Timeline dentro e fuori Facebook

La Timeline è considerata da molti tra gli addetti ai lavori una delle più salienti novità sinora realizzate (e pubblicamente diffuse) dal colosso Facebook. Il nostro nuovo diario ha rivoluzionato il profilo di milioni di utenti generando commenti entusiastici e feroci critiche. Ma da dove nasce l’idea della timeline? Uno dei primi esperimenti commercialmente diffusi risale al 2004 quando Nokia lanciò il progetto Lifeblog, una sorta di diario multimediale (con relativo strumento di gestione dei contenuti per PC) in grado di raccogliere foto, video, suoni, sms e mms creati attraverso il cellulare organizzandoli in base a informazioni quali ora, luogo, tag, descrizione e rendendo i vari contenuti ricercabili. Grazie all’applicazione per computer l’utente poteva inviare a servizi quali LifeLogger, TypePad, LiveJournal e Flickr i propri contenuti.

Il passo successivo, alcuni anni dopo, viene sintetizzato in maniera impeccabile da Paul Buccheit, uno dei fondatori di FriendFeed il servizio poi acquisito da Facebook nel 2009: “FriendFeed is trying to go beyond simply aggregating to actually creating a pleasant social experience around the content.” Credo sia proprio questa la chiave di lettura della timeline: superare il concetto del semplice “hub di status” per proporre i contenuti degli utenti in una veste più social e più facilmente consultabile. Ecco allora la copertina per personalizzare al meglio il nostro spazio, la possibilità di mettere in evidenza i post più popolari, le foto di avvenimenti importanti, le applicazioni più utilizzate.

Ma forse non tutti sanno che il concetto di timeline è stato sviluppato non solo da Facebook e dalla Nokia. Due delle più note alternative all’ultima novità del social network firmato Zuckerberg sono Memolane e Timekiwi.

La prima è una start-up che punta ad essere a superare Facebook in virtù della possibilità di organizzare in una semplice ed elegante timeline non solo post ma molteplici servizi che vanno da Twitter a SoundCloud, da Tripit a Picasa. Il bordo orizzontale in basso della pagina diventa una sorta di righello temporale che si può scorrere visualizzando i vari contenuti organizzati – sviluppo verticale a cascata – per giorno per giorno.

La seconda è invece balzata ultimamente agli onori della cronaca per essere stata acquisita da Overblog (la piattaforma europea più diffusa per aprire blog gratuitamente) e offre la possibilità di creare con semplicità ed immediatezza (non serve registrarsi, basta accedere con il proprio profilo Twitter o Facebook) una timeline intuitiva capace di raccogliere in un unico spazio i più noti social network. Lo sviluppo dello strumento in ottica blog mi pare di notevole interesse, non ci resta che attendere per scoprire quali ulteriori novità proporrà lo sviluppo nell’organizzazione dei nostri contenuti multimediali online secondo l’asse temporale.

Pinspire, la risposta italiana a Pinterest

Non molto tempo fa avevo presentato in un post le mie prime osservazioni su Pinterest. Il fenomeno da allora – e nel giro di pochissimo tempo – è esploso: le ultime notizie parlano di un incremento di traffico del 429% nell’ultimi tre mesi, tanto che per il settore retail al momento la bacheca social sembra uno strumento più adatatto del colosso Google+.

