News via Whatsapp, ci prova l’Oxford Mail

theguardian.com

Uno dei fronti più caldi degli ultimi anni è quello della cosiddetta “internet in mobilità”. Tra coloro che si occupano di comunicazione e advertising, il mobile rappresenta, almeno potenzialmente, una delle opportunità più ghiotte sulle quali scommettere. Smartphone e tablet sono sempre più diffusi, le connessioni proposte dagli operatori sempre più veloci, i costi mediamente accessibili, ormai per molte persone il web non è più unicamente sinonimo di personal computer. Ovviamente anche il mondo del giornalismo osserva con attenzione gli sviluppi del comparto, tentando di individuare le eventuali possibilità per adattarsi ai nuovi strumenti e sfruttarne appieno le caratteristiche.
Alle applicazioni delle varie testate sui circuiti Google Play, iTunes o sviluppate in maniera indipendente, gratuite o a pagamento, da alcune settimane si è affiancato un interessante esperimento del quotidiano locale Oxford Mail.
Dallo scorso 2 giugno è infatti attivo un servizio tramite il quale la testata inglese comunica con i propri lettori anche tramite WhatsApp, la app di messaggistica istantanea che, sfruttando la connessione alla Rete, consente di scambiare messaggi con i propri contatti senza dover pagare il costo degli SMS.
Il lettore interessato, aggiungendo alla propria rubrica il numero del giornale e indicando NEWS o SPORT (o entrambe le tematiche), riceverà le notizie della testata nel proprio telefonino. Al momento, per non risultare troppo invasivi, la comunicazione si limita a un messaggio di prima mattina contenente le 5/6 storie principali (titoli e link) e l’immagine della prima pagina, al quale seguono eventualmente, nel corso della giornata, le breaking news più rilevanti.
L’esperimento, nelle previsioni dei responsabili della testata, punta ad entrare in contatto più diretto con i lettori utilizzando uno strumento nel quale la concorrenza – a differenza di Twitter e Facebook – è al momento sicuramente meno agguerrita se non del tutto inesistente. Il superamento dei 250 contatti con i quali chattare contemporaneamente, invece, è un problema facilmente risolvibile creando un nuovo gruppo di utenti.

Nulla di nuovo, sistemi di alert che diffondono le notizie o ci informano di nuovi contenuti sono già molto utilizzati (dalle email agli RSS, dagli SMS alle notifiche).

Due però gli aspetti che mi hanno incuriosito: la comunicazione delle notizie via WhatsApp mira a raggiungere i lettori in un luogo (virtuale) nel quale sono soliti comunicare con amici e conoscenti. Le redazioni, quindi, seguono gli utenti in un terreno “incontaminato”, sarà interessante capire come i contenuti e le modalità comunicative si adatteranno a questo nuovo canale.
In secondo luogo, i responsabili del progetto dell’Oxford Mail, hanno tenuto a precisare che WhatsApp non rappresenta un’alternativa agli altri social media utilizzati dalla testata quanto uno strumento che si aggiunge a quelli già in uso e che dimostra la dinamicità del giornale nel far proprie le diverse possibilità tecnologiche offerte oggi agli utenti.

Un esperimento simile è stato messo in pratica dalla BBC News in India nel corso delle elezioni di aprile/maggio per le quali la redazione, oltre a WhatsApp, ha utilizzato anche WeChat allo scopo di raccogliere le opinioni degli elettori e di distribuire al contempo informazioni (video, grafici, interviste) sulla tornata elettorale.

I numeri sono ancora ridotti ma si intravedono buone potenzialità: se è vero che il numero dei messaggi al giorno per non essere considerato spam è da considerarsi nell’ordine delle poche unità, il tasso di interazione degli utenti con i link proposti risulta piuttosto elevato e quello di abbandono del servizio basso.

Il prossimo passo, già tracciato, sarà quello di utilizzare WhatsApp non solo per inviare le notizie ma per raccogliere con maggiore semplicità ed immediatezza le segnalazioni degli utenti rendendoli più partecipi del flusso informativo.

[update: il 9 gennaio 2015 anche la Repubblica ha lanciato un servizio di breaking news via WhatsApp]

L’innovazione del giornalismo secondo il New York Times

Img: mashable.com

Da un mese a questa parte uno dei documenti più discussi tra coloro che occupano di media è l’Innovation Report del New York Times, un pdf di 97 pagine che traccia lo status attuale del famoso quotidiano statunitense identificando le nuove sfide che il giornale dovrà affrontare sin da subito per rispondere alla sempre più agguerrita concorrenza su web.

