Per far conoscere INQ1, con una bella iniziativa articolata su twitter e friendfeed, la 3 ha distribuito dei cellulari da testare. Anche il sottoscritto, dopo vari tentativi, in zona Cesarini, è riuscito ad aggiudicarsi un telefonino (grazie ancora per l’opportunità!).
Pochissimi giorni dopo la comunicazione della vincita – e dopo la compilazione dei moduli necessari a registrare sim e cellulare – ho ricevuto un bel pacchettino a forma di cubo. Con grande curiosità ho aperto la confezione e ho finalmente potuto avere tra le mie mani l’INQ1, noto anche come facebookphone. La prima cosa che mi ha colpito è come non ci siano manuali. Una decina di card colorate spiegano con semplicità e senza troppi giri di parole le caratteristiche del cellulare. Leggo incuriosito e capisco quali siano i punti di forza del telefonino: la possibilità di poter accedere a Facebook, quella di poter utilizzare Skype, la rubrica con la quale associare ai numeri di telefono le varie identità internet (in questo modo, quando ad esempio si riceve una chiamata, potrà apparire l’immagine del profilo Facebook di chi sta mettendo in contatto con noi), la possibilità di gestire i feed per seguire gli aggiornamenti dei propri siti preferiti e infine quella di configurare dei widget nella pagina iniziale.
Accendo il cellulare, faccio scattare in avanti lo schermo e, scritto il pin, grazie al tasto carosello navigo nel menu rapido del telefonino, scoprendo, oltre alle applicazioni già citate, anche Messanger, Youtube, pianeta 3 (sezione nella quale acquistare giochi, musica e news) e il pulsante “internet” dal quale posso scegliere se accedere a Google Search, Youtube, Yahoo Search, MSN Mobile, MySpace e eBay. Nella home, in alto, trovo preinstallato un widget: inserisco il nome della città in cui mi trovo e vengo informato su meteo e temperature. Scelgo Google per provare il browser e casualmente scopro che lo schermo permette anche la navigazione in orizzontale semplicemente girando il cellulare. Dopo aver disattivato il sistema di scrittura facilitata, scrivo il nomignolo con il quale sono noto online e poi visito il mio blog. Quando premo il tasto Indietro, nella schermata appaiono i livelli di navigazione per cui posso scegliere con estrema facilità se tornare all’inizio del mio percorso o solo indietro di uno step. Poi provo Youtube: vado nella home e scelgo il primo video della lista (“doesn’t mean anything libe from black ball”) salvo poi leggere “not available on mobile”. Passo alla ricerca. Ridisattivo il sistema di scrittura facilitata – strano non si memorizzi la mia preferenza antit9– e scrivo “glass and the gost children smashing pumpkins”. Clicco “watch video” aspetto alcuni secondi per la connessione e poi mi vedo il video (cinque livelli di volume a mio giudizio sono troppo pochi, pur scegliendo il primo livello il volume mi pare troppo alto per gli autoparlanti del cell). Decido di passare al menu del cellulare: decisamente spartano, presenta 12 caselle, dal tasto fotocamera a quello impostazioni, da sveglia a giochi e applicazioni (nemmeno un gioco preinstallato, uffi). Scelgo feed e trovo già inseriti quelli della Gazzetta dello Sport.
Leggendo la user guide del cd, scopro anche come INQ1 permetta di stabilire una connessione Internet ad alta velocità per il computer tramite cavo USB e driver incorporati. Inoltre leggo come il cellulare permetta l’accesso al proprio account Last.fm per ascoltare le canzoni preferite.
Insomma, INQ1 è un cellulare senza molte pretese ma simpatico, piccolo, maneggevole (anche se non leggerissimo), con una fotocamera da 3.2 mega pixel e una buona batteria, per chiunque desideri iniziare a utilizzare un cellulare collegato alla web e ai principali social network senza però spendere troppo e senza dover scegliere un cellulare complesso forse più indicato per chi per lavoro ha la necessità di essere sempre connesso.
Tra l’altro proprio in questi giorni è in commercializzazione INQ Chat, l’evoluzione di INQ1 con tastiera QWERTY, GPS integrato, client Twitter, nuovo software e nuovo design. Piccoli INQ crescono.
