L’eterna lotta tra cigno nero e cigno bianco

Da tempo aspettavo la nuova pellicola di Darren Aronofsky, in assoluto uno dei registi che preferisco. E che, anche questa volta (dopo lo splendido The Wrestler), non ha deluso le mie attese di fan. Il Cigno Nero – questo il titolo del nuovo film da alcuni giorni anche nella sale italiane – è riuscito davvero molto bene. Una regia superlativa, un’attrice protagonista – Natalie Portman – in stato di grazia (bella quanto brava), una sceneggiatura avvincente, un sottofondo musicale che accompagna ogni scena, rendono il film uno dei candidati più accreditati per la vittoria ai prossimi Oscar.
La storia offre, come suggerisce il titolo, una rilettura in chiave moderna de Il lago dei Cigni di Cajkovskj: Nina Sayers, giovane e brillante ballerina, ambisce da anni alla ribalta di un ruolo importante che possa premiare i sacrifici della sua vita interamente dedicata al balletto. Finalmente arriva il suo momento anche se il ruolo assegnatole è molto impegnativo. Nina dovrà infatti interpretare contemporaneamente due ruoli: quello che più le è vicino del cigno bianco, una figura leggiadra, timida, candida come le proprie piume, e quello del cigno nero, il “lato oscuro della danza” per dirla alla George Lucas, un’anima torbida, impulsiva, egoista, provocante, ambiziosa e senza scrupoli. A rendere ancora più gravosa la sfida si aggiunge anche l’arrivo, nella campagnia di ballo, di una nuova ragazza che con i suoi modi incarna appieno il ruolo di alter-ego del cigno bianco. Proprio come ne Il Lago dei Cigni le ragazze si fronteggiano quasi fossero Odette e Odile, lottando per ottenere le grazie del principe Siegfried che nel film non è tanto il primo ballerino dell’opera quanto Thomas Leroy, il “direttore artistico” del New York City Ballet interpretato da Vincent Cassel.
Nella fragile mente di Nina, Odile non è solo una figura in carne e ossa (Lily, interpretata dalla sensuale Mila Kunis) ma anche (e forse soprattutto) un incubo che la perseguita: la paura di non essere “perfetta a sufficienza” per il ruolo tanto agognato diventa una minaccia che si palesa con uno stato di crescente agitazione che trasforma giorno dopo giorno la ragazza, in un crescendo di tensione che la porterà sempre più vicina al cigno nero e al suo fascino “distruttivo”.
Se The Wrestler continua ad essere il mio film preferito diretto da Aronosfky (tra l’altro, The Wrestler e Il Cigno Nero hanno un identico finale: il tripudio del pubblico, non dico altro) è solo perché, oltre ad entusiasmarmi, la pellicola con Mickey Rourke è riuscita anche a commuovermi. Il Cigno Nero resta comunque un film bellissimo capace di riproporre sul palcoscenico ma al contempo anche fuori dal palcoscenico la storia di uno dei più noti e acclamati balletti. Un’opera a metà strada tra dramma e thriller psicologico con tratti di horror che si merita appieno le cinque nomination per i quali è stato proposto agli Oscar 2011. Da non perdere.