Se l’obiettivo della testata resta sempre quello di produrre il miglior giornalismo, sin dalle prime righe appare chiaro come il Times necessiti di una nuova strategia, un moderno atteggiamento che possa far fronte alla diminuzione del bacino di lettori (non solo del sito ma anche della app) fatta registrare i primi mesi del 2014.

Il successo del paywall offre la stabilità economica necessaria per continuare a rinnovare il giornale proseguendo la ricerca di un nuovo equilibrio lontano dalla tradizione carto-centrica sulle cui basi la testata ha costruito i suoi più rilevanti successi. Si tratta di una transizione che, adottando l’approccio del digital first porta, ad esempio, ad utilizzare per il giornale a stampa i migliori contenuti digitale, non viceversa.

Il nuovo modus operandi si basa su tre concetti fondamentali: discovery, promotion e connection. In sintesi: studiare come proporre e distribuire i contenuti, come attirare l’attenzione degli utenti, come creare relazioni durature e continuative con i lettori.

Lettori che in percentuali sempre più alte utilizzano tablet e smartphone per informarsi, e che arrivano alle notizie più dai social network che dalla hompege del sito (nonostante i vari restyling, solo 1/3 dei lettori visita la “prima pagina” su web del giornale).
L’audience va quindi cercata, l’edizione cartacea funge sono in pochissimi casi da traino per il sito online. I giovani lettori, in particolare, stanno abbandonando la navigazione a favore dei social media: “se qualcosa è importante, mi troverà”, lasciano siano le notizie a raggiungerli piuttosto che operarsi per trovare il contenuto a loro più adatto.

Focalizzarsi sui lettori è condizione necessaria ma non sufficiente, occorre infatti ripensare anche i contenti e alle modalità con le quali le notizie sono proposte. Ancora troppo spesso i giornalisti pensano che il proprio compito si esaurisca con la pubblicazione del pezzo. In realtà, come dimostra il successo Huffington Post (e l’attenzione posta dalla redazione alla fasi successive la messa online dell’articolo), la vita di un contributo inizia con la diffusione pubblica su web, non si esaurisce semplicemente con l’upload.

In generale, quindi, va ripensato il modo di proporre le news. Il traffico generato da una notizia scema drammaticamente dopo un solo giorno dalla pubblicazione. Occorre vagliare nuove soluzioni per allungare il “tempo di interesse” delle informazioni proposte, facendo in modo che gli articoli siano più utili, più rilevanti, più propensi alla condivisione da parte degli utenti.

Senza dimenticare gli aspetti legati alla personalizzazione delle notizie, sulla cui tecnologia molti sono i player (da Facebook Paper al Washington Post) che stanno investendo.

Che si tratti o meno della versione definitiva del documento presentato al management della New York Times Company, il testo raccoglie molti spunti interessanti che dimostrano come la sfida del web non sia ancora vinta appieno e non vi siano molte certezze nemmeno per un gruppo solido come quello del Times chiamato ogni giorno a rimettersi in gioco continuamente.

Il Los Angeles Times e il mobile first design

Img: digiday.com

Lo scorso 6 maggio la versione online del Los Angeles Times ha cambiato pelle. Non si è trattato di un semplice aggiustamento grafico (l’ultimo sostanzioso restyling risaliva al 2009) quanto di un vero e proprio cambiamento di prospettiva. Il nuovo spazio del quotidiano del gruppo Tribune & Co., infatti, ha deciso di scommettere sul mobile, ripensando il proprio spazio web per fare in modo che le informazioni veicolate possano essere fruite in maniera semplice e completa da ogni piattaforma, con un particolare riguardo per coloro i quali si informano tramite smartphone e tablet.
Se ad oggi questi utenti non rappresentano ancora la maggioranza dei lettori, è pur vero che la percentuale di chi consuma news da dispositivi mobili è in crescita costante. Che il mobile first rappresenti il passo successivo al digital first già adottato da alcune testate giornalistiche? Sicuramente si tratta di una scelta lungimirante che però comporta un quasi totale ripensamento dell’esperienza informativa. In realtà, nel caso del latimes.com, non si tratta di un cambiamento radicale quanto dell’inizio di un percorso di sviluppo che mette al centro la dinamicità dei nuovi device (sempre in evoluzione) piuttosto che la maturità forse ormai acquisita del classico personal computer.