Me
The big escape by Nokia
Nel canale YouTube di Nokia Italia da alcuni giorni è comparso un nuovo breve filmato che, pare, sia un assaggio di un advergame legato al servizio Ovi Maps 3.0. Si tratta di The big escape, una nuova iniziativa grazie alla quale scappare – almeno virtualmente – dai luoghi comuni. Potevo esimermi dal partecipare? Certo che no. Perchè in fondo, benché quanto mi appresto a raccontare sia stato per certi versi traumatico, oggi ricordarlo è anche divertente. Il luogo comune dal quale vorrei fuggire è sintetizzabile nello slogan: “Italiano è sempre buono. Anche all’estero” che ben rende l’idea di ciò che per alcuni giorni sia stato il mio incubo, il martellante pensiero capace di levarmi l’appetito.
Ero in Inghilterra, in una sorta di college per ragazzi stranieri, stavo tentando di rendere meno imbarazzante il mio inglese. Fortunatamente di connazionali non vi era presenza e anzi orami ero diventato, diciamo così, “amico del mondo”, nel senso che avevo stretto amicizia con una ragazzi di ogni etnia e provenienza, dalla Spagna alla Repubblica Ceca, dalla Germania alla Corea. Sono molto delicato per ciò che concerne il cibo ma mi ero ripromesso di accettare il confronto con le altre culture presenti nella scuola: a turno, uno di noi ragazzi sceglieva un locale e tutti insieme andavamo a provare le pietanze offerte come fossimo fini critici culinari. Spesso, per non sfigurare nei confronti degli altri, sceglievamo locali vicini alla loro cultura. Una delle prime volte, forse per dimostrami l’affetto e la stima nei miei confronti (così mi piace pensare), i ragazzi quasi in coro mi proposero un ristorante/pizzeria chiamato “Made in Italy”. Sin dall’ingresso il locale, nonostante il nome, non mi parve traspirasse italianità, ma ascoltando in sottofondo la musica di Vasco e vedendo l’entusiasmo dei miei amici, un po’ mi tranquillizzai. Una volta arrivato il menu però i dubbi svanirono: la cosa più vicina a un piatto nostrano che la lista offriva era una margherita con ananas a pezzi (adorata, tra l’altro, dei miei compagni asiatici). Sorrisi a denti stretti. Alla fine, quando tutti insieme, ci avvicinammo per pagare alla cassa, l’occhio mi cadde sui “cartoni” per le pizze da asporto: nella parte superiore, sotto il nome, c’era una sagoma della penisola italiana. Ma solo della penisola, senza isole.
Uscii ferito nell’orgoglio patriottico e mi ripromisi di evitare quanto più possibile i ristoranti (pseudo)italiani all’estero. Avrei voluto scappare come il protagonista del minitrailer ma vendendo i mei compagni tutto sommato appagati (certo, per chi non è abituato alla nostra cucina, probabilmente anche un piatto di pasta scotta con del ketchup può sembrare una pietanza succulenta) affogai in una buona (e sana) pinta di birra la mia delusione.
Le nuove Adidas Predator X sbarcano a Milano
Il tardo pomeriggio di oggi ha visto protagoniste, all’Arena Civica di Milano, le nuove Adidas Predator X calzate da sportivi di eccezione quali gli All Blacks Dan Carter, Jimmy Cowan, Zachary Guildford, Luke McAlister e i calciatori Diego (Ribas da Cunha), Cristian Brocchi e Alessandro Matri.
I giocatori, divisi in due squadre miste, capitanate rispettivamente da Dan Carter e Diego, si sono sfidati in una competizione molto spettacolare: l’obiettivo era colpire, dalla terrazza dell’Arena, sia con il pallone ovale che con quello da calcio, un bersaglio posizionato al centro del campo a circa 70 metri di distanza (per onor della cronaca ha vinto la squadra di Carter). Un modo simpatico – e per certi versi spettacolare – con il quale testare potenza e controllo delle ultime nate in casa Adidas (pazzesco come le scarpette da calcio si siano “evolute” dal 1994!) che si basano, in estrema sintesi, su tre principali tecnologie: powerspine, predator e optifit. Spero di riuscire a spiegare queste innovazioni senza annoiare troppo: grazie alla tecnologia powerspine il piede nel colpire la palla subisce una minore deformazione e questo significa meno perdita di energia e quindi più potenza e velocità impressa alla palla; la tecnologia predator – un mix plastica-silicone a lato dalla scarpetta – permette una maggiore accuratezza nel controllo del pallone e nell’effetto del tiro, in ogni condizione metereologica (pioggia o sole) e di campo (secco, duro o bagnato); la tecnologia optifit infine punta a garantire un miglior controllo di palla: riducendo il materiale tra pallone e piede, grazie a innovativi elementi costruttivi e nuovi materiali, si ha una sensazione confortevole come se si giocasse a piedi nudi.
