Interno Rosso, una sitcom in casa Ducati

La scorsa settimana ha avuto il piacere di essere sul set di Interno Rosso, la fiction nata per il web dalla collaborazione tra Ducati e Tim. Un’emozione davvero grande: vuoi perchè la sede è proprio quella di Borgo Panigale, storica roccaforte Ducati (con tanto di museo che anche se di fretta sono riuscito a visitare), vuoi perchè mi sono sentito come dentro Boris, fianco a fianco ad attori, tecnici della luce, dell’audio, del regista, dello sceneggiatore, della ragazza del trucco. Vivendo non solo il momento sucessivo al ciak ma anche tutte quelle operazioni che poi consentono di far partire le riprese, dal buffet alla revisione sul set del copione (ho tentato di fare una cronaca su twitter della giornata utilizzando #internorosso ma sul set il cellulare non era permesso).

Dopo la pausa pranzo, prima dell’inizio delle riprese, ho strappato anche una piaccola intervista…

Mi chiamo Angelo Camba, sono il regista di Interno Rosso la sitcom a camera fissa fatta di sketch che ha per protagonisti due meccanici burloni, cognati, che lavorano nelle ufficine Ducati e che fanno dei pasticci tutto il giorno. Uno – Bob – sogna di essere uno dei meccanici della squadra corse e l’altro – Marco – lo riporta, invece, sempre con i piedi per terra.

Interno Rosso nasce all’interno di un programma di sponsorizzazione della Ducati da parte di Telecom ed ha l’obiettivo di raccontare in chiave ironica il mondo di casa Borgo Panigale. Nonostante il momento non brillantissimo del reparto corse, la casa motociclistica vuole comuque tenere alto l’umore dei propri fan.

I video vengono pubblicati su tutti i canali social di Tim con una buona risposta di pubblico anche se non ancora di “massa” ma legata soprattutto agli appassionati di moto in generale e a ducatisti in particolare.

…e ho “rubato” anche un brevissima anteprima del nuovo episosio 8…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=dNjVr2M_zm0&w=440&h=390]

Un ringraziamento a tutto lo staff di professionisti (nonostante si rida spesso sul set, il lavoro è realizzato con estrema cura e dedizione) che ho incontrato, gentilissimo e disponibile anche quando forse sono stato un po’ di intrancio. E a Ducati e Tim per l’ospitalità.

Un grossissimo in bocca al lupo al progetto, non posso che attendere con trepidazione la messa online dei nuoi capitoli (un saluto anche ai miei compagni di ventura sportzoo e npmagazine).

 

Altra riflessione sulla teoria dei mille veri fan…

In occasione del Social Business Forum, nella sessione pomeridiana, è continuato un interessantissimo confronto iniziato dalla riflessione di minimarketing che, alla vigilia dell’incontro, si chiedeva se non fosse ancora valida la teoria secondo la quale sono sufficienti 1.000 fan “veri” piuttosto che cifre enormi di utenti inerti-inutili-indifferenti e se quindi la metrica “delle masse di spettatori” non venisse in qualche modo superata negli ambienti sociali a rete (spero di aver colto nel segno, ecco comunque qui il link dal quale leggere per intero il post di Gianluca).

Al Social Business Forum ero solo spettatore ma tenterò comunque di dare una mia risposta. E lo farò basandomi su due ricerche che ho recentemente letto che ben riassumono l’idea che in questi anni mi sono fatto.
Partiamo dal presupposto che avere 1000 fan tutti pronti a “fare qualcosa per noi” è indubbiamente un traguardo più che considerevole. Ma a mio modo di vedere per avere quella cifra di fan attivi occorre averne in realtà molto di più. Perchè? Perchè, banalmente, gli utenti non hanno tutti la stessa modalità di fruizione dei contenuti e perchè non tutti per dimostrare il loro interesse verso un contenuto interagiscono. E’ in qualche modo fisiologico che vi siano utenti attivi, meno attivi, per nulla attivi.

E qui mi viene in aiuto uno studio recentemente pubblicato dal WOMMA:

There is a 100/10/1 “rule of thumb” with socail services. 1% will create content, 10% will engage with it, and 100% will consume it” Fred Wilson

Ora, tralasciando per un attimo le percentuali, il concetto che mi sembra interessante è quello che la stragrande maggioranza di persone normalmente non partecipa attivamente alle conversazioni ma si limita a osservarle. Anche perchè ci sono strumenti – Twitter e Tumblr su tutti – che rendono possibile la fruizione dei contenuti senze necessità di log-in.
Quindi, in sostanza, se la teoria di sopra dovesse essere esatta, dati 1.000 fan che con un brand interagiscono, quelli totali dovrebbero essere 10.000 (una semplice proporzione: 100*1000/10).

