Il 2016 l’anno del paywall anche in Italia?

Img: wired.it

Gli ultimi giorni dall’anno, almeno per quel che concerne il panorama editoriale italiano, sono stati movimentati dall’annuncio dell’imminente lancio del paywall per il Corriere della Sera. Da anni si ricorrono le voci sull’esordio di questo tipo di strategia da parte dei principali quotidiani nazionali (su Twitter, per esempio, io stesso ho rilanciato un articolo datato ottobre 2013 che annunciava scelte che ad oggi non hanno avuto seguito) ma, in occasione della presentazione del piano industriale del Gruppo RCS, si è data molta enfasi alla decisione che dovrebbe concretizzarsi entro la fine del prossimo gennaio.

Alla base del progetto, tre (macro)obiettivi che il Gruppo si è dato: sostenibilità economica, trasformazione del proprio business, crescita futura. Tra le azioni che la Direzione ha deciso di intraprendere quella chiamata “Oltre il digitale” cita espressamente il paywall quale “nuovo modello di abbonamento per monetizzare in modo adeguato i contenuti, conoscere e fidelizzare il lettore”.

Dalle (poche) parole di chi ha presentato l’ambizioso progetto ancora non emergono i dettagli. Si è sottolineata la necessità di pagare i contenuti di qualità, l’importanza della sperimentazione anche in Italia, la flessibilità della formula che prevederà più combinazioni e lo spessore di un’iniziativa che ha attinto dalle best practice internazionali.

Il punto di riferimento, pare assodato, sarà il metered paywall, una soglia di sbarramento agli articoli gratuitamente fruibili non rigidissima che, nelle sue forme di maggiore successo, consente, ad esempio, di leggere gli articoli anche una volta superato il limite definito se si arriva ai contributi da un link condiviso nei social media o di preservare l’accesso alle gallery multimediali – foto e video – senza limitazioni. Un muro non completamente “impermeabile” dunque che potrebbe prevedere un numero massimo di articoli (10 articoli al mese?) da leggere gratuitamente, richiedendo la registrazione per aumentare senza spese il numero di articoli gratis di alcune unità (10 + 5 al mese?) superati i quali sarà invece necessario sottoscrivere un abbonamento al giornale.

In questo modo il passaggio da una lettura completamente gratuita a una formula più restrittiva risulterebbe probabilmente meno brusco e, almeno in linea teorica, eviterebbe un crollo degli accessi al sito della testata preservando al contempo la raccolta pubblicitaria digitale.

Non si tratta certo dell’unico elemento di “cambiamento” prospettato, altre azioni a programma sono, ad esempio, il ritrovato interesse per hyperlocal oltre al focus sulla trasformazione data-centrica per conoscere e interpretare al meglio il bacino di utenti. Ma forse sarà proprio il paywall quello che, almeno nell’immediato, avrà l’impatto più rilevante sui lettori e sugli altri “attori” del panorama giornalistico nazionale.

Quanto recentemente accaduto con il Toronto Star e con il Sun, quotidiani che hanno rivisto la propria strategia abbandonando il paywall sul quale avevano deciso di puntare, sembrano prospettare un inizio in salita per il quotidiano milanese, soprattutto in considerazione del prestigioso quanto impegnativo ruolo di “rompighiaccio”, prima testata italiana a sperimentare il paywall.

In questo senso, un dettaglio mi ha dato da pensare. Degli otto punti elencati per raggiungere quanto stabilito dal Piano Industriale, il messaggio ufficiale di RCS liquida piuttosto sbrigativamente il primo punto che rispetto agli altri, pur aprendo l’elenco, risulta fumoso. In maniera generica si fa riferimento all’obiettivo di “ridurre i costi, preservando investimenti e qualità”. Ecco, forse mi sarei aspettato un più audace quanto netto riferimento ad un ulteriore aumento della qualità rispetto a una “difesa” dell’attuale approccio che mi sembra emergere tra le righe del comunicato. Perché per convincere i visitatori di corriere.it ad abbonarsi al quotidiano rinunciando alle notizie gratuite di altri spazi informativi è probabilmente necessario far loro percepire ancora meglio il valore aggiunto che solo il Corriere delle Sera può offrire. In termini di obiettività, di approfondimento delle analisi, di autorevolezza. Lo status quo da solo non è sufficiente.