Altre chicche che caratterizzano le Predator X sono: la parte laterale pre-sagomata che una volta indossate rende le scarpette ergonomice al massimo, la parte del tallone dei tacchetti che è a sé stante rispetto alla tomaia della scarpa, i lacci più ampi dove si annoda e poi più fini per ridurre al minimo l’ingombro, il bordo morbido all’avampiede… Insomma se la mia (brillante?) carriera di fantastista non fosse stata prematuramente bloccata da un brutto infortunio alla caviglia destra (e nonostante il prezzo della top di gamma non sia proprio economico), avrei voluto davvero provare le nuove Predator X e sentirmi, almeno il tempo di una partita, un campione.
Io, Gavin, i Fiberoctopus e il web 2.0
[Avviso ai lettori, questo post è autocelebrativo]
Tempo fa – ormai più di tre anni orsono – mi sono imbattuto nel sito di un gruppo di San Diego mai sentito prima di allora, i Fiberoctopus. Mi sono piaciuti da subito, il loro sound malinco-elettronico è stato capace di rapirmi sin dalle prime note e così, in pochi giorni canzoni come Wet Match, She was my hostage, Waiting in heaven e When you dream sono diventati i miei personali tormentoni, canzoni che ascoltavo in loop per ore. Tanto mi ero appassionato alla band che ho (ben) pensato di creare un gruppo su Facebook per tentare di farli conoscere anche ai miei contatti diffondendo così il loro indie-pensiero. Dopo alcuni mesi il gruppo continuava però ad essere formato da pochissime persone (che avevo “pressato”) e così, non senza sconforto, in qualità di ammistratore, decisi di cancellarlo optando per una più pagina più sobria pagina “diventa fan”.
Pochi giorni fa, con mia somma sorpresa/orgoglio, ho ricevuto un messaggio dal frontman della band – Gavin – nel quale mi ringrazia per aver cercato di diffondere la musica dei Fiberoctopus e mi chiede di poter diventare anch’egli amministatore per poter così aggiornare e rendere più accattivante il frutto della mia passione. Pazzesco no? Il leader della band che chiede al sottoscritto di diventare amministratore della sezione fan su Facebook relativa al proprio gruppo, surreale, hi hi.
Dopo due giori di suspance (non potevo dargliela vinta subito, l’occasione era troppo ghiotta), l’ho accettato a bordo, convincendolo anche ad aprire un account su Twitter (oltre a Myspace già attivo) con il quale restare in costante contatto con la band.
Per la serie: “Dio benedica i social network”. E ovviamete anche la musica dei Fiberoctopus.
Parnassus, dico la mia sul film
In questo post ho deciso di lanciare una sfida a me stesso: parlare di un film di fantasia adottando un’analisi pseudoscientifica in stile pagella Ziliani. Possibile? Ci provo.
La pellicola in questione è: Parnassus, l’uomo che voleva ingannare il diavolo.
Titolo italiano: voto 4
Il titolo originale – The Imaginarium odf Doctor Parnassus – risulta decisamente più appropriato. A ben vedere infatti non è tanto il Dottor Parnassus che si prende gioco del diavolo quanto quest’ultimo che ama lanciare sfide quasi impossibili a Parnassus giocando ovviamente con una delle caratteristiche che lo denotano: l’inganno. Da rivedere.
Trama: voto 6
Dallo sceneggiatore di Brazil e Il gioco di Ripley (Terry Gilliam) mi sarei aspettato un racconto più articolato, accattivante, emozionante. Non a caso, uscendo dalla sala, mi sono chiesto: “E se il film lo avesse scritto Tim Burton?”. Nella prima parte nonostante un po’ di cliché (la figlia oppressa da un padre troppo affettuoso, il ragazzo innamorato che propone la fuga, il fascino del nuovo arrivato…) scorre senza eccessi pur creando curiosità nello spettatore. La seconda parte, invece, mi pare un po’ troppo accellerata. Potrebbe essere una scelta voluta – in fondo nel mondo al di là dello specchio spazio e tempo agiscono in maniera differente – ma il cambiamento di Tony, da eroe positivo in grado di risollevare le sorti della campagnia teatrale a losco farabbutto senza scrupoli (il vero volto sotto la maschera con il naso a punta?) spiazza perchè troppo repentina e priva quasi di spiegazione. Anche la questione dei simboli sulla fronte viene ripresa più volte ma non viene mai affrontata: perchè quei segni? A quando risalgono? Cosa comportano?