B come Barcellona, B come Biutiful, B come Bardem

Alejandro Gonzalez Inarritu è uno dei miei registri preferiti, il suo modo di raccontare per immagini la vita e la morte mi ha sempre affascinato (in particolare 21 grammi è il suo film che preferisco). Da pochi giorni è di nuovo nei cinema nostrani con Biutiful opera per la quale Javier Bardem ha vinto la Palma d’oro di miglior attore protagonista.
Un film lungo – a tratti forse un po’ lentino – che racconta le vicende di un gruppo di individui accomunati da una vita (difficile) ai margini. In una Barcellona molto lontana dai festi di Vichy Cristina Barcellona, un gruppo di uomini e donne cerca di sopravvivere grazie a piccoli espedienti al limite della legalità. Ciò che accomuna i personaggi è un destino segnato nello stesso tempo dall’amore (tra genitore e figli, tra marito e moglie, tra amanti…) e dalla miseria di un’esistenza votata al sacrificio e amara di gioie (forse proprio per questo motivo il titolo del film è una storpiatura di termine inglese “bello”).
Mentre colonne di fumo si levano da enormi ciminiere – show must go on come cantava Freddy Mercury – la vita ai bordi della città si può semplificare in un dualismo sfruttatori-sfruttati che poco spazio lascia all’umanità.
In un consteso simile, il protagonista, Uxbal, dovrà ogni giorno dimostrarsi forte tanto da poter gestire il rapporto con i figli desiderosi di affetto e cure, con la propria fragile e volubile moglie, con “colleghi” di lavoro diversi e dalle esigenze spesso contrastanti e, infine, con il proprio corpo dalla “cagionevole salute”. Trovando non solo il modo di sbarcare il lunario ma che anche di grantire a sé stesso la pace che riesce, quando interpellato, a donare ai defunti.
Un film intenso, a volte crudo, contrassegnato dal classico “misticismo” di Inarritu che non può lasciare indifferenti.

Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni. Ma non vedrai il regista dei tuoi sogni.

Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, ultimo film di Woody Allen, mi ha lasciato perplesso. Forse, come riflettevo alcuni giorni fa, dovrei entrare nell’ordine di idee che ripetere film come Zelig è impresa improba. Ma l’ultima pellicola di Allen non mi ha lasciato nulla: il retrogusto amaro della comicità caustica di Woody ha lasciato il posto, nell’ultimo film, a una storiella ricca di luoghi comuni, poco divertente e povera di colpi di scena.
Nonostante il cast di primo livello – Anthony Hopkins, Naomi Watts, Antonio Banderas, Freida Pinto – l’opera risulta un mix scombussolato di storie parallele che si sviluppano a partire dal tris d’assi amore, attrazione, relazione di coppia.
I personaggi non risultano sino in fondo credibili, di loro viene mostrata solo la parte più superficiale quasi fossero “puro istinto” e forse, anche per questo, la trama non è riuscita a coinvolgermi come invece altri lavori di Allen hanno fatto.
Il film mi ha lasciato talmente indifferente che, una volta uscito dalla sala cinematografica, ho addirittura pensato che uno dei protagonisti, lo scrittore incapace di ripetere il successo del suo esordio letterario, fosse in fondo l’ater-ego del regista. Peccato, avrei avuto proprio bisogno di iniziare l’anno gustandomi l’umorismo cinico del regista di Brooklyn.

Away we go, Sam Mandes racconta la sua American Life

Ho iniziato il mio personalissimo “anno cinematografico” con American Life (o meglio, Away we go), il nuovo film di Sam Mandes, il regista diventato famoso per il suo esordio, il quasi omonimo American Beauty, pellicola che adoro e non mi stanco mai di rivedere (Kevin Spacey for president!).
La storia raccontata è quella di Burt e Verona, due ragazzi sulla trentina che si trovano ad affrontare, da soli, la nascita del loro primo figlio. Raccolte le poche cose che posseggono, intraprendono un viaggio attraverso l’America – con visita anche in Canada – alla ricerca di un tetto ma anche del modello di nucleo famigliare al quale fare riferimento. Nonostante le aspettative però, il percorso si trasforma quasi subito in una serie di disavventure che sconfortano i ragazzi e che minano le loro (poche) certezze: ogni nuovo incontro per Burt e Verona anzichè rassicurarli sembra rendere di volta in volta più irreale la loro idealizzata versione di famiglia e di rapporto genitori figli. Appena arrivati ed è già tempo di ripartire senza mai perdere però la fiducia nel legame straordinario che lega i due protagonisti.
Un film delicato, capace con la sua semplicità di commuovere (un po’ alla Juno tanto per fare un paragone), la storia di due ragazzi che, armati di sogni e buone intenzioni, viaggiano alla ricerca di prove concrete circa il loro progetto di famiglia. Il momento più tenero è, a mio modo di vedere, quando i due, nel giardino del fratello di lui, su uno di quei tappeti elastici che i bambini utilizzano per divertirsi saltando, recitano una serie di promesse, una sorta di “matrimio” ateo, una cerimonia intima che sancisce una volta di più il loro essere coppia. Regia, musiche e fotografia buone, sceneggiatura mai banale, American life è uno di quei film senza alcuna particolare pretesa che riesce a strappare un sorriso e una lacrima insieme. Consigliato per ritrovare il buon umore.