Nuovo corso per il Financial Times: sole levante o luna crescente?

Img: theguardian.com

Il Financial Times è una delle testate di riferimento per quel che concerne l’informazione online, sicuramente uno degli esempi più virtuosi (e citati, anche in questo nel blog) di come il web possa rappresentare per il giornalismo un’opportunità e non necessariamente una minaccia.

Un modello di business audace quanto efficace (incentrato su un rigido paywall), un brand riconosciuto ed apprezzato per integrità, autorità e accuratezza, una diffusione cresciuta del 30% negli ultimi cinque anni (rappresentata, oggi come oggi, per il 70% da abbonati “digitali” al quotidiano), una forte spinta – per metà del traffico complessivo – da mobile. Insomma, una situazione invidiabile per molti gruppi editoriali, in difficoltà nell’individuare strategie in grado di far fronte alla contrazione – in termini di introiti – del mercato pubblicitario.

Ciò nonostante il gruppo Pearson alcuni giorni fa ha confermato la vendita di FT al giapponese Nikkei, cessione che consentirà alla società fondata da Samuel Pearson di focalizzarsi su istruzione e formazione, colonne portanti della realtà inglese che nel 1957 acquistò l’autorevole giornale economico-finanziario.

In un articolo pubblicato pochi giorni fa, Jonh Fallon, chief executive di Pearson, raccontando il passaggio di consegne (e, in qualche modo, difendendo la scelta fatta), descrive l’attuale momento come un periodo di crisi dei media: la dirompente diffusione delle nuove tecnologie e, in particolare, le crescite esplosive di mobile e social media, rappresentano sfide molto impegnative per la produzione e la vendita del giornalismo. In virtù di ciò, nonostante la readership oggi registrata sia per il Financial Times la più elevata di sempre (e i lettori siano disposti a pagare come mai per essere informati), dopo attente analisi e riflessioni, il gruppo Pearson ha ceduto FT per dare l’opportunità alla redazione di far parte di una realtà giornalistica digitale globale, focalizzata al 100% sull’editoria.

Non sono un esperto di alta finanza ma il messaggio, tra le righe, mi pare un modo elegante per indicare i media tradizionali, benché capaci di reinventarsi e crescere sottoforma digitale, quali strutture ancora fragili e inadatte a garantire guadagni crescenti. Insomma, non così accattivanti per chi, operando in altri settori, voglia investire del denaro (a conferma di ciò, pare che anche l’Economist, altra testata in orbita Pearson, sia sul mercato).

Il valore pagato da Nikkei per FT è di 1,3 miliardi di dollari, 5 volte la somma versata nel 2013 da Bezos per acquistare il Washington Post. Se non c’è alcun dubbio sul fatto che la cifra sia davvero notevole, è altrettanto vero che le parole di Naotoshi Okoda, presidente e amministratore del quotidiano Nikkei, sembrano comunque confermare i limiti della stampa: “Siamo giornali. L’affare [con Pearson] non punta a incrementare i profitti. Lo abbiamo fatto perché vogliamo crescere l’influenza del [nostro?] giornalismo”.

Il futuro di FT (e, generale, del “Quarto Potere”) insomma, resta ancora tutto da decifrare.

Toronto Star, quando il paywall non è sinonimo di successo

Img: jpress.journalism.ryerson.ca

Oggetto delle riflessioni condivise nel blog sono spesso grandi testate, gruppi editoriali che possiedono ingenti risorse per finanziare la ricerca di approcci innovativi alla Rete. Quella che mi appresto a sintetizzare è invece una di quelle storie che, pur di secondo piano rispetto ai nomi altisonanti del “quarto potere”, offre indubbiamente spunti interessanti da valutare.