Forse, anche in questo caso, a noi come al diavolo non è dato sapere, ma sembra un ennesimo particolare che pur potenzialmente molto intrigante non ha avuto l’attenzione che forse avrebbe meritato essendo un dettaglio non da poco nella storia di Tony (stessa cosa potrebbe essere obiettata per l’immortalità di Parnassus, sviluppata in piccolissima parte).
L’idea di avvicendare tre attori al ruolo di Leadger risulta invece funzionale alla sceneggiatura: tre mondi differenti, tre volti diversi, nulla da ridire (di Depp la performance più convincente dei tre). Leggerina.
Cast: voto 6 1/2
Se dovessi valutare Heath Ledger il voto sarebbe un 10 in memory of. Ma, in generale, tutti gli attori mi sono piaciuti. Forse solo Farrell mi è sembrato un gradino sotto gli altri come espressività. Sensuale e ambigua (un po’ donna angelo un diavoletta) l’interpretazione di Lily Cole (Valentina) mi ha affascinato: una figura eterea, un mix tra concretezza e immaginazione perfetta per il film. Tanto da far apparire Percy (Andrew Garfield) molto più piccolo di quanto non sia la reale differenza di età tra i due (in realtà Andrew è di 5 anni più vecchio di Lily). Anche Parcy – Verne Troyer – mi ha convinto, perfetto, anche nelle dimensioni, per il ruolo di “grillo parlante”, voce della coscienza. Cristopher Plummer e Tom Waits – rispettivamente Parnassune il diavolo – non mi hanno particolarmente impressionato: il primo troppo “Gandalf” il secondo toppo poco cattivo/perfido, troppo “Uomo con la bombetta” di Magritte. Buona la prima.
Effetti speciali: voto 6 +
Ok, è un film indipendente quindi il budget non sarà stato altissimo ma gli effetti speciali, pur carini nella “sostanza” risultano a mio modo di vedere un po’ primitivi nella “forma”. Sarà che sono reduce dalla mia prima esperienza con il cinema 3D (UP), ma le animazioni dei diversi mondi non sono state in grado di “avvolgermi” e di fare in modo che mi abbandonassi completamente all’immaginazione. Questo si nota anche nei “cambiamenti” dei paesaggi a mio avviso non abbastanza dinamici. Bolle blu.
Regia: voto 6 1/2
Il gusto postmpoderno in cui bello e brutto, antico e moderno, e altri opposti si fondono in un occhio – quello sulla macchina da presa – tragicomico rende sicuramente ricoscibile Gilliam. L’atmosfera onirica viene trasmessa allo spettatore e la Londra nella quale si sviluppa la storia sembra la metropoli sospesa che nasconde mondi di magia come in Harry Potter. Incantesimo.
Il giudizio complessivo, quindi, è sicuramente positivo. Ciò non toglie, tuttavia, che il film ai miei occhi non si sia dimostrato il capolavoro che sperevo fosse: lo ammetto, in parte ha deluso le mie aspettative. Peccato perchè i presupposti per un film cult c’erano tutti: inno alla vita e alla fantasia e all’immaginazione che mostra, attraverso viaggi surreali, tutte le nostre potenzialità e tutte le nostre debolezze arrivato ai titoli di coda non mi ha convinto appieno. Non possono essere dimenticati gli sforzi che per vari motivi si sono resi necessari affinché il film uscisse nelle sale, ma l’impressione che qualcosa di (parzialmente) incompiuto rimane, almeno in parte.
La Woodstock di Ang Lee
Dopo il Watergate, la Guerra di secessione, Hulk e l’amore omosessuale tra due cowboy, Ang Lee torna a proporre un altro tema molto caro agli americani (e non solo): il concerto di Woodstock. Tratto dal libro di Elliot Tiber – Taking Woodstock. A True Story of a Riot, A Concert and a Life – la pellicola racconta la vita di Elliot, sgangherato pittore che, non riuscito a imporsi nella città, torna dai propri genitori – due ebrei fuggiti dall’est Europa – per aiutarli nella gestione di un malridotto motel in una sperduta cittadina immersa nei verdi pascoli.