In questo senso, esemplificativo del nuovo approccio della testata, è la possibilità di navigazione “visuale” (basta cliccare, in alto a sinistra, su “Visual Browse”) dei contenuti pensata appositamente per dispositivi in mobilità: i titoli quasi spariscono lasciando spazio alle immagini che sintetizzano i diversi contenuti navigabili – sullo stile di Flipboard – sia scorrendo la pagina che spostandosi orizzontalmente tra i contenuti.

Anche la scelta di optare per un menu laterale sempre visibile e che, cliccata una voce, mostra le relative sottosezioni, rende l’accesso alle notizie molto veloce e intuitivo. Da segnalare anche la sintesi (alle volte disponibile anche in più versioni) di ogni articolo che consente la condivisione – su Twitter o Facebook – davvero rapidissima: non si tratta della banale ripetizione del titolo, quanto piuttosto di un sunto di pochi caratteri che rappresenta una valida alternativa agli improbabili status con link lunghissimi che contengono simboli non di uso comune, che alle volte vengono proposti in alcuni siti informativi.

Altri due aspetti di sicuro interesse sono: l’unico scroll che non presenta più un solo articolo anche ma anche tanti altri contenuti (in sostanza non esiste più la paginetta contenente una sola notizia) in un unico flusso informativo e, in secondo luogo, “Neighborhoods”, la voce che, dalla sezione “Local” della homepage, permette di visualizzare una mappa dei diversi quartieri di Los Angeles cliccando i quali è possibile scegliere una particolare comunità non solo per leggerne le notizie correlate (dalle breaking news alle recensioni dei ristoranti, un’opportunità per lettori e inserzionisti) ma anche per verificare lo status della zona selezionata sulla base di 3 parametri (2 legati al crimine e 1 al ranking delle scuole) identificati come unità di misura.

Per i primi tre giorni dalla messa online, il sito è stato visibile completamente e senza limiti (anche il Los Angeles Times adotta la formula del paywall) di modo che chiunque potesse visionare le novità del giornale. Questa sorta di anteprima “trasversale” è stata possibile grazie alla sponsorizzazione della compagnia aerea Etihad Airways.

I pareri sulla nuova versione del Los Angeles Times sono piuttosto contrastanti (molte le critiche soprattutto per la parte dedicata ai commenti, non visibilissima di lato a metà articolo che non permette di scrivere avendo la notizia sotto gli occhi e che, quindi, pare disincentivare l’interazione piuttosto che promuoverla) ma la scommessa del puntare sul mobile non sembra del tutto azzardata. Resta da capire se nel breve questa sia la scelta più azzeccata.

Il sito, secondo gli ultimi dati di ComScore, a marzo ha incrementato il proprio numero di visitatori online del 30% rispetto allo stesso mese dello scorso anno ma la redazione cartacea continua a soffrire e si prospettano nuovi tagli al personale dopo i licenziamenti della scorsa estate.

Slate lancia Slate Plus, l’alternativa freemium al paywall

Img: wikimedia.org

Nella puntata dello scorso 28 aprile di Eta Beta, programma radiofonico condotto da Massimo Cerofolini e dedicato nell’occasione ai cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo, ho avuto modo di citare la pratica del paywall tramite la quale i quotidiani online hanno iniziato a proporre i propri contenuti (per chi non lo conoscesse, si tratta di un monte articoli al mese, di solito compreso nella sua forma più soft tra 10 e 20 pezzi gratuitamente fruibili, superato il quale le notizie per essere lette necessitano di una forma di abbonamento). Non si tratta dell’unico approccio adottato ma sicuramente di quello che, nonostante i detrattori non lo vedano come soluzione valida a lungo termine, sta contribuendo ad arginare le perdite del comparto editoria.

Un’iniziativa di sicuro interesse in questo senso è quella proposta dal magazine statunitense Slate. I contenuti del sito restano free per tutti ma ai lettori è anche offerta l’opportunità di sottoscrivere l’abbonamentp a Slate Plus.

Slate Plus is an all-access pass for readers who support our journalism and want a closer connection to it. For $5 a month or $50 a year, a richer Slate experience awaits you.