Nell’estate del 2013 il quotidiano più diffuso in Canada, il Toronto Star, a seguito del rinnovamento del design del proprio sito di inizio anno, introduce il paywall.
Consentendo di leggere solo 10 articoli gratis al mese, il giornale della Toronto Corp. punta, con gli abbonamenti, a recuperare i mancati introiti della pubblicità a stampa, di giorno in giorno sempre più in declino. Non si tratta di una “barriera” rigida: restano visibili gratuitamente a tutti gran parte degli articoli della homepage oltre ai video e, per utenti che mensilmente rinnovano, con un pagamento automatico, il proprio abbonamento al cartaceo, risulta un interessante servizio aggiuntivo a spese zero. A livello promozionale, tra l’altro, il primo mese di abbonamento è offerto a 0,99 centesimi, che poi diventano 9,99 dollari ogni trenta giorni.

Per la scena canadese la strada intrapresa dal Toronto Star non è una novità. Il paywall è infatti già stato precedentemente adottato da altri giornali molti diffusi nel Paese quali, ad esempio, il National Post e il Globe and Mail, anche se con differenti tipologie di prezzo e offerta.

Qualcosa però non va secondo i piani e così, a poco più di un anno e mezzo di distanza dal lancio, il Toronto Star torna sui propri passi informando gli utenti che il paywall dal 1° aprile non sarà più attivo e che tutti i contenuti della testata torneranno fruibili gratuitamente anche da tablet e mobile. Non si è trattato di un pesce di aprile – come forse qualcuno inizialmente ha pensato – ma, come recita la nota ai lettori, di un aggiustamento della strategia digitale messo in atto dalla testata per venire incontro alle tante richieste da parte di lettori e inserzionisti.

In realtà la decisione non è avvenuta in modo improvviso: già dallo scorso novembre il gruppo proprietario del giornale canadese, analizzando i dati di bilancio (digital revenue con segno meno) aveva annunciato il cambio di rotta che dal paywall avrebbe poi portato – con nuovi ingenti investimenti – a una rinnovata applicazione per tablet (sviluppata in collaborazione con il giornale di Montreal in lingua francese, La Presse) pensata per incentivare una lettura più interattiva, multimediale e multicanale da parte degli utenti.

Ai pochi (maledetti?) e subito, il giornale ha preferito tornare ad adottare un modello finalizzato ad allargare quanto più possibile il bacino di lettori (strizzando indirettamente l’occhio alla pubblicità), puntando in particolare sui giovani utenti, sicuramente più affini a tablet e social network che a un abbonamento a un giornale.

 

[update: Star Touch, quando il tablet vince sul paywall]

L’informazione può prescindere da Facebook?

Img: dawn.com

Il rapporto tra il mondo dell’editoria e Facebook ha vissuto fasi alterne. Al grande entusiasmo delle principali testate per le applicazioni di Social Reading – adottate a partire dal 2009 per leggere, commentare, condividere gli articoli proprio attraverso il social network di Palo Alto – si è registrato un raffreddamento in virtù dei successivi cambiamenti nell’algoritmo della gestione del flusso di notizie (e dei conseguenti ridimensionamenti del traffico da Facebook) che hanno messo la parola fine a molti dei progetti di stretta collaborazione.

Dalla scorsa settimana, una notizia pubblicata dal New York Times, ha però riportato sotto i riflettori l’ambizione di Facebook di diventare il “miglior giornale personalizzato del mondo”. Pare infatti che il social network guidato da Zuckerberg, forte dei suoi 1,4 miliardi di utenti, abbia iniziato ad intavolare con una dozzina di media company (tre le quali BuzzFeed, National Geographic, il Guardian, l’Huffington Post, Quartz e lo stesso NYT) una serie di incontri per valutare la disponibilità delle testate a veicolare i contenuti direttamente nel social network piuttosto che utilizzare, come avviene ora, collegamenti esterni ai vari articoli.