Il film scorre leggero, tra gag e spunti più riflessivi, principalmente su due grandi fili conduttori: da una parte, il “conflitto” generazionale tra i genitori (e, in generale, gli abitanti del paesino) – gli spettatori di quanto stava succedendo sotto i loro occhi increduli – e i protagonisti veri e propri, ragazzi provenienti da tutta l’America con in tasca la delusione per una guerra mai compresa e sogni di libertà, musica, pace e armonia.
Dall’altra, ciò che accade allo stesso Elliot, all’inizio interessato alla megaconcerto rock per non far perdere ai genitori la loro ragione di vita ma che poi, con il passare del tempo, si rende conto (stupendosi) di aver contribuito a un evento storico nel quale i soldi sono solo una parte – e forse la più marginale – di quell’oceano di persone riunitasi per divertirsi insieme.
Il segreto per apprezzare al meglio il film, forse, sta nel dimenticare per un attimo il successo di Lee nel 2006, entrando nella sala in maniera spensierata, lasciandosi trascinare da questo che è una sorta di collage su come diverse persone abbiano vissuto – e quindi possono raccontare – Woodstock. Una pellicola che a dispetto del titolo, lascia la musica come sottofondo puntando a creare un arcobaleno di personaggi più o meno bizzarri (dalla guardia del corpo ai teatranti, dal promotore del concerto all’amico “schizzato” a causa del Vietnam di Elliot). Carino anche il montaggio che ci cala proprio “dentro” la scena, a volte suddividendo le schermo in più finestre come dei telefilm anni Settanta.
VOOM Portraits: a still life is a real life
Sempre più appassionato di videoarte, anche se solo all’ultimo giorno, sono riuscito a visitare la mostra multimediale VOOM Portraits firmata Robert Wilson. Si tratta di una serie di “ritratti” ad alcuni personaggi – da Brad Pitt a Winona Ryder, da Gao Xingjian allo scrittore William Pope – immortalati in sequenze che si ripetono in loop e che li vedono protagonisti di reinterpretazioni di famosi dipinti o come sospesi in un mondo innaturale e senza tempo. La cosa particolare, a ben vedere, è proprio quella che, nello stesso momento, ciò che vediamo tra le sale, è sia un ritratto, una foto, un gioco di luci, un’espressione, sia un susseguirsi di (quasi) impercettibili movimenti che rendono vive le immagini (perchè si tratta, anche se a volte sembrano passare secoli prima di notare un piccolo cambiamento, di una serie di immagini una dietro l’altra). Le opere che mi sono piaciute di più sono quelle riferite a due donne (poteva essere altrimenti?): la Dita Von Teese e il suo equilibrio “magico” di felliniana memoria e la principessa Carolina di Monaco in stile Grace Kelly, un’ombra più che una donna in carne ed ossa, lacerata dalla profonda “ferita” sulla schiena. La palma del più inquietante va invece a Steve Buscemi, nei panni di un macellaio che muove nervosamente mandibola e scarpe.
Probabilmente avrei apprezzato ancora di più la mostra se fosse costata un po’ di meno (capisco sia la nuova frontiera e che gli schermi ad alta risoluzione i più convenienti ma…) e se fossero state messe a disposizione delle sedie-pieghevoli-da-museo con le quali gustare senza fretta e senza patimenti le varie opere. Una nota di merito, invece, per il materiale fornito all’ingresso dal quale spicca, su tutte, una frase di Wilson che recita:
“Spesso le persone mi chiedono quale sia il significato delle mie immagini. Non do interpretazioni del mio lavoro. L’interpretazione spetta agli altri. Fissare il senso di un’opera ne limita la poesia e la possibilità di generare altre idee. Sono affermazioni personali e poetiche di personalità differenti.“
Lebanon e il ruggito del Leone
Dopo Women without men ho continuato la mia personale maratona sui film più acclamati alla mostra del cinema di Venezia vedendo la pellicola vincitrice del Leone d’oro: Lebanon di Samuel Maoz.
