sceglie l’opzione di sinistra (la prima) il contenuto scompare dalla bacheca, se si opta per la seconda si viene rimandati alla fonte dell’informazione. Chi sceglie cosa pubblicare? Una miniredazione composta, al momento, da Dylan Matthews e Ezra Klein. Quest’ultima, presentando l’iniziativa ha sottolineato come lo scopo sia quello di stimolare nei lettori l’approfondimento, un supporto agli articoli interessanti ma non costruiti abbastanza bene da essere trovati dal pubblico. L’aspetto singolare è che mentre solitamente le iniziative editoriali puntano a incrementare il tempo speso entro i propri “confini”, il successo di Know More si misurerà nel numero di utenti che sceglieranno di lasciare lo spazio per leggere altrove. Sintetico e audace, da seguire.

I quotidiani locali nel web: il caso The Oregonian

Parlando di social media e comunicazione online ci si riferisce spesso quasi esclusivamente a grandi aziende. Il citare realtà di grosso calibro è quasi un atto involontario perché i brand più noti hanno maggiore visibilità, una presenza nelle Rete più strutturata e investimenti più rilevanti. In realtà, il mondo oltre le multinazionali, nella diversità di approccio alla sfida delle Rete, è altrettanto interessante.
Un esempio? Navigando in GoogleNews mi sono imbattuto nella storia del The Oregonian e ho deciso di approfondirla perché, in qualche modo, può essere considerata alternativa ai grandi gruppi editoriali statunitensi e più vicina al giornalismo dei quotidiani locali.

The Oregonian è il più antico quotidiano della West Cost: nato come settimanale nel 1850, è il giornale della città di Portland che, in termini di tiratura, occupa la 19esima posizione tra i newspaper degli Stati Uniti.
Non passa un periodo felicissimo tanto che, la scorsa estate, è stata comunicata la riorganizzazione dello staff e la scelta di ridurre a quattro le copie a stampa per focalizzare gli sforzi nell’informazione online. L’obiettivo dichiarato è quello di far diventare il gruppo editoriale una digital-first company.
Per adattarsi ai cambiamenti del pubblico di lettori e del mondo della pubblicità, la prima mossa è stata quella di puntare sullo sviluppo di OregonLive.com che, se mette in secondo piano la testata e il formato giornale, risulta probabilmente uno spazio più dinamico per informare i cittadini. In secondo luogo la direzione ha deciso di dare maggiore enfasi alle edizioni digitali del giornale pensate (e impaginate) per essere fruite da smartphone e tablet.
La problematica più difficile da affrontare per molte piccole-medie testate è il ridimensionamento della pubblicità: se, a livello generale, la pubblicità su Google e gli altri strumenti della Rete ha negli USA ormai sorpassato l’advertising a stampa, le cifre per quel che riguarda il comparto editoriale non sembrano seguire lo stesso trend. E così, all’implosione del mercato pubblicitario su carta, quasi mai corrisponde una solida crescita dell’adv online. Non resta, quindi, che tentare di ridurre i costi (sperando di non dover abbattere la scure sul personale).

Leggendo l’editoriale pubblicato da Peter Bhatia, vicepresidente dell’Oregonian Media Group, che presenta il cambio di rotta entrato del The Oregonian entrato nel vivo lo scorso primo ottobre, emergono alcuni spunti interessanti:

• se Internet enfatizza la velocità, c’è ancora spazio per redazioni che si occupino di inchieste, di approfondimenti, di verifica delle fonti;
• i giornalisti non si devono più preoccupare del posizionamento della notizie sul quotidiano, devono pensare in funzione del web non più della carta (spazio quindi, ad esempio, alla multimedialità);
• la sfida è, per i giornalisti come per chiunque si occupi di comunicazione nel web, quella dell’engagement dei lettori; e l’interattività dei mezzi digitali in questo senso offre notevoli opportunità;
• di fondamentale importanza l’analisi dei dati relativi al comportamento dei lettori che possono aiutare la redazione a focalizzare al meglio ciò interessa alla comunità.

Il viaggio intrapreso dal giornale di Portland e da tante altre testate a carattere locale è una gara ad ostacoli che comporta un radicale cambiamento culturale, una nuova prospettiva con ben poche certezze. Che investe le figure professionali come i semplici lettori. Ma che pare ormai inevitabile da affrontare, prenderne coscienza è un buon inizio.