L’obiettivo parrebbe quello di incrementare la soddisfazione del lettore in termini di user experience: superando l’ostacolo del rimando ai siti delle testate e, conseguentemente, il caricamento di nuove pagine, il rischio di spazientire l’utente, soprattutto se si tratta di un lettore che naviga su web da mobile, si ridimensionerebbe notevolmente. Ciò comporterebbe un aumento del tempo speso nel social network e, quindi, un incremento dell’esposizione ai messaggi pubblicitari veicolati attraverso Facebook.

Al di là delle modalità legate alla pubblicità all’interno dei contenuti delle testate – pare che Zuckerberg e soci vogliano proporre agli editori una sorta di affiliazione: spazi pubblicitari gestiti da Facebook inseriti negli articoli e suddivisione degli introiti in base alle performance – resta da capire se le testate accetteranno di scambiare la visibilità dei loro pezzi cedendo però a Facebook i (preziosi) dati circa i profili dei lettori e il loro comportamento nei confronti del materiale informativo.

Leo Mirani, in un interessante articolo pubblicato da Quarz, ha sottolineato come l’offerta di contenuti a “spazi terzi” (quali, ad esempio, YouTube e Snapchat) attraverso i quali diffondere gli articoli, non sia per le redazioni una novità. Proprio per questo motivo, a suo dire, non bisogna temere l’iniziativa di Facebook (che, tra l’altro, non prefigura il social network come canale giornalistico esclusivo). Perché non si può insistere nel pensare che siano i lettori a visitare i siti delle varie testate: chi produce contenuti deve essere presente nei luoghi dove gli utenti sono soliti raccogliersi.

E sotto questo punto di vista, nel bene e nel male, prescindere da Facebook oggi non sembra possibile.

Google ed editori: c’eravamo tanto amati

Img: presstv.ir

La sfida tra editori e Google ha segnato nei giorni scorsi un nuovo avvenimento degno di nota: il gigante editoriale tedesco Alex Springer ha abbandonato, dopo solo due settimane di test, il blocco che limitava l’accesso ad alcune delle proprie pubblicazioni al motore di ricerca offrendo una free license per l’utilizzo dei contenuti di 4 siti del gruppo (welt.de, computerbild.de, sportbild.de e autobild.de).

L’irritazione degli editori (in Germania ma anche in Spagna, Francia e Italia solo per citare alcuni dei Paesi nei quali il problema ha dato adito ai dibattiti più accesi) è dovuta al fatto che l’azienda di Mountain View non si limita a riportare, nei risultati di una ricerca, i soli link agli articoli dei giornali ma presenta anche degli estratti dei contenuti. Secondo i detrattori, Google sfrutterebbe il materiale delle redazioni senza pagare alcunché alle testate ma anzi, guadagnando, anche grazie ad esso, in virtù degli annunci sponsorizzati del proprio circuito.
Gli editori, in alcuni stati, hanno perciò iniziato a riunirsi in consorzi (es. VG Media con oltre 200 editori tedeschi) chiedendo a gran voce che i propri rappresentanti politici si adoperino per tutelare il copyright dei loro contributi e per imporre a Google e altri aggregatori il pagamento di una fee (sintetizzata in Google Tax) per rendere pubblica la preview dei contenuti delle varie testate.

E’ interessante notare come la decisione di Springer che, sulla base del calo di traffico – sceso del 40% dal motore di ricerca e dell’80% da Google News – ha deciso di tornare ad adottare una posizione meno intransigente, susciti riflessioni opposte nei due schieramenti “in campo” (o forse, per meglio dire, “in rete”).
Se Mathias Doepfner, Chief Executive di Springer, sottolinea come quanto accaduto sia la prova più lampante della posizione dominante di Google nel mercato del search e quando sia stata discriminante la scelta del gruppo editoriale di provare a limitare il motore di ricerca (alcuni hanno notato come la marcia indietro del gruppo sia stata pressoché contemporanea all’annuncio dei dati che mostrano un utile ancora in discesa per il gruppo editoriale a causa, soprattutto, di incassi minori dalla pubblicità a stampa), dalla sede Google in Germania si fa notare come i numeri emersi dalla vicenda dimostrino quanto l’azienda californiana sia importante per il contributo fornito all’economia dell’informazione online.