Diventando membri di S+ si possono leggere le notizie tutte in una pagina, i propri commenti vengono pubblicati a margine dell’articolo senza apparire in un pop-up, si possono ascoltare dei podcast esclusivi (o senza interruzioni pubblicitarie), vedere video del dietro le quinte del lavoro della redazione o partecipare a chat private con alcune delle firme più prestigiose, acquistare con lo sconto del 30% il merchandise ufficiale.

David Plotz, presentando l’iniziativa, ha sottolineato più volte come S+ non sia una modalità freemium tramite la quale chiedere soldi ai lettori in cambio di articoli informativi quanto piuttosto un tentativo di proporre delle opportunità extra ai lettori rispetto a quanto proposto a incondizionatamente a tutti.

L’articolo, in data odierna, è stato commentato 1368 volte. Scorrendo fra i commenti un confronto su tutti mi è parso interessante: un utente (aka Krocnyc) esprimendo un suo giudizio sull’abbonamento si chiede perché debba pagare per avere i bonus previsti da S+; gli risponde Jennifer Lai, moderatrice Slate che cita l’esempio di coloro i quali acquistano i DVD edizione speciale (con extra quali il commento del regista o le scene tagliate) pur potendo risparmiare con la semplice proposta “DVD solo film”. La conversazione continua con l’utente che lapidario chiede: “Esiste ancora qualcuno che compra DVD? Per i contenuti extra?”

La risposta circa il vero intento di S+ a mio modo di vedere arriva poche righe più in basso quando Jennifer Lai indica come duplice scopo del nuovo membership program prima di tutto quello di cercare di focalizzarsi maggiormente sull’aspetto conversazionale delle notizie tra utenti e tra lettori e giornalisti (livechat, videochat, maggior spazio ai commenti, etc.) e, dall’altro lato, quello di supportare il giornalismo che Slate incarna.

Al di là dei primi giudizi, sarà interessante vedere come i lettori di Slate reagiranno alla proposta della redazione. Sinceramente, i benefit offerti non mi sembrano giustificare il costo mensile di 5 dollari, ma  è anche vero che se qualcosa mi gratifica (e la lettura di articoli interessanti sicuramente può essere annoverata tra ciò che mi appaga), sono ben disposto a dimostrare il mio apprezzamento a prescindere dai bonus.

E se invece che “Join S+” fosse stato proposto un più semplice “Support Us”?

L’importanza crescente dei nativi digitali del giornalismo

Img: pbs.org

Da alcuni giorni è disponibile State of the News Media 2014, l’annuale report del Pew Research Center che analizza il panorama informativo statunitense.
Delle tante osservazioni interessanti che i documenti presentano, la mia attenzione si è focalizzata soprattutto sui cosiddetti nativi digitali del giornalismo americano, le redazioni cioè nate nella Rete che nel corso degli anni hanno saputo ritagliarsi un ruolo sempre più importante nell’ecosistema editoriale a stelle e strisce. Un comparto, quello delle realtà informative online, in crescita nonostante la crisi della stampa: non solo BuzzFeed, Huffington Post, ProPublica, Politico, il panorama statunitense offre ai lettori una miriade di spazi diversi su web ai quali rivolgersi per leggere notizie. La cospicua “migrazione” di grandi firme dal giornalismo “tradizionale” legato alla carta a quello pensato e realizzato unicamente su web – due su tutte, Bill Keller lascia New York Times per l’iniziativa nonprofit The Marshall Project, Jim Roberts dal NYT passa a Mashable – contribuisce a suggellare l’importanza ormai acquisita dell’universo delle news online, non più considerato alla stregua di un “campionato di seconda divisone”.

Un mondo fatto di molte realtà “giovani” (il report analizza i 30 più grandi siti informativi all digital e altre 438 piccole redazioni del web), nate negli ultimi 10 anni, che si occupano di notizie locali o iperlocali, che puntano sull’inchiesta, che spesso devono far fronte a bilanci in rosso – se crescono gli investimenti nel comparto informativo digitale ciò non significa che l’industria delle news online abbia trovato la formula per monetizzare questo crescente interesse verso le notizie – e che, con il loro approccio innovativo alla Rete, stanno tentando di adattarsi a un panorama in rapida e costante evoluzione.