Un film strano, di quelli che o conquista o lascia perplessi senza via di mezzo. La storia è quella di in un gruppo di ragazzi che, con un carro armato, fungono da supporto a un plotone di paracadutisti inviati a perlustrare i resti di alcune cittadine bombardate dall’aviazione israeliana. Le continue inquadrature interne al carro armato (visione per questo motivo forse non proprio indicata a chi soffre di claustrofobia, all’uscita dalla sala sembra ci si sente quasi unti di olio come i protagonisti) fanno partecipare in prima persona lo spettatore alle tensione del conflitto e alla sopresa da parte dei giovani soldati di ritrovarsi di colpo catapultati dalle semplici quanto innocue eserciatazioni a un cruda realtà fatta di morte, urla e distruzione. Forse è proprio questo l’aspetto più angosciante della pellicola che mostra il terrore per il conflitto proprio di chi dovrebbe guidare la battaglia e che invece, quasi in maniera compulsiva, non sentendo proprio lo scontro, controlla con il mirino la situazione fuori dal cingolato ma resta quasi incapace di premere il grilletto e di eseguire gli ordini impartiti. I giovani militari, infatti, non sono eroi, non sono desiderosi di sacrificare la propria vita per l’annientamento del nemico, sono solo fragili ragazzi terrorizzati dall’essere in contatto così diretto con gli orrori della guerra, desiderosi solo di tornare vivi dalle loro famiglie e di lasciare quanto prima il campo di battaglia. Film forte, di poche parole, forse a tratti un po’ lento, ma di sicuro impatto.
Women without men, dal libro al film
Dal romanzo di Sharnush Parsipur – il cui titolo fa forse un po’ il verso al Men without women di John Ford – a Venezia è stato presentato l’omonimo film di Shirin Neshat, opera prima della nota artista e fotografa iraniana fresca vincitrice del Leone d’argento per la regia in Laguna.
Il film è ambientato nella Teheran della metà degli anni Cinquanta – un periodo di forte subbuglio politico – e racconta la lotta quotidiana di quattro donne tra loro diverse ma unite dal senso di frustrazione, di oppressione, di crescente insoddisfazione verso un destino caustrofobico. La loro vita diventa così la ricerca di una via di fuga – nel film idealizzata in un giardino (l’Eden?) – per scappare da abusi, umiliazioni e sofferenze, nel tentativo di trovare indipendenza e serenità, conforto e calore umano.
Una fotografia impeccabile, un’atmosfera sospesa tra sogni/incubi e realtà, Women without men è un film dal retrogusto triste, delicato ma emozionante, un grido sordo che diventa un inno alla libertà. Da vedere.
Coraggio, libertà e sberleffo a Palazzo Reale
Lo scorso week-end vagando alla ricerca di qualcosa di interessante da visitare al riparo dal caldo, mi sono trovato a passare davanti a Palazzo Reale e a notare, divertito, un centauro con le sembianze di Forattini. E’ infatti in corso a Milano (dal 3 luglio al 27 settembre 2009) una bella mostra a ingresso gratuito su Giorgio Forattini, storico vignettista che dagli anni Settenta rilegge a suo modo la scena – soprattutto quella politica – nazionale e internazionale. Sono un suo fan sin da bambino – in famiglia si leggeva Panorama – ed è grazie a lui, alle sue caricature e alle sue provocazioni che conservo un minimo di interesse per la politica nostrana (che, certo, di spunti per la satira ne regala parecchi, sob). Entrando, pensavo la mostra fosse la classica raccolta di schizzi su cornice e invece, con mia sorpresa, il percorso offre opere che, lasciata al carta, si animano diventando gigantografie e oggetti tridimensionali. Personalmente adoro l’antropoformizzazione (mamma che parolone) di alcuni personaggi quali “bruco” Veltroni, “ciappi” Ciampi, “topolino” Amato, capaci con pochi tratti di essere estremamente comunicativi. La rassegna mi ha anche permesso di riflettere sulla libertà di satira (vedi querela di D’Alema a Forattini con richiesta di risarcimento di tre miliardi delle vecchie lire, poi ritirata), sull’abilità/dovere di disegnare anche in momenti tragici, e, infine, sul fatto che alcuni vezzi del nostro paese si ripetano ciclicamente proprio come alcune vignette che mostrano personaggi diversi ma in situazioni molto molto simili tra loro. Un bel viaggio quello della mostra, grazie al quale rileggere, con il sorriso sulle labbra, gli ultimi 40 anni della nostra vita politica e sociale, raccontati da una delle matite più irreventi. Complimenti e lunga vita alla satira!