Anche per il Natale 2010 scelgo Lista dei desideri

Repetita iuvant, anche quest’anno, con l’avvicinarsi del Natale, lancio il mio messaggio alla Rete nel tentativo (speriamo non vano!) di sensibilizzare quante più persone possibile verso la scelta di regali utili. Un vaccino, un albero da frutta, un pallone, uno yak possono contribuire a proteggere il futuro di milioni di bambini in tutto il mondo, perché sprecare questa opportunità?

La Lista dei Desideri Save the Children rappresenta un fantastico modo per trasformare un regalo virtuale in un qualcosa di “concretamente” solidale. Ci sono regali per tutte le tasche, dai 10 agli oltre 1.000 euro: un’occasione per offrire servizi igienico-sanitari, antibiotici, vaccini, zanzariere e acqua potabile ai bambini di Etiopia, Mozambico e di tutti gli altri luoghi afflitti da povertà, conflitti, carestie o disastri naturali.

Complicato? Per nulla. Basta andare nel sito e, navigando nell’ampio assortimento di regali proposto, scegliere uno dei doni – io, per esempio, sono incerto se scegliere “cesto di cibo” o “kit medico” – ed effettuare online la donazione corrispondente. La persona cui si desidera offrire il regalo riceverà una cartolina (elettronica o cartacea con tanto di “certificato di donazione”) a testimonianza di un gesto che, destinato a finanziare uno dei progetti Save the Children, migliorerà l’educazione, l’assistenza sanitaria e quindi, in estrema sintesi, la vita di un bambino.

Ma non è tutto, c’è anche l’opzione lista regali: una volta creata una lista di doni all’interno della sezione Liste per ogni occasione viene assegnato un codice da comunicare ad amici e parenti perché contribuiscano in maniera attiva ad aiutare dei bambini, i più vulnerabili nelle situazioni di difficoltà.

Il sorriso di un bambino è a portata di click, cosa aspettiamo?

Mamma mia che musical

Lo confesso: quando ho avuto in mano i biglietti per Mamma mia! il nuovo musical in questi giorni al Teatro Nazionale, ero spaventato. Mi preoccupava l’idea di assistere a uno dei musical più acclamati a livello internazionale – andato in scena in più di 200 città e già visto da 40 milioni di persone – con le musiche degli ABBA tradotte in italiano. Temevo insomma che sull’onda del successo dell’omonimo film con Meryl Streep, si proponesse nel nostro paese la brutta copia di una commedia che, nonostante non avessi mai visto, mi ha sempre destato, se non altro per la simpatia che provo per il gruppo svedese, una notevole curiosità.
Sono felice di dire invece che la serata a teatro non è invece stata così traumatica, anzi. Certo, le musiche degli ABBA in versione originale rimangono inarrivabili, ma devo riconoscere che l’adattamento italiano risulta tutto sommato gradevole (complimenti a Stefano D’orazio dei Pooh e Alice Mistroni).
Il musical, si sa, bandisce i tempi morti e, generalmente, trascina lo spettatore con canti e balli: merito al cast tutto italiano che ha reso bene la storia facendo divertire me e il pubblico con coreografie sempre molto ben studiate. La storia vede come protagoniste Donna e Sophie, madre e figlia. Alla vigilia del matrimonio, la giovane Sophie, non conoscendo il padre, prepara, ad insaputa della madre, una sorta di “carrambata” invitando tre dei suoi amori giovanili nel tentativo di capire se tra loro si possa nascondere il genitore che da una vita spera di conoscere. E così il matrimonio si trasforma in una sorta di rimpatriata scandita dal tempo che inesorabilmente passa, dall’amore – passato e presente – e della nostalgia.
Una serata particolare, leggera, allegra e coinvolgente (alla fine non si può non applaudire e lasciarsi trascinare dalle note di Dancing Queen), un sentito ringraziamento a Glamour per avermi dato la possibilità di assistere in anteprima allo spettacolo.

