Choke, soffocare

Ho avuto modo di vedere (in versione originale sottotitolata) una delle pellicole del 61esimo festival di Locarno, il cui titolo è Choke (Soffocare).
Regia di Clark Gregg il film è il riadattamento dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk (famoso per Fight Club) e presenta, con un spassosissima vena ironica, le vicende di Victor Mancini un ragazzo sesso-dipendente che, lasciati gli studi di medicina, lavora come figurante in un parco che ripropone alle scolaresche la vita dell’America dei coloni. E come sul lavoro, anche nella vita reale Victor è imprigionato nel suo passato: da una parte non riesce più a parlare con la madre se non fingendosi un avvocato, dall’altra pur seguendo delle terapie di gruppo (in compagnia del miglior amico) non è in grado di superare la propria sete di fisicità. Forse il suo ricercare il piacere fine a sé stesso rappresenta una sorta di fuga dai problemi (e in fondo dalla vita), sta di fatto che con il peggiorare delle condizioni della madre Victor inizia a pretendere delle spiegazioni, delle risposte alle domande che si è sempre posto ma che non hanno mai avuto risposta: smette di fuggire, si mette in gioco e decide di affrontare i propri sentimenti e la verità alla base della propria esistenza. Il film – che rispecchia fedelmente il libro differenziandosi un po’ solo nel finale – è una serie di sketch divertenti, provocatori (i richiami alla religione sono davvero esilaranti) che raccontano di come un uomo affronti le proprie debolezze, le proprie incertezze, di quali ingegnosi piani riesca a pianificare per accumulare il denaro sufficinte a sopravvivere e di quanto coraggio poi dimostri nell’affontare la vita lasciandosi guidare dal proprio istinto. Perchè in fondo Victor ci rappresenta.