Adottando modalità differenti di raccontare e proporre le news rispetto a quelle dei media classici, molto più focalizzate su formati e strumenti in grado di sfruttare appieno le peculiarità della Rete, i siti informativi nativi digitali riescono a coinvolgere maggiormente i lettori che spesso, da semplici cittadini, diventano “volontari” in grado di supportare le redazioni con testimonianze dirette su ciò che succede loro. Forse anche per questo motivo, i siti informativi digitali risultano più accattivanti per il pubblico giovane generalmente poco incline al formato giornale.

Al di là del successo imprenditoriale di alcuni “esperimenti”, le realtà nate nella Rete svolgono una funzione sociale non di poco conto andando a riempire e a ampliare l’orizzonte che nella stampa cartacea (soprattutto per quel che riguarda i magazine), invece, si sta via via riducendo. Non solo dal punto di vista strettamente legato al numero e alla tipologia di notizie proposte ma anche da quello delle professionalità che nell’editoria lavorano: se nelle newsroom tradizionali continuano i tagli al personale, per ciò che concerne le redazioni online, almeno per quelle di maggior successo (delle 438 piccole realtà analizzate, più della metà sono formate da uno staff full-time di 3 persone o meno), si assistente invece a una notevole crescita. Solo due anni fa il team di BuzzFeed era formato da una mezza dozzina di persone, oggi può contare su 170 professionisti. Analogo discorso per Vice Media che solo nell’ultimo anno ha allargato il proprio staff a 48 new entry. O per Quarz, testata nata nel 2012 ma che può già contare su una rete di reporter a Londra, Bangkok e Hong Kong. E se l’HuffPost punta ad ampliare ancora il bacino delle proprie edizioni facendo salire da 11 a 14 i Paesi nei quali essere presente, Business Insider è attualmente alla ricerca di altre 25 nuove figure per il allargare la propria squadra.

Difficile prevedere gli sviluppi di ciò che sta accadendo. Di certo, l’industria dell’editoria “tradizionale” che aveva inizialmente snobbato la Rete deve oggi affontare una duplice sfida tutt’altro che semplice: da un lato il calo dei lettori e dei guadagni derivanti dalla pubblicità, dall’altro concorrenti digitali sempre più agguerriti.

Il Washington Post apre ai quotidiani locali, l’influenza di Bezos inizia a farsi sentire

Img: washingtonpost.com

Da quando Jeff Bezos ha acquistato il Washington Post ho con curiosità aspettato la prima rilevante decisione per comprendere il suo approccio alla guida di una così prestigiosa testata. In settimana qualcosa in questo senso pare essersi mosso.

Il pubblico di lettori del Washington Post è piuttosto omogeneo, almeno in termini di ubicazione geografica. A differenza del “rivale” New York Times che può contare su una notevole fetta di acquirenti del quotidiano fuori dalla “Grande Mela”, il WP resta fortemente ancorato, in termini di vendite, alla Capitale degli Stati Uniti. Tale aspetto, almeno per quel che concerne le copie a stampa, è diventato ancora più palese dopo il 2009 quando i vertici, per ovviare alla crisi, decisero di chiudere le redazioni del giornale a New York, Chicago e Los Angeles. L’avvento del digitale, nonostante gli sforzi per rendere la testata più forte sia a livello nazionale che internazionale, non è ancora riuscito nell’impresa di allargare il bacino di riferimento.

Proprio su questo versante il “Bezos pensiero” sembra essersi concretizzato in un primo importante cambio di prospettiva. In base alle dichiarazioni rilasciate al Financial Times da Steve Hills, presidente del WP, una delle primissime indicazioni del fondatore di Amazon, è stata quella di esplorare diverse soluzioni puntando sul successo digitale a lungo termine. La questione, come sottolinea lo stesso Hills, non è affatto di poco conto. Se nella precedente gestione il traguardo era legato alla realizzazione di guadagni nei 2/3 anni successivi, il cambio di rotta in atto, considerando un lasso temporale più ampio, consente – almeno potenzialmente – di valutare molte più opportunità.

Non è un caso quindi che, dal prossimo maggio, il giornale abbia deciso di offrire gratuitamente l’accesso digitale ai contenuti di sito e app, agli abbonati di sei quotidiani locali degli Stati Uniti, dal Dallas Morning Star al Minneapolis Star Tribune. In questo modo si stima che il pubblico di riferimento della testata possa crescere notevolmente anche perchè non è escluso che a breve il giornale possa adottare lo stesso approccio stringendo collaborazioni con i più noti servizi premium, da Spotify alle televisioni a pagamento.