Da qualche parte tra finzione e realtà

Somewhere di Sofia Coppola è un film che, almeno secondo il mio punto di vista, ha molto di autobiografico. Al centro della pellicola infatti c’è il rapporto tra un padre, divo del cinema, e la figlia undicenne. Una relazione particolare la loro: pur non vedendosi spesso dimostrano una notevole affinità che sottende un forte affetto nonostante la distanza che li separa per gran parte dell’anno. Ma è l’inzio dell’estate, la stagione perfetta per sognare un futuro insieme lontani dai problemi. Il film, come del resto già visto nel bellissimo Lost in traslation, gioca soprattutto sulle vite antitetiche dei due personaggi principali: Johnny Marco, attore rubacuori chiuso nella sua gabbia dorata di Los Angeles, e la figlia Cleo, icona dell’innocenza e dei più giusti sentimenti. E’ da questo loro non preventivato confronto che nasce la cornice poetica nella quale, su uno sfondo “edipico”, si dipana la vicenza narrata da Sofia Coppola con la consueta delicatezza poetica. A tratti sembra quasi di vedere in Johnny il volto di Peter Pan tanto la sua vita appare sregolata, ricca di vizi e persone ma in fondo solitaria e priva di felicità. Cleo quindi, non solo rappresenta il bene, la purezza e l’incanto della gioventù, ma diventa anche lo specchio nel quale il padre realizza il suo malessere e il suo vivere “somewhere” in un luogo indefinito sospeso tra la realtà e la finzione del cinema, un posto deserto e malinconico.
Il film – Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia – nel suo complesso mi è piaciuto, anche se lo considero uno scalino più sotto di Lost in traslation, forse in virtù di un’eccessiva lentezza in alcuni tratti (anche le scene in Italia non mi hanno esaltato…). Una menzione particolare la merita Elle Fanning, di una bellezza e di una dolcezza che non possono lasciare indifferenti.