Altra ricerca, stavolta decisamente più bizzarra ma che comunque può servire come spunto di riflessione. Una società chiamata Hitwise ha recentemente pubblicato uno studio in base al quale 1 fan di Facebook corrisponda a 20 visite addizionali al sito del brand:

The figure of 1 fan = 20 extra visits to a website uses a unique methodology that combines Hitwise data with data from social media experts Techlightenment. We took the top 100 retailers ranked in the Hitwise Shopping and Classifieds category and benchmarked visits to those website against the number of fans those brands had on their Facebook page. We then also looked at the propensity for people to search for those retail brands after a visit to Facebook using our Search Sequence tool…

Mi rendo conto di come la teoria, pur basata su “osservazioni empiriche” sia forse difficile da sostere ma anche in questo caso il punto focale mi pare un altro: e se anche i fan “latenti” (o almeno parte di essi) avessero una loro importanza strategica al di fuori del mondo social? Penso alla mia esperienza. Su facebook seguo pochi band e alcune celebrità. Una di queste è Kevin Spacey. In questa pagina, lo ammetto, sono all’apparenza forse “inutile” come direbbe Gianluca: non commento, non metto like, non faccio lo share. Ma leggo. E se qualcosa mi interessa – la partecipazione a un nuovo film o a una nuova opera teatrale – magari cerco di approfondire. E alle volte lo faccio fuori da facebook che mi serve solo come “spunto”.

I social media si basano su persone, su rapporti anche se virtuali. Ma come nella vita “reale” ognuno ha una propria inclinazione: chi sarà più propenso a proporre contenuti, chi a commentarli, chi a controbattere, chi semplicemente ad ascoltare. Anche perchè non si tratta di posizioni “assolute”: un “vero fan” dopo un disguido potrebbe oscurasi. O peggio smettere di essere fan. Così come un utente “passivo” potrebbe di colpo svegliarsi interagendo in maniera continuativa.

Concludo: il vero problema non è a mio parere il numero di fan (più alto il numero di fan, più alto il numero di “veri fan”, no?) che sicuramente non deve essere il solo e unico metro di giudizio. Occorre comprendere piuttosto quanto sia importante lavorare sul cosiddetto interaction rate e quanto possa essere proficuo impegnarsi perchè il rapporto utenti/utenti attivi sia sempre migliore. E’ lo scambio – a più livelli – che rende costruttive le conversazioni. La provocazione ci sta ma non mi scaglierei contro il miraggio dei milioni di fan. Brand come adidas, Vodafone, o Kia non possono accontentarsi di 1000 fan “veri”. Devono puntare a numeri ben più grandi mettendosi in gioco e utilizzando gli strumenti per fare in modo che tutti partecipino attivamente. Con un unico obiettivo: che tutti i consumatori diventino “veri fan”.

Aperol, prosecco, soda. E un po’ di sociologia.

Lo scorso mercoledì ho partecipato a uno spritz party particolare per almeno due motivi. In primo luogo perchè ho potuto assaporare il nuovo Aperol Spritz Home Edition, l’ormai nota bottiglietta arancione (con tappo “easy open” facilissima da aprire) dal contenuto perfettamente dosato – 3 parti di Prosecco D.O.C., 2 parti di Aperol, 1 spruzzo di seltz – per assoporare il momento dello spritz anche tra le mura domestiche.
In seconda istanza perchè nell’occasione è stata presentata un’interessante ricerca che ha puntato i riflettori proprio sulla casa come nuova piazza cittadina. Lo studio – condotto da Francesco Morace di Future Concept Lab – analizzando usi e costumi, passioni e modi di interagire, ha individuato dodici profili, tre delle quali in perfetta sintonia con il nuovo prodotto Campari.
I Linkers, gli Unique Sons e le Sense Girls: tre “idealtipi” differenti per età e attitudini accomunati però dal considerare la casa come spazio per condivedere un’esperienza conviviale con un prodotto semplice, pratico e alla moda come quello dell’aperitivo Aperol.
Più che da apprezzare quindi lo sforzo del brand per capire quali siano i cambiamenti in atto dal punto di vista “sociologico”, quali possano essere le caratteristiche del target di riferimento per un prodotto come lo Spritz home edition e quindi in che modo lo si possa coinvolgere. Perchè, come ha ricordato Morace, “la costruzione dell’identità segue lo sviluppo sociale”, capire – partendo anche dall’analisi del rapporto degli individui con cibi e bevande – come con le nuove tecnologie stanno cambiando il mondo che ci circonda, significa in ultima analisi comprendere meglio come noi stessi stiamo “evolvendo”. Alla salute!