Se è vero che Google guadagna dalla pubblicità veicolata attraverso l’indicizzazione di contenuti non propri nella SERP (il ragionamento che vale per le testate risulta valido, su scala minore, anche per i blog) è altrettanto vero che è proprio grazie al motore di ricerca o all’aggregatore di notizie Google News che i contenuti possono essere trovati dagli utenti, sempre più inclini a interrogare la Rete piuttosto che a visitare le homepage delle varie testate.

La questione, seppur delicata, sembra però una sorta di diversivo rispetto a una problematica ben più complessa: Google per il mondo dell’editoria pare essere più un’opportunità che una minaccia, ciò che continua a mancare è un modello (valido) di business che consenta alle testate di finanziarsi a prescindere dagli strumenti che gli utenti usano per trovare i contenuti informativi.

Un po’ come guardare il dito di chi indica il cielo.

Tesoro, mi si è ristretta la copertina

La questione del diritto d’autore su web è una di quelle tematiche che, nonostante l’evoluzione della Rete, continua a restare spinosa. Per sua natura il contenuto digitale presuppone l’aspetto della duplicazione, quasi impossibile imbrigliare gli utenti vincolandoli al rispetto di una ferrea disciplina che tuteli chi i contenuti li produce. Tracce audio, film e serie tv che si scaricano con software peer-to-peer, partite in streaming che si guardano in una diversa lingua, video di trasmissioni televisive “specularmente” editati, blog che ripropongono post di altri spazi, sono solo alcuni dei molti esempi seguendo i quali superare il concetto di proprietà intellettuale.
Pur seguendo gli sviluppi del dibattito (soprattutto in occasione del mancato rinnovo della collaborazione tra Rai e YouTube) non mi sono mai appassionato sino in fondo alla questione, almeno sino a ieri.
Lo scorso mercoledì ho infatti casualmente scoperto qualcosa che mi ha lasciato – uso un eufemismo – sconcertato. Navigando nella sezione Bibliotech di Key4Biz (nella quale era appena stata pubblicata la segnalazione del mio “Web Marketing: questione di metodo”), tra i libri proposti ho notato qualcosa di molto familiare.
La copertina di un testo di nuova pubblicazione (la metà sulla destra dell’immagine qui sotto), usava parte della grafica di quello che è il fronte del mio News(paper) Revolution.

copertina_usata_senzapermesso

Mi sono sentito intimamente defraudato. Perché la copertina l’ho pensata in prima persona (mia l’idea di aeroplani di carta di giornale guidati da utenti che “puntano” gli strumenti digitali; copertina materialmente realizzata su mie indicazioni dalla bravissima Valeria De Angelis) ed è una delle parti del libro che mi rendono più orgoglioso.
Nessuno ha chiesto al sottoscritto, a Valeria o all’editore (Fausto Lupetti Editore) il permesso di usare la grafica del mio saggio, vederla ripresa – in maniera grossolana – in un altro libro è stato davvero un colpo al cuore. Se poi aggiungiamo che il testo è edito da una realtà di Padova (mia città natale nella quale vivo), che tratta argomenti affini alla mia prima opera in solitaria e che è scritto da un “addetto ai lavori”, il quadro risulta forse ancora più grottesco. Non ho modo né voglia di individuare le eventuali responsabilità, non mi interessa sapere se sia una casualità o meno. Per quanto mi riguarda – anche se ammetto di non essere un esperto – si tratta di una probabile violazione del copyright ragione per cui ho dato mandato al mio legale di approfondire quanto accaduto.