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo è un libro di Audrey Niffengger che ha saputo, con il suo titolo, attirare da subito la mia attenzione. Protagonista del libro è Henry, uomo che, in virtù di un “disturbo” sconosciuto, si differenzia dalla normalità delle persone per la propria capacità di viaggiare nel tempo, di lasciare per alcuni minuti la realtà nella quale vive per catapultarsi in un tempo, sempre a lui legato, ma che rappresenta il passato o futuro di quella che è stata o sarà la sua vita. Di solito in questo suo giocare con le lancette dell’orologio resta un puro spettatore nascosto a osservare le prospettive di fatti già vissuti o succose anteprime circa avvenimenti che lo vedranno coinvolto con il passare del tempo. In uno dei viaggi Henry però si ritrova, senza vestiti – questo uno dei punti dolenti delle sue perenigrazioni lungo l’asse temporale – nel prato della casa di una giovanissima Clare: lei ha sei anni, lui trentasei, iniziano a parlare e, vinte le reciproche paure, cominciano ad instaurare quel rapporto di complicità che poi diventerà concreto quandi i due, entrambi ventenni, si incontranno in una biblioteca. I viaggi tuttavia non finiranno. E con loro non si esauriranno nemmeno le difficoltà, i timori e i mille interrogativi connessi ad un’esistenza sempre in sospeso tra passato, presente e futuro. Una vita che quindi diventa ancora di più tante vite, ognuna con il proprio fardello, la malinconia e al contempo la rabbia per non aver poter fermare il tempo una volta per tutte. Con una persona abituata a vivere non solo nel presente, a non avere certezze se non l’incertezza e l’instabilità della propria persona si può porre in essere un rapporto costruttivo? Il libro parla proprio di questa sfida, del modo diverso ma in fondo unito da un comune sentimento, di (soprav)vivere le tante vite di Henry, i suoi viaggi nel tempo e la sua incapacità di essere solo “ora”, raccontando contemporanemente i sentimenti e le riflessioni di chi si trova a vivere in prima persona l’esperienza del viaggio nel tempo e di chi invece non può che assistere inerme al continuo apparire e scomparire di colui con il quale si è deciso di vivere.
Il libro – come ho potuto notare su aNobii – riesce perfettamente nell’intento di dividere il pubblico di lettori: da una parte chi si lascia trasportare trovando il romanzo di assoluto rilievo, dall’altro chi invece sottolinea come la storia sia troppo melensa e irreale. Tra queste due opposte visioni mi pongo nel mezzo: il testo è di piacevole lettura e grossomodo scorrevole. Bello anche il continuo racconto in doppia prospettiva Henry-Clare. Ma in effetti forse sul finale la storia corre molto, tante cose rimangono in sospeso altre invece si euriscono senza una spiegazione che giustifichi appieno l’accaduto. Ma il mistero va da sé in trame del genere non può essere ignorato.

p.s.= Nel 2009 è stato realizzato un adattamento cinematografico del romanzo, diretto da Robert Schwentke, intitolato Un amore all’improvviso

INQ Social Mobile, la saga continua

Dopo aver provato INQ1, 3italia mi ha dato l’opportunità di testare il nuovo INQ CHAT 3G (ancora mille grazie!). Una volta aperta la confezione – sempre molto originale – mi trovo davanti gli occhi un cellulare molto diverso da quello della versione precedente, differente nelle dimensioni e nella struttura (INQ CHAT 3G ricorda, come forme, un Blackberry 9000 Bold e un Nokia E71). Le prime cose che noto sono il tasto “selezione” centrale a forma di Q, il tasto “.com” in fondo a destra (che personalmente non trovo utilissimo e che avrei sostituito utilizzando quel pulsante come scorciatoia per la casella vocale il cui accesso non risulta proprio intuitivo) e due strani pulsati laterali (quello dell’accesione e il tasto chiama) sistemati in maniera verticale anzichè nella classica disposizione orizzontale. Il cellulare è leggero e proprio per evitare di romperlo subito, per capire come si apra la parte posteriore dove poter inserire batteria e scheda, impego alcuni minuti in cerca di un tasto che possa aiutarmi nella mia missione, salvo poi scoprire che basta una leggera pressione del palmo per far scorrere verso l’alto il retro del cellulare.
Noto con piacere che il trasformatore prevede la possibilità di ricare la batteria non solo nella classica presa ma anche via usb. Lascio carica il telefonino e appena posso lo accendo. Il caricamento non è proprio immediato ma lo schermo iniziale è molto colorato e le funzioni principali di INQ Chat 3G si intuiscono all’istante. Come per INQ1 anche in questo vengo subito attirato dai widget così vado su strumenti e imposto nella schermata facebook, twitter e google search. Premendo il tasto switcher scorro rapidamente tra le applicazioni principali dell’INQ CHAT 3G, modalità comoda per tenere sempre sotto controllo i widget. I servizi di Internet ci sono tutti: dai già citati facebook e twitter a skype, windows live messanger, il browser (chiamato INQ HUB) e il gestore di feed rss con il quale tenersi aggiornati sui contenuti più recenti pubblicati dai propri siti preferiti. C’è anche la funzione e-mail che consente di leggere (quasi) ovunque i messaggi della propria casella di posta elettronica (per account gmail le mail vengono segnalate appena arrivano nella inbox, per gli altri provider, invece, il controllo è a intervalli regolari).
Anche la rubrica è web 2.0: è infatti possibile importare gli amici di facebook e di skype e fare in modo, che utilizzando la funzione “unire contatti”, i loro dettagli siano sincronizzati con i profili facebook, skype e windows live messanger. In questo modo, scorrendo l’agenda, all’istante si può scoprire quali contatti sono online e magari comunicare in tempo reale.
L’INQ CHAT è dotato di tastiera è QWERTY, bluetooth, fotocamera 3.2 mega pixel, si può utilizzare come modem per un lapatop e, grazie a DoubleTwist (iTunes for Android secondo TechCrunch), può diventare il player della nostra musica preferita.
Un cellulare che ben si adatta alle esigenze di chi cerca uno social-telefonino semplice, essenziale, intuitivo e soprattutto conveniente. Smart phones for all!