Social Network di Marco Massarotto

I social media, nel mio caso, non rappresentano solo motivo di svago, sono parte integrante del mio lavoro. Da quando ho iniziato ad affacciarmi a quella porzione di mondo allora chiamata web 2.0 più di tre anno orsono, moltissime cose sono cambiate. Da allora si sono imposti strumenti quali twitter, facebook e foursquare – giusto per citare alcuni – che nel giro di un arco temporale brevissimo hanno attirato l’attenzione di milioni di utenti e al contempo quella dei brand, desiderosi di sperimentare nuovi canali e nuove modalità comunicative. Ma se alcuni tool possono sembrare di semplicissimo utilizzo, non risulta certo immediato costruire e comunicare identità nelle Rete. Ecco perchè un libro come Social Network di Marco Massarotto (che ringrazio ancora una volta per avermi fornito una copia del testo) non può che essere una lettura consigliata. Dalla storia alla scenario attuale, dagli strumenti alla strategie, il testo raccoglie spunti molto interessanti analizzati in maniera sintetica (abbondano gli elenchi puntati) e con richiami a casi concreti che facilitano la comprensione anche ai non adetti ai lavori. Un sunto di un mondo, quello dei social network, in costante evoluzione ma che tuttavia viene raccontato – anche grazie a un’impaginazione semplice quanto efficace – in maniera puntuale con segnalazioni, note e suggerimenti su eventuali risorse adatte ad approfondire una determinata tematica (io, per esempio, ho trovato molto interessante la parte delle social media policy, una questione che non avevo mai avuto modo di approfondire). Il web è un media “giovane” che, per guadagnare consensi (soprattutto in termini di investimenti pubblicitari), ha bisogno anche di riflessioni come il quella di Marco, buona lettura.

The Tree of Life, un’anima persa nel mondo moderno

The Tree of Life di Terence Mallick non è il solito film. E’ un’opera di visioni che si alternanto sullo schermo come nella mente del protagonista – l’adulto Jack (interpretato da Sean Penn) – che rivive i primi anni della sua vita con la famiglia in Texas.

Immerso nella sua vita lavorativa, circondato da grattacieli e rinchiuso in spazi artificiali, Jack affoga nei propri ricordi alla ricerca del senso della vita: la famiglia, la scuola, gli amici, i giochi, la prima cotta, il desiderio di autonomia, il conflitto con i genitori, insomma la scoperta di un mondo che via via si è dipanato davanti ai suoi occhi.

Un mondo nel quale esistono due opposti che si intrecciano: la madre che con affetto lo educa alla grazia e all’apprezzamento di tutto ciò che lo circonda e il padre che invece, severo e iperprotettivo, gli intima di non lasciarsi mai mettere sotto e di badare solo ai propri sogni e alle proprie ambizioni.

Perso nel tentativo di capire quale possa essere la strada da intraprendere, Jack viaggia con la mente (“the life journey through the innocence of chilhood to the disillusioned adult years” come recita la sinossi) ricostruendo la propria esistenza grazie a tante piccole videocartoline che si susseguono senza un ordine ben preciso alternando natura e spazio, passato e presente, realtà e immaginazione. Le onde del mare, un’eclisse, il volo di una farfalla, il vento tra le fronde degli alberi, la smorfia di un neonato, una cascata, le ombre di bambini che giocano, il riflesso della luce.

A tratti sembra una sorta di inno, un appello spirituale a vivere la propria vita amando (perchè solo nell’amore troverà compimento e non finirà in un baleno) e nella consapevolezza che il senso di tutto sarà chiaro solo alla fine del nostro “viaggio”.

La pellicola, fresca vincitrice della Palma d’oro a Cannes, è in realtà un vecchio progetto del quale da anni si vociferava l’uscita (di volta in volta associato ad interpreti diversi) che oggi, arrivato finalmente nella sale, ho diviso pubblico e critica.