Se è vero che il web è per molti versi baluardo di libertà ciò non significa necessariamente che tutto ciò che è in Rete si possa liberamente utilizzare. Internet non è completamente altro dal cosiddetto “mondo reale”, non si tratta di un luogo virtuale quanto anarchico, non va pensata come una sorta di frontiera dove tutto è lecito. Il web è parte della nostra quotidianità, spesso basterebbe anche solo il buon senso.

Ai posteri (meglio se avvocati), l’ardua sentenza.

p.s. = diffidate dalle imitazioni, mi raccomando!

[update: la controversia si è risolta con l’impegno della casa editrice a comunicare nel sito, nel materiale informativo relativo al libro e in un avviso da inserire nelle copie cartecee del testo, il copyright dell’immagine tratta dalla copertina del mio saggio]

Web Marketing: questione di metodo, il mio nuovo ebook

E’ da ieri disponibile nelle librerie digitali Web Marketing: questione di metodo, il mio ebook pubblicato da 40k per la collana Bees.

Fugo subito ogni dubbio: non si tratta della “guida definitiva al successo in Rete”, non offre ricette per ammaliare gli utenti né è un manuale di kotleriana memoria che esamina a fondo i principi del marketing reinterpretandoli alla luce della complessità di web e social media.

Molto più semplicemente, l’ebook è una riflessione sulla mia esperienza nella promozione online, con pochissimo budget e molte idee. Mi verrebbe da dire una “riflessione a voce alta” perché poi, come già scritto, tutto è nato da un invito ricevuto in occasione di un evento di formazione che mi ha dato modo di riflettere sui punti salienti della strategia da me adottata. Prepando le slide ho in qualche modo tirato le fila della mia “campagna” online accorgendomi che, nel dare il titolo alle diverse fasi del processo seguito per il lancio su web del libro, ero riuscito – in maniera quasi inconsapevole – ad identificare un approccio alla promozione online. Non sono tanto le singole scelte ad essere interessanti, ma piuttosto le modalità con le quali ho affrontato la sfida di far conoscere a quante più persone possibili il mio saggio.
Le parole di sintesi, sistemate in ordine “di apparizione”, sono diventate un mesostico (una variante del più noto acrostico) che ha portato in primo piano la parola CAPIRE.

mesostico

La lista di parole tentava quindi di dirmi qualcosa, mi invitava a “capire”, a scoprire il nesso tra le diverse fasi.

Ci ho riflettuto un po’ e alla fine sono arrivato alla conclusione che ciò che credevo un approccio poteva essere assunto a metodo: un procedimento messo in opera in vista di uno scopo. Quello di promuovere “qualcosa” – un libro, un prodotto, un’iniziativa – su web.

Arrivato a questo risultato, forte dell’entusiasmo generato dal racconto della mia “storia” in alcune occasioni pubbliche, mi sono convinto che le conclusioni alle quali ero giunto dovevano essere condivise in maniera più diffusa. E così, di getto, ho iniziato a riversare su carta le mie osservazioni che, in versione riveduta e corretta, hanno portato all’ebook.

Buona lettura!

p.s.= ho già provveduto ad inserire l’ebook anche su aNobii e su Goodreads

Il Washington Post apre ai quotidiani locali, l’influenza di Bezos inizia a farsi sentire

Img: washingtonpost.com

Da quando Jeff Bezos ha acquistato il Washington Post ho con curiosità aspettato la prima rilevante decisione per comprendere il suo approccio alla guida di una così prestigiosa testata. In settimana qualcosa in questo senso pare essersi mosso.

Il pubblico di lettori del Washington Post è piuttosto omogeneo, almeno in termini di ubicazione geografica. A differenza del “rivale” New York Times che può contare su una notevole fetta di acquirenti del quotidiano fuori dalla “Grande Mela”, il WP resta fortemente ancorato, in termini di vendite, alla Capitale degli Stati Uniti. Tale aspetto, almeno per quel che concerne le copie a stampa, è diventato ancora più palese dopo il 2009 quando i vertici, per ovviare alla crisi, decisero di chiudere le redazioni del giornale a New York, Chicago e Los Angeles. L’avvento del digitale, nonostante gli sforzi per rendere la testata più forte sia a livello nazionale che internazionale, non è ancora riuscito nell’impresa di allargare il bacino di riferimento.