Forse c’era davvero bisogno di un affermato professionista del digitale non legato all’editoria per allargare l’orizzonte della stampa.

In bocca al lupo signor Bezos, io faccio il tifo per lei!

Il futuro incerto di Libération specchio dell’attuale momento dell’editoria?

Img: theguardian.com

Pensando al giornalismo online la mia mente rimanda subito, quasi inconsciamente, all’esperienza statunitense. Non necessariamente perché sia la migliore ma forse perché gli USA – come ha scritto Danilo Taino sul Corriere della Sera – rappresentano “forse il Paese più avanzato e sofisticato in termini di utilizzo dell’informazione digitale”.
Quando riesco, però, tento di aggiornarmi anche sulle redazioni a noi più vicine (sia in senso geografico che di prossimità delle dinamiche legate al sistema informativo). In questi giorni, per esempio, mi sono appassionato alle vicende legate a Libération, lo storico giornale francese (co)fondato, nel 1973, dal filosofo Jean-Paul Sartre.
Anche l’editoria francese, come quella nostrana, sta attraverso un momento molto difficile: il calo di lettori dei quotidiani a stampa e la contrazione degli investimenti pubblicitari minano la sopravvivenza dei giornali.
Gli azionisti di Libération, per arginare il passivo in continua crescita della testata, decidono di operare cambi radicali nella gestione del quotidiano. Due su tutti: trasformare la prestigiosa sede in un centro culturale trasferendo gli uffici in un’altra zona di Parigi; cambiare l’approccio del giornale alle notizie avvicinandolo maggiormente alle dinamiche tipiche dei social media nel tentativo di individuare una piattaforma multimediale remunerativa (un BuzzFeed in salsa francese?).
I giornalisti non ci stanno e a distanza di meno di una settimana dall’annuncio proclamano uno sciopero di 24 ore. Il giorno che precede la protesta la redazione opta per una prima pagina di impatto: “Noi siamo il giornale. Non un ristorante, non un social network, non uno studio TV, non un bar, non un incubatore di startup”. Anche nelle pagine interne i giornalisti non usano giri di parole per esprimere le loro preoccupazioni per un progetto che minaccia di ridurre la testata a un “mero” brand.
La sfida pare infatti giocarsi non tanto sul piano di tagli, pensionamenti e decurtazioni di salario – proposte certo non ben digerite dallo staff – quanto sul piano predisposto dalla dirigenza per Libération, poco incline, secondo i lavoratori, alla linea editoriale di qualità che ha da sempre caratterizzato la testata.
Passano i giorni e lo scontro, fattosi sempre più aspro, culmina nelle dimissioni del (giovane) direttore del giornale Nicolas Demorand che, indicato dai giornalisti come parte del problema, si vede negare la pubblicazione di un proprio articolo sui cambiamenti pronosticati per la testata. All’insubordinazione dei giornalisti di Libération, Demorand risponde non solo gettando la spugna ma rilasciando un’intervista al “rivale” Le Monde nella quale dichiara di aver tentato invano di portare al passo con i tempi un giornale ancorato al formato a stampa.

Libération nel corso degli anni ha ammorbidito la propria posizione, mitigando le idee inizialmente radicate nel pensiero politicamente vicino a quella che in Italia chiameremmo l’estrema sinistra. Resta un giornale a vocazione anti-establishment che pare tuttavia non avere l’appeal necessario per attirare i giovani (che preferiscono informarsi online attraverso altre testate).
Se, come sottolineato da Natalie Nougayrède, editor-in-chief di Le Monde, mai come oggi si ha bisogno di giornalismo di qualità, quali le scelte più idonee per rendere l’informazione (anche nettamente schierata) sostenibile? Rien ne va plus?