Nel complesso forse eccessivamente prolisso ma di notevole impatto visivo, il film di Mallick ha saputo emozionarmi proprio in virtù della sua non linearità, del suo narrare quasi esclusivamente tramite (bellissime) immagini quasi il regista stesso – come noi in sala – non fosse altro che uno spettatore di quello che, malgrado aspetti talvolta negativi, resta il grande spettacolo della vita.

Maurizio Crozza in Italialand

“Perché andare sino a Disneyland?”: questa la domanda che apre Italialand il nuovo spettacolo teatrale di Maurizio Crozza, ieri al Teatro Nazionale (e stasera in prima serata su La7).

Una riflessione sull’Italia di oggi, sulla nostra classe politica e quindi in definitiva su noi stessi, sul nostro atteggiamento nei confronti dei vizi e caratterizzazioni di chi ci rappresenta (o almeno in teoria dovrebbe farlo).

La prima parte dello spettacolo non è altro che una serie di ironiche considerazioni sulla stretta attualità, in parte riprese dagli sketch con i quali Crozza apre le puntate di Ballarò: da “Pigiapia” a Gasparri, da Berlusconi a Scilipoti.

La seconda parte è invece una carrellata di irresistibili imitazioni che vedono Crozza destreggiarsi con parrucche e travestimenti: dal cavallo di battaglia Bersani (“siampazzi?”) alle new entry Marchionne, da Giacobbo con il suo Kazzinger a Napolitano, da Marzullo a Matteo Renzi, tutti rivisti con un’incredibile capacità di farne risaltare i tratti comici e una impareggiabile disinvoltura nel passare da un personaggio a un altro del quale vengono proposte la postura, i tick, l’accento e le espressioni celebri.

Ma Italialand non è uno spettacolo “statico” ma uno di quelli nei quali anche il pubblico partecipa cantando o accompagnando con le mani le performance di Crozza (che dimostra una voce da tenore!).

Insomma una serata trascorsa all’insegna delle risate e del divertimento. Anche se poi, lo ammetto, sulle note di Bella Ciao che chiudono lo spettacolo (o meglio il “bis”), affiora un po’ di malinconia per una parentesi chiusa troppo in fretta.

PUMA, da Social a Social on Tour


Sono un appassionato di sneaker, le scarpette nate come sportive ma oggi diventate parte integrante di un abbigliamento casual.

Nel mio immaginario, tra le incone delle calzature dalla suola di gomma, ci sono sicuramente le PUMA SUEDE nate nel lontano 1971 come alternativa in pelle alla scarpetta indossata da uno dei “play” più forti nella storia dell’NBA, Walt Frazier (soprannominato anche Clyde per il suo modo di portare il cappello).

Adoro le SUEDE anche perchè, pur essendo dei veri e propri must per chi ama un certo tipo di vestiario (e mi verrebbe da dire anche di way of life), nel corso del tempo hanno saputo rinnovarsi senza mai perdere l’originalità del loro stile.

Per rendersene conto basta dare un’occhiata al sito PUMA Online Shop nel quale scoprire un sacco di accattivanti colorazioni. A me personalmente, per esempio, piace molto la nuova combinazione grigia con banda nera, sportiva ma a suo modo anche elegante (limestone grey-black-white-team gold il nome specifico).

Ma è in generale il brand PUMA per intero ad essere entrato in una sorta di vortice “creativo” che ha portato al lancio di un bellissimo progetto: PUMA SOCIAL.

E’ una sorta di community che riunisce tutti gli “atleti della notte”, quelli che finito di studire o di lavorare, si liberano degli abiti formali e si sfidano a biliardo, ping pong, freccette, bowling o karaoke. Un’idea diversa di sport, più democratica e che non si prende sul serio sino in fondo.

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Finalmente la mia attesa di fan PUMA è stata premiata: PUMA SOCIAL da fine a marzo è infatti diventata una serie di eventi che in maniera itinerante gireranno l’Italia da Sud a Nord alla ricerca degli atleti dell’afterhour.

Il meccanismo degli eventi è semplice e organizzato in tre step:

–       step uno, POMERIGGIO ALLO STORE: di fronte al negozio un pickup truck coinvolgerà i passanti con giochi e distribuzione di gadget e flayer-inviti per la serata;

–       step due, APERTIVO TIME: il pickup track si sposta nelle zone degli aperitivi continuando il recruiting degli after hours athlete.

–       step tre, LATE EVENING: in uno dei locali più cool della città si festeggia insieme il PUMA SOCIAL CLUB tra regali, sfide, foto e dj set.