Proprio su questo versante il “Bezos pensiero” sembra essersi concretizzato in un primo importante cambio di prospettiva. In base alle dichiarazioni rilasciate al Financial Times da Steve Hills, presidente del WP, una delle primissime indicazioni del fondatore di Amazon, è stata quella di esplorare diverse soluzioni puntando sul successo digitale a lungo termine. La questione, come sottolinea lo stesso Hills, non è affatto di poco conto. Se nella precedente gestione il traguardo era legato alla realizzazione di guadagni nei 2/3 anni successivi, il cambio di rotta in atto, considerando un lasso temporale più ampio, consente – almeno potenzialmente – di valutare molte più opportunità.

Non è un caso quindi che, dal prossimo maggio, il giornale abbia deciso di offrire gratuitamente l’accesso digitale ai contenuti di sito e app, agli abbonati di sei quotidiani locali degli Stati Uniti, dal Dallas Morning Star al Minneapolis Star Tribune. In questo modo si stima che il pubblico di riferimento della testata possa crescere notevolmente anche perchè non è escluso che a breve il giornale possa adottare lo stesso approccio stringendo collaborazioni con i più noti servizi premium, da Spotify alle televisioni a pagamento.

Forse c’era davvero bisogno di un affermato professionista del digitale non legato all’editoria per allargare l’orizzonte della stampa.

In bocca al lupo signor Bezos, io faccio il tifo per lei!

Il futuro incerto di Libération specchio dell’attuale momento dell’editoria?

Img: theguardian.com

Pensando al giornalismo online la mia mente rimanda subito, quasi inconsciamente, all’esperienza statunitense. Non necessariamente perché sia la migliore ma forse perché gli USA – come ha scritto Danilo Taino sul Corriere della Sera – rappresentano “forse il Paese più avanzato e sofisticato in termini di utilizzo dell’informazione digitale”.
Quando riesco, però, tento di aggiornarmi anche sulle redazioni a noi più vicine (sia in senso geografico che di prossimità delle dinamiche legate al sistema informativo). In questi giorni, per esempio, mi sono appassionato alle vicende legate a Libération, lo storico giornale francese (co)fondato, nel 1973, dal filosofo Jean-Paul Sartre.
Anche l’editoria francese, come quella nostrana, sta attraverso un momento molto difficile: il calo di lettori dei quotidiani a stampa e la contrazione degli investimenti pubblicitari minano la sopravvivenza dei giornali.
Gli azionisti di Libération, per arginare il passivo in continua crescita della testata, decidono di operare cambi radicali nella gestione del quotidiano. Due su tutti: trasformare la prestigiosa sede in un centro culturale trasferendo gli uffici in un’altra zona di Parigi; cambiare l’approccio del giornale alle notizie avvicinandolo maggiormente alle dinamiche tipiche dei social media nel tentativo di individuare una piattaforma multimediale remunerativa (un BuzzFeed in salsa francese?).
I giornalisti non ci stanno e a distanza di meno di una settimana dall’annuncio proclamano uno sciopero di 24 ore. Il giorno che precede la protesta la redazione opta per una prima pagina di impatto: “Noi siamo il giornale. Non un ristorante, non un social network, non uno studio TV, non un bar, non un incubatore di startup”. Anche nelle pagine interne i giornalisti non usano giri di parole per esprimere le loro preoccupazioni per un progetto che minaccia di ridurre la testata a un “mero” brand.
La sfida pare infatti giocarsi non tanto sul piano di tagli, pensionamenti e decurtazioni di salario – proposte certo non ben digerite dallo staff – quanto sul piano predisposto dalla dirigenza per Libération, poco incline, secondo i lavoratori, alla linea editoriale di qualità che ha da sempre caratterizzato la testata.
Passano i giorni e lo scontro, fattosi sempre più aspro, culmina nelle dimissioni del (giovane) direttore del giornale Nicolas Demorand che, indicato dai giornalisti come parte del problema, si vede negare la pubblicazione di un proprio articolo sui cambiamenti pronosticati per la testata. All’insubordinazione dei giornalisti di Libération, Demorand risponde non solo gettando la spugna ma rilasciando un’intervista al “rivale” Le Monde nella quale dichiara di aver tentato invano di portare al passo con i tempi un giornale ancorato al formato a stampa.