Il Design Week si tinge di rosso Campari Soda

Tra le location più originali del Salone del Mobile appena terminato, un posto di assoluto rilievo spetta sicuramente al Camparitivo in Triennale, lo spazio pensato e progettato Matteo Ragni – che, dallo scorso anno, collabora con Campari – tramite il quale l’architetto ha voluto ripensare usi e costumi legati all’aperitivo.

La location in questione, per gli appassionati di design ma non solo, è una sorpresa continua. Tra i tanti arredi originali si possono ammirare: Fortunata, la lampada che Matteo Ragni ha disegnato giocando con i triangoli con i quali Depero, nell’ormai lontano 1932, inventò la formula stilistica del Campari Soda; Camparina, la sedia modellata per assecondare le esigenze sia del cliente (che pur seduto può muoversi con la massima libertà) che del barista (che può impilare le sedie senza alcuna fatica); il bancone del bar con dei riflessi “digitali”, la parte centrale del tavolino che ruota in stile “nastro trasportatore di sushi” per meglio condividere bevande e stuzzichini; gli specchi che ricoprono le colonne e che riflettono il verde del Parco Sempione e gli ospiti del bar; bottigliette di Campari Soda che, una volta svuotate, diventano parte di originali bicchiere con i quali sorseggiare l’aperitivo, stringendo tra le mani un pezzo di storia del design; l’enorme “lampadario” all’ingresso che, giocando sul concetto di pianeta rosso, richiama contemporaneamente Marte e Campari Soda.

Dulcis in fundo Futuro Meraviglioso, dieci porte – visibili da dieci “telescopi” la cui forma richiama ancora una volta quella della bottiglia pensata da Depero – che proiettano Campari nel futuro, nel 2160, giocando così con la ricorrenza dei 150 anni che l’azienda festeggia proprio quest’anno.

Scoprire questo particolare angolo di Milano con le parole dello stesso Matteo Ragni in qualità di Cicerone è stata davvero un’esperienza suggestiva, un sentito ringraziamento a Campari che ha voluto coinvolgere alcuni blogger – tra i quali il sottoscritto – nella preview del giorno precedente l’inizio ufficiale del Salone del Mobile 2010 (fantastico anche “telescopio da meditazione” che è stato offerto come gadget, uno strumento “per guadare lontano, dentro se stessi”).

Termianato il Salone resta sempre un po’ di nostalgia per la fine di una settimana che rende Milano un’eclettica capitale europea, un crogiuolo di lingue e volti di nazionalità differenti. Quest’anno però, a rendere meno “doloroso” il concludersi degli eventi legati al Fuorisalone, si potrà per fortuna contare sul Camparitivo in Triennale che rimarrà attivo per tutta la stagione estiva.

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