Il successo si misura anche nella misura in cui l’idea iniziale genera varianti locali. Ed ecco che quasi per caso mi sono imbattuto in Pinspire, un social network del tutto analogo a Pinterest, attualmente in versione beta e la cui iscrizione non necessita di invito: una volta registrati al servizio si possono segnalare nel proprio profilo/bacheca – attraverso delle puntine virtuali, le pin citate nel nome – le immagini che più ci piacciono, organizzandole per categorie. Si possono seguire profili,  essere informati sulla propria attività (i propri album, i pin, i mi piace e le mentions) e interagire nelle varie immagini cliccando mi piace sul cuoricino in alto a destra, commentando o effettuando il repin, una sorta di risegnalazione nel proprio album (la bacheca è formata da tanti album quante solo le categorie con le quali abbiamo deciso di organizzare le nostre immagini preferite).  E’ possibile condivedere le proprie segnalazione e, grazie all’utilizzo della @ nei commenti, anche consigliare l’immagine ad altri membri di Pinspire. L’aspetto probabilmente più interessante anche in questo caso è legato all’associazione tra prodotti – ad esempio di un canale e-commerce – e il bottone Pin It che presenta caratteristiche e funzioni del tutto simili ai pulsanti di Facebook e Twitter e che quindi può contribuire a diffondere e promuovere gli oggetti “vittime” delle pin (e quindi dell’attenzione degli utenti).

La parte Premi non mi è ancora del tutto chiara: la differenza sta nel fatto che gli oggetti “pinnati” hanno il prezzo ma non capisco l’associazione con la parola “premi” (e in ogni caso, rispetto a Pinterest, manca al momento una ricerca dei prodotti in base all’eventuale prezzo segnalato). La cosa particolare è che, nelle note legali, la società di riferimento per Pinspire è una certa Pinpire S.r.l. con sede a Milano. Scegliendo la bandierina italiana compaiono solo utenti “nostrani” – in maggior numero rispetto ai miei inizi su Pinterest – con i quali forse, almeno inizialmente, potrebbe essere più semplice interagire (nella homepage, giusto per farsi un’idea del social network, anche senza essere regisrati al servizio è possibile vedere i contenuti della sezione I più interessanti).

Armati di puntine non ci resta che corredare i nostri album con le immagini che preferiamo: fotogrammi di film, vestiti, dolci o paesaggi, coloriamo il nostro mondo e condividiamone i dettagli che più ci appassionano. Buon divertimento!

Mobile Marketing, il futuro nelle nostre mani

Quando sono all’estero e decido di non navigare in roaming mi rendo effettivamente conto di quanto ormai la mia vita sia scandita dall’utilizzo dello smartphone che porto sempre con me. Consultare Twitter, utilizzare Google Maps, caricare foto con instagr.am sono solo tre esempi di azioni diventate ormai – almeno per il sottoscritto – routine.
Ecco perchè quando mi è stato offerta la possibilità di leggere a pochi giorni dalla sua uscita Mobile Marketing: la pubblicità in tasca – libro edito da Fausto Lupetti, autori: Paolo Mardegan, Massimo Pettiti, Giuseppe Riva, prefazione Layla Pavone) sono stato ben contento di approfondire una tematica i cui sviluppi mi interessano molto e che, da utente, tocco letteralmente tutti i giorni con mano.
In effetti in un momento – quello attuale, i cui contorni sono stati ben delineati, ad esempio, nell’evento Google Think Mobile – nel quale il mobile (smartphone + tablet) ha superato i PC (desktop + notebook) e che fa registrare solo in Italia 20 milioni di smartphone (dovremmo orami essere prossimi al sorpasso degli smartphone sui cellulari), non parlare di opportunità legate al mondo della telefonia mobile sempre connessa sembrerebbe ingenuo.
L’emergere di una nuova tecnologia modifica gli assetti “mediali” del mondo dal quale emerge. Diventa allora fondamentale riflettere sui segnali che il mercato sta lanciando per tentare se possibile di comprendere come questa ennesima evoluzione degli strumenti a disposizione possa creare valore sia per gli utenti che per le aziende.
Il testo, con un’analisi teorica molto approfondita (soprattutto in relazione alla “giovinezza” del mezzo smartphone), analizza i nuovi paradigmi del marketing (in the moment) presentando l’orizzonte del nuovo scenario attraverso lo studio del mobile advertising, della geolocalizzazione, del mondo applicazioni e del mobile payment, offrendo al lettore dati di mercato, valutazioni e, nella parte finale, anche casi concreti e testimonianze di alcuni tra coloro che per lavoro quotidianamente si confrontano con un fenomeno in continua dilagante evoluzione.
Visto che ci sono ne approfitto per complimentarmi con gli autori del libro e per ringraziarli pubblicamente per la “citazione” – nella parte relativa al marketing conversazione e al buzz marketing – al libro del quale sono co-autore.