Financial Times: record di copie, sempre più bassa la percentuale di ricavi adv

Img: cjr.org

Alcuni giorni orsono sono stati pubblicati i dati di esercizio relativi al 2013 del giornale economico-finanziario Financial Times. Gli specialisti del settore attendevano con molta curiosità i dati di FT Group perché il quotidiano inglese è stato tra i primi a sposare in maniera decisa il digitale. Non è un caso, quindi, che oggi oltre la metà dei ricavi del gruppo (per l’esattezza il 55%) derivi dal digitale e dai servizi offerti dalla testata, una cifra che registra un incremento del 31% rispetto al 2008. Viceversa, continuando il ragionamento in termini percentuali, i ricavi pubblicitari che cinque anni rappresentavano il 52% oggi si attestano al 37%. Questo, nonostante l’estensione a livello globale dell’innovazione FT Smart Match, la soluzione di contextual advertising in grado, grazie all’utilizzo della tecnologia chiamata Semantic Profiling, di offrire agli inserzionisti l’opportunità di associare i propri contenuti (articoli, white paper, video), in tempo reale e nel massimo della coerenza, ai nuovi articoli pubblicati su FT.com. Attraverso la tecnologia di Smartology cui la testata si è affidata, il nuovo pezzo pubblicato dalla redazione viene analizzato allo scopo di identificarne i concetti e le categorie di riferimento principali sulla base dei quali mostrare all’utente, in maniera automatica, i contenuti brandizzati più in sintonia con la notizia.

Per paradossale possa sembrare, in virtù del rigido paywall (senza registrazione si può solo vedere la homepage senza poter leggere nessun articolo), il FT nel 2013 ha incrementato dell’8% il numero di copie pagate, facendo registrare 652.000 copie totali (online + stampa), numero record in 126 anni di storia. Dato questo che, se approfondito, mostra un nuovo calo della distribuzione cartacea (-20% rispetto all’anno precedente) compensato però da una crescita del 31% delle sottoscrizioni digitali che ormai rappresentano quasi i 2/3 degli lettori paganti del giornale.

All’ottimo risultato in termini di copie vendute ha sicuramente contribuito il canale mobile di FT che, in virtù della propria app svincolata da iTunes con oltre 5 milioni di utilizzatori e le rinnovate collaborazioni con Google Newsstand e Flipboard oggi porta alla testata il 45% del traffico e un quarto dei nuovi abbonamenti digitali.

Altra iniziativa di successo è stata FTfast, il sito di notizie 24 h su 24 tramite il quale la testata può offrire un’informazione più snella ma più puntuale, sempre aggiornata in relazione ai vari mercati del mondo.

Tanti numeri per sottolineare come la scelta di puntare sul digitale per il Financial Times al momento sia una sfida vinta. Certo, il giornale è un quotidiano economico-finanziario il cui bacino di lettori è forse più propenso a pagare per ottenere informazioni che possono risultare determinanti per il proprio lavoro. Ma immaginare per le testate un futuro nel quale i guadagni vengano in primis da contenuti di qualità – mediante abbonamenti – e non dalla pubblicità, lascia vivo un barlume di speranza per un comparto, quello dell’editoria, in forte crisi.

Con EveryBlock l’informazione iperlocale torna a sperare

Img: djangosites.org

Scrivendo News(paper) Revolution ho potuto constatare di persona la difficoltà di raccontare la Rete (e in particolar gli aspetti informativi del web), uno spazio comunicativo fluido e in perenne evoluzione. Emblematico rispetto alla complessità del mettere nero su bianco ciò che cambia molto (troppo?) velocemente, è il servizio di hyper local news, EveryBlock.

Nato nel 2007 da un’idea di Andrian Holovaty e poi lanciato ufficialmente nel gennaio 2008, per molti anni EveryBlock è stato uno degli esperimenti più interessanti del panorama giornalistico statunitense. Dando modo agli utenti di contribuire alla realizzazione di una community online del proprio quartiere, il servizio affiancava informazioni di pubblica utilità a notizie da forum, blog e quotidiani online inerenti alla propria area di residenza. Una sorta di geo-forum (così lo sintetizza Holovaty) il cui successo portò a coprire 19 città degli Stati Uniti (tra le quali New York e San Francisco) attirando così le attenzioni di MSNBC.com che lo acquisì nel 2009. Società nata, come indicata il dominio, dall’unione tra Microsoft (MSN) e Comcast (NBC) che però non ebbe lunga vita. NBC News, tuttavia, riuscì ad aggiudicarsi completamente il sito nel luglio 2012 e, benché Holovaty, un mese dopo lasciasse il progetto di cui era padre, non esitai a raccontare di EveryBlock nella versione cartacea del mio libro, segnalandolo quale uno dei più concreti esempi di giornalismo come servizio per i cittadini di una determinata area geografica.