Libération nel corso degli anni ha ammorbidito la propria posizione, mitigando le idee inizialmente radicate nel pensiero politicamente vicino a quella che in Italia chiameremmo l’estrema sinistra. Resta un giornale a vocazione anti-establishment che pare tuttavia non avere l’appeal necessario per attirare i giovani (che preferiscono informarsi online attraverso altre testate).
Se, come sottolineato da Natalie Nougayrède, editor-in-chief di Le Monde, mai come oggi si ha bisogno di giornalismo di qualità, quali le scelte più idonee per rendere l’informazione (anche nettamente schierata) sostenibile? Rien ne va plus?

Tina Brown e lo strano caso del Newsweek


Lo scorso dicembre, in aeroporto per un viaggio all’estero, in attesa dell’imbarco, gironzolando, entrai in un’edicola, una di quelle con un nutrito numero di riviste internazionali. Nonostante non cercassi nulla di particolare, uscii con un magazine in mano (vedi mio tweet). Era l’ultima copia cartacea del Newsweek sulla cui copertina, una panoramica in bianco e nero di New York, capeggiava la scritta sottoforma di hashtag #lastprintissue. Un passaggio epocale era alle porte: alla vigilia degli 80 anni di “onorato” servizio, il giornale fondato da Thomas J. C. Martyn (precedentemente giornalista di cronaca internazionale per il Time), si apprestava a lasciare la carta per il web. Una sfida, quella della Rete, resasi necessaria (in realtà già annunciata nell’ottobre 2012). Newsweek, infatti, acquistato nel 1961 dal gruppo Washington Post Co. nel corso degli anni vede erodersi l’appeal nei confronti dei lettori tanto che, nel 2010, il settimanale è venduto a Sidney Harman per 1 dollaro (confermo: 1 solo dollaro; ma 47 milioni di dollari di passivo). Di lì a poco lo stesso Harman dà vita a una joint venture con l’InterActiveCorp (IAC) creando così una nuova realtà editoriale capace di unire alla freschezza e alla dinamicità di The Daily Beast, la storia e l’autorevolezza del Newsweek. A capo dell’ambizioso progetto, Tina Brown, acclamata ex-direttrice di Vanity Fair e di The New Yorker. Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Perché, notizia di questi giorni, Tina Brown ha deciso di lasciare. Eppure nel suo editoriale pubblicato nell’ultimo numero cartaceo di Newsweek, poco più di un anno fa, sembrava avere le idee molto chiare sul panorama dell’editoria, sui difetti del giornalismo e sugli ostacoli da superare per avere successo. Qualcosa sembra, quindi, non tornare. Tanto che qualcuno tra gli addetti ai lavori inizia a chiedersi se sia a rischio la sopravvivenza del Daily Beast, co-creato nel 2008 dalla stessa Brown e da Barry Diller, spazio informativo vincitore nel 2011 e nel 2012 del Webby Award come migliore sito di notizie. Sì perché, se recentemente lo stesso Diller ha ammesso come l’acquisizione del Newsweek sia stato un errore (il “bistrattato” magazine è stato nuovamente venduto lo scorso agosto, alla IBT Media), sembra che anche per sito le cose non vadano benissimo. Secondo Adweek, infatti, se theDailyBeast.com sembra recuperare in termini di traffico e revenue, le perdite per l’anno in corso sono stimate in 12 milioni di dollari. Tempi duri per chi lavora nell’editoria. Ad ogni livello.