Ecco alcune delle date ad oggi in calendario:

8 APRILE, ore 15/19 POMERIGGIO ALLO STORE al KIDULTS di Torino;

8 APRILE, dalle 22.30 party PUMA SOCIAL CLUB a LA DROGHERIA di Torino;

22 APRILE, ore 15/19 POMERIGGIO ALLO STORE al LONDON di Napoli;

22 APRILE, dalle 22.30 party PUMA SOCIAL CLUB a MIAMI ROOM di Napoli;

6 MAGGIO, ore 15/19 POMERIGGIO ALLO STORE allo SCOUT du Vicenza;

6 MAGGIO, dalle 22.30 party PUMA SOCIAL CLUB all’OVOSODO di Vicenza;

14 MAGGIO, ore 15/19 POMERIGGIO ALLO STORE al PEACOCK di Bologna;

14 MAGGIO, dalle 22.30 party PUMA SOCIAL al LAB 16 di Bologna.

Farò di tutto per non perdere l’appuntamento di Vicenza per tentare così di accappararmi la divisa che mi “spetta” in qualità di PUMA addicted e atleta della notte: il braccialetto per ricevere la t-shirt personalizzata in esclusiva deve essere mio!

Complimenti a PUMA per questa iniziativa davvero molto carina e in assoluta sintonia con il brand e con quello che, almeno per il sottoscritto, rappresenta.

Per tutte le altre info, non resta che visitare PUMA SOCIAL o @ la pagina facebook dalla quale ho “rubato” le foto relative ai primi eventi “nostrani” (speriamo il tour arrivi prima o poi anche a Milano!).

Articolo sponsorizzato

Telethon, da vent’anni contro le malattie genetiche

Sono sempre contento nel blog di poter dire la mia su film, libri o qualsiasi cosa altra cosa mi appassioni. Ma sono ancora più felice quando qualcuno pensa al mio spazio come cassa di risonanza per sensibilizzare il pubblico della Rete circa nuove iniziative. Soprattutto se davvero costruttive.
Oggi parlo di Telethon associazione che dal 1990, in Italia, finanzia e promuove ricerca scientifica eccellente sulla distrofia muscolare e le altre malattie genetiche (il termine telethon nasce nel 1966 come contrazione tra television e marathon, vocabolo utilizzato da Jerry Lewis con il fine di raccogliere fondi).

In genere le malattie genetiche, avendo un’incidenza (per fortuna!) non così diffusa (si calcola che in Italia circa l’1% della popolazione sia affetto da malattie neuromuscolari), vengono trascurate dai grandi investimenti pubblici e privati che finanziano soprattutto la ricerca legata a patologie che colpiscono molti individui.
Ma la ricerca anche se relativa a campi apparentemente “minoritari” può aiutare a comprendere anche i meccanismi che regolano le malattie più diffuse (e tutti sappiamo quanto bisogno abbia il nostro Paese di fondi per la ricerca).
E tra l’altro, nonostante i progressi fatti, ad oggi non è stata ancora messa a punto una terapia definitiva. Molte sono le speranze che ruotano attorno alla terapia genetica con la quale, per dirla in parole povere, tentare di correggere geni difettosi introducendo nel corpo del paziente copie “sane”.

Sotto il termine distrofia muscolare, ad esempio, si raccolgono un gruppo di malattie a carattere degenerativo che causano la progressiva atrofia della muscolatura scheletrica. E purtroppo spesso queste malattie colpiscono anche i bambini.

Un esempio è quello dei piccoli noti come “bambini bolla”, colpiti da una gravissima forma di immunodeficienza che li costringeva a vivere dentro “bolle” sterili ma curati – ad oggi sono 14 i piccoli pazienti – con successo grazie al supporto di Telethon.

Continuiamo a credere nella ricerca e nei progetti Telethon. Aiutiamo la ricerca per aiutare noi stessi: regaliamoci un mondo migliore e ogni anno più forte nei confronti delle malattie genetiche debilitanti (visto che ci sono segnalo anche la pagina facebook tramite la quale seguire i vari aggiornamenti con estrema facilità).