News(paper) Revolution dal 24 gennaio 2013 è nelle librerie e nemmeno un mese dopo, il 7 febbraio, leggo che la NBC News, visto il bilancio, è costretta a rivedere il proprio portfolio digitale: morale, EveryBlock viene chiuso perché non considerato strategico per la crescita della società.
Inizio a lavorare alla versione ebook del libro – ampliata e aggiornata, uscirà a maggio – e, visto quanto accaduto, decido di sostituire la citazione ad EveryBlock con GuardianWitness, altro progetto molto interessante che vede la partecipazione, nel flusso informativo, di “semplici” cittadini.

Fine della storia?

No, perché ad inizio 2014 Comcast decide – un po’ a sorpresa – di investire nuovamente in EveryBlock che, lo scorso 23 gennaio, torna operativo a Chicago (un percorso analogo è stato seguito da Patch, esperimento di informazione iperlocale di AOL).

Happy ending? Non proprio, il finale resta aperto. Se infatti esiste sicuramente un pubblico interessato a ricevere informazioni sul luogo nel quale vive ed è inserito, ad oggi è altrettanto vero che i grandi investimenti si sono scontrati con guadagni pubblicitari non all’altezza delle aspettative.
Che si navighi a vista, tra l’altro, lo conferma anche Matt Summy, vicepresidente Comcast-Chicago region, quando a precisa domanda su quale possa essere la modalità per rendere un sito di notizie iperlocali redditizio, ha risposto: “Molto candidamente, al momento non lo sappiamo”.

Se i finanziamenti a sostegno di EveryBlock sono tornati, una qualche prospettiva interessante sicuramente ci sarà (in fondo Comcast Corporation non è solo notizie, è anche un provider, c’è tutto l’interesse da parte della società di vedere accrescere l’utilizzo del web da parte degli utenti).

Il progetto non è nato-rinato a Chicago per caso: la metropoli dell’Illinois è infatti nota per il suo approccio open data della gestione pubblico. Il nuovo EveryBlock si propone come piattaforma aperta a sviluppatori e cittadini che vogliano confrontarsi attorno alle notizie (comprese quelle la cui fonte è la Pubblica Amministrazione) del proprio vicinato.

Il futuro dell’informazione passa anche da EveryBlock, non resta che seguirne gli aggiornamenti.

Trending e Paper, due novità di Facebook che strizzano l’occhio alle news

Ormai più di un mesetto fa, in un mio post, avevo sottolineato come i recenti cambiamenti introdotti, avvicinassero Facebook sempre più all’idea di un information network.
Le notizie di questi giorni sembrano confermare che una delle strade intraprese da Mark Zuckerberg & Co. (in particolare da Chris Cox e dal suo team) vada proprio nella direzione di rafforzare lo spazio dedicato alle news.

Il social network sta infatti testando il redesign della sezione Trending e pare stia per lanciare Paper, una news reader app sulla falsa riga di Flipboard.

Su entrambi i progetti le informazioni che trapelano non sono molte. Per quel che riguarda la sezione “Trending”, a differenza di quanto avviene su Twitter, i temi più chiacchierati del momento non vengono visualizzati come semplici hashtag/parole chiave, ma sono accompagnati da informazioni che li contestualizzano. Associati ai trend topic sono proposte, infatti, descrizioni che spiegano nel dettaglio, seppur in maniera sintetica, i motivi che portano a tanto interesse (in sostanza, dei lanci di agenzia). Altra grande peculiarità è quella che, in virtù dei propri algoritmi, Facebook è in grado di mostrare topic affini ai gusti dell’utente, personalizzando le informazioni da visualizzare in base agli interessi di chi naviga tra i contenuti.

Img: TechCrunch.com

Il progetto Paper è ancora avvolto nel mistero, non ci sono dettagli sulla sua declinazione (app stand-alone come l’acquisizione di Push Pop Press forse potrebbe presagire, o applicativo interno a Facebook?). Molto probabilmente sarà qualcosa simile a Flipboard e Zite, un’applicazione mobile capace cioè di organizzare status e notizie di blog e testate giornalistiche sottoforma di magazine elettronico da sfogliare.

Forse, almeno inizialmente, Paper non brillerà per originalità, ma potrebbe aiutare – come del resto il redesign della sezione Trending – il social network ad aumentare l’engagement in termini di interazioni, visualizzazioni e tempo speso.
Musica per le orecchie degli inserzionisti.