Nella testa di Steve Jobs, il libro

Da tempo volevo leggere qualcosa circa la vita di Steve Jobs. Non l’ho fatto subito perchè in qualche modo la “corsa alla biografia” subito dopo la morte di un personaggio famoso non mi attira per nulla. Alla vigilia della vacanze di Natale però, sprovvisto di una libro da leggere, mi è capitato tra le mani Nella testa di Steve Jobs di Leander Kahney Leander Kahney – edito da  Sperling – e così ho deciso di approfondire la vita dell’uomo sotto la cui guida la Apple ha sfornato un successo dietro l’altro.
Il testo, riproposto in una nuova edizione apliata e aggiornata, racconta l’epopea lavoritiva di Jobs dalla nascita di Apple sino ai giorni nostri, passando per il periodo alla NeXT e quello alla Pixar.
Una serie di testimonianze, racconti, aneddoti, di una delle figure più osannate delle storia recente capace, con le sue scelte (alle volte animatamente discusse anche dei suoi seguaci più fedeli) di rivoluzionare il mondo della tecnologia e dell’entertainment in senso ampio.
Dal suo ritorno in azienda infatti la Apple è cresciuta anno dopo anno arrivando ad essere quasi sinonimo di innovazione.
Scorrendo tra le pagine si può rivivere la ristrutturazione dell’azienda e il nuovo corso impresso da Jobs al proprio team. E ci si può rendere conto di quanto Jobs proietasse, con le sue visioni, verso una pressoché costante rivoluzione la Apple. Think different non è solo uno slogan ma una vera e propria mission che Jobs ha deciso di cavolcare. In questo senso pensare a prodotti come iTunes, l’iPod, l’iPhone o l’iPad è riduttivo. Dietro le quinte Jobs ha suputo leggere meglio di chiunque altro i cambiamenti sapendo far tesoro delle nuove abitudini e delle nuove esigenze degli utenti.
Concetti come “hub digitale” e “connected entertainment” forse ora sono paradigmi scontati ma in realtà hanno rappresentato, in un mercato abbastanza statico come quello dell’IT, dei profondi punti di discontinuità ai quali poi tutti si sono adeguati.
Tra le pagine del libro emerge poi anche il coraggio di Jobs e del suo team: USB, wi-fi, la scelta di una integrazione verticale, la drastica riduzione dei modelli, l’attenzione verso l’unpacking e la cura del design, gli Apple Store, sono tutti esempi che dimostrano come l’azienda sia stata in grado di scuotere in profondità le fondamenta di un mondo che nel giro di pochi anni ha modificato direttamente o indirettamente il nostro approccio a strumenti quali pc e cellulari.
E allora non resta che sorridere di fronte agli “errori” di Jobs: il Power Mac Cube e la scelta di non dotare i primi Mac di masterizzatore (all’inizio Jobs si fece quasi sfuggere la rivoluzione legata agli mp3; poi però si “riprese” ampiamente grazie ad iTunes e iPod).
Un libro che sebbene non rappresenti una biografia autorizzata a mio modo di vedere ben presenta Jobs e alcuni dei suoi colleghi più stretti, aiutando il lettore a delineare la complessa personalità di un personaggio che con il suo credo ha fatto della propria vita un romanzo costellato di successi. Riposa in pace Steve. E grazie di tutto.