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=-3iZPrTto9I&w=425&h=349]

La favola del re balbuziente

Dopo il trionfo (in parte inaspettato) agli Oscar, non ho potuto esimermi dal vedere il tanto acclamato Il discorso del re. E sinceramene non mi ha colpito particolarmente. Un film carino, a tratti simpatico, ben recitato dall’attore protagonista Colin Firth (che infatti si è aggiudicato la statuetta come migliore attore).
Ma non mi ha lasciato molto alla fine: la sceneggiatura, molto semplice, non è riuscita a trascinarmi e, a tratti, mi è parsa lenta e scontata. L’idea di un sovrano “imperfetto”come ognuno dei propri sudditi (e in questo molto “democratico”, alcuni osservatori suggeriscono che anche per questo motivo, sull’onda di quanto sta accadendo nel Nord Africa, forse si è voluto premiare il film per regalare al mondo un messaggio di speranza) è stata sviluppata, a mio modo di vedere, solo in maniera superficiale e per nulla corale.

Alcuni giorni dopo aver visto il film al cinema mi è tornato alla mente un altro film inglese, The Queen – La Regina datato 2006, che mi pare avere più di un’analogia con la pellicola di Tom Hopper.

Pur presentando dei monarchi praticamente agli antipodi i due film sembrano in qualche modo legati: se ne Il discorso del re la sofferenza è causata da una forma debilitante di balbuzie, in The Queen, la difficoltà di parola è dovuta alla prematura morte di un parente scomodo probabilmente mai accettato in famiglia sino in fondo. In entrambi i casi il popolo è allo stesso tempo un “test” da superare e uno “specchio” in base al quale valutare il proprio indice di gradimento. Ma mentre il logopedista Logue riesce nell’intento di far “maturare” il futuro Re Giorgio VI d’Inghilterra, il povero Tony Blair convincerà con estrema fatica la regina Elisabetta II a esprimere pubblicamente il cordoglio per la morte della Principessa Diana.

Insomma se entrambe le pellicole si focalizzano sull’istituzionalità del conservatorismo regale, paradossalmente esce dal confronto vincitore il monarca più lontano dai nostri giorni.

Concludendo: il film è piacevole ma leggerino e a mio modo di vedere complessivamente non all’altezza dei “rivali” alla corsa dell’Oscar The Social Network, Inception e Il Cigno Nero. Nonostante la vittoria finale.

Tornassi indietro mi piacerebbe vedere il film in lingua originale per apprezzare ancora di più gli attori protagonisti e le loro inflessioni.

Foursquare atto terzo

In questi ultimi giorni ho seguito con estrema (eccessiva?) curiosità gli sviluppi della nuova versione di foursquare, uno dei social network che utilizzo di più.

L’idea che si passasse da una versione 2.3x a 3.0 già faceva intuire una notevole mole di cambiamenti. Finalmente ieri ho effettuato il tanto atteso download.

Le novità si possono sintetizzare in quattro punti:

1. La sezione “Esplora” mostra un menu veloce con il quale scegliere velocemente diverse “directory” con le quali sono organizzati i vari “place” (cibi, caffè, vita notturna, negozi, arte e divertimento). Scegliendo “cibi”, foursquare visualizzerà diverse sottocategorie in base alle proprie preferenze (per quanto mi riguarda, ad esempio, leggo: italian, pizza, japanese, sushi, ice cream);

2. Rimanendo nella sezione “Esplora” sotto il menu rapido compaiono le “raccomandazioni” dei nostri amici e dell’intera community dei luoghi attorno ai quali ci troviamo (dei “place” visitati da noi, dai nostri amici o semplicemente “popular on foursquare”). Lettura molto più semplice e spazio sempre più rilevante al “passaparola”;

3. Spazio maggiore agli “Specials Nearby”, le promozioni legate ai check-in con maggiore possibilità di azioni di loyalty per i “sindaci” dei vari locali, negozi (sconti, free drink, offerte speciali…);

4. Rinnovata anche la sezione legata al proprio profilo. Oltre al numero di check-in, ai badge e alle mayorship ora c’è anche una barra che mostra i “punti” degli ultimi 7 giorni (c’è anche un goal fissato a 50, chissà a cosa è legato!), la classifica di punti della settimana, categorie più esplorate e “primi posti”, numero di consigli pubblicati. Maggior spazio quindi alla “competizione” tra amici di uno stesso network per incentivare così l’utilizzo sempre più assiduo dell’applicazione.

E’ forse ancora presto per affermare con assoluta certezza che il fenomeno “geolocal” non sia solo una moda passeggera. Ma è interessante notare come foursquare, dopo aver superato i 7 milioni di utilizzatori, continui il proprio sviluppo e punti a diventare uno strumento per un pubblico sempre più ampio di persone. Cercare, offrire consigli sul come organizzare le proprie serate, condividere immagini e commenti diventa sempre più divertente e utile.