Be Chic, per un Natale glamorous

Il Natale, almeno negli ultimi anni, per il sottoscritto arriva all’improvviso. E mi coglie inesorabilmente impreparato. Per svariati motivi (alcuni a ben vedere indipendenti dalla mia volontà), infatti, mi riduco, per ciò che concerne l’acquisto dei regali per le persone care, ben oltre quella soglia limite che gli inglesi chiamano panic saturday, il sabato che precede le festività natalizie. Quest’anno però ho avuto la fortuna di avere dalla mia un validissimo alleato con il quale ho potuto superare con agilità ed eleganza quell’ostacolo insuperabile che mi sembrava fino a pochi giorni fa la lista dei regali. Si tratta della linea Be Chic, un nuovo marchio di collezioni di bijoux dal design veramente particolare. Braccialetti, collanine, orecchini e spille confezionati in scatolette nere con fiocchettino rosa antico da sapore retrò, gioiellini eleganti dal taglio ironicamente trendy. Appena scoperto il mondo Be Chic mi sono studiato i vari bijoux e alla fine ho optato per due braccialetti (uno argentato con un cuoricino, uno nero con tanto di pendagli sul quali campeggia un gattino nero) e una semplicissima collana con chiama angeli.

Il sito in realtà non presenta solo la collezione di bijoux (prezzi più che accessibili) ma possiede anche proposte make-up e una linea di prodotti per il bagno in vendita nelle migliori profumerie (nella sezione dove siamo, compilando il campo con, ad esempio il CAP, è possibile scoprire i punti vendita Be Chic più vicini). Registrandosi, inoltre, è possibile stilare la propria wishlist.
Quella sorta di give away interno all’ufficio che ho messo in piedi si è rivelato un sucessone e grazie a Be Chic quest’anno potrò vivere i giorni che precedono il Natale in maniera più rilassata. Tanti auguri di buone feste a tutti!

L’arte del passaparola, teoria e pratica del word-of-mouth

L’arte del passaparola di Andy Sernovitz è una sorta di manuale che racconta, in maniera semplice e con una miriade di esempi concreti cosa sia il marketing del passaparola, gli strumenti, gli ingredienti e le tecniche per stimolare le conversazioni online e offine attorno a un brand.
Di cosa si tratta? In estrema sintesi – e senza la necessità di anticipare troppi temi trattati nel testo – il marketing del passaparola riguarda le interazioni tra persone, tra consumatore-a-consumatore attorno a prodotti, servizi, iniziative. Conversazioni che spesso scaturiscono in maniera spontanea dall’emozione che deriva, ad esempio, dall’utilizzo di un prodotto piuttosto che dalle sue caratteristiche.
Grazie anche alla Rete – e in particolare ai social media – comunicare le proprie impressioni, i proprio giudizi ad altri utenti è diventato semplice quanto immediato: “siamo diventati una comunità di critici in poltrona” come certifica l’autore del libro.
Gli utenti, con le loro voci, soprattutto se autorevoli in un determinato ambito (che non significa necessariamente vip) possono con le loro opinioni avere un notevole impatto sugli altri consumatori (l’autore si lancia anche nell’affermazione forse un troppo di parte: “più di qualsiasi pubblicità”).
Se da un lato quindi resta fondamentale realizzare buoni prodotti, dall’altro è oggi indispensabile capire cosa spinga le persone a parlare di un determinato argomento e imparare a interagire, a prendere parte a una conversione in corso. Come? Beh, dipende da caso a caso. Il consiglio che viene dal libro è quello di analizzare quanto si discute per poi creare un modo per dare alla conversazione un carattere di eccezionalità, esclusività e divertimento dimenticando l’imperativo categorico “vendere”. E tutti – ma davvero tutti – con pochi semplici passaggi possono iniziare un percorso che permetta loro di creare del passaparola attorno alla propria attività, dall’aggiungere il semplice bottone “tell a friend” nel sito o nelle newsletter a iniziative ben più articolate e complesse.
Andy Sernovits è CEO di GasPedal, un’agenzia specializzata nel word-of-mouth e ha creato Word of Mouth Marketing Association, l’associazione internazionale che raduna tutti gli operatori del settore e che si occupa di trovare metriche e prassi condivise alle quali attenersi: un vero guru del wom la cui passione si percepisce leggendo il testo che però, a dirla tutta, risulta un po’ datato (pochissimi riferimenti alle evoluzioni più recenti dei social media, titolo arrivato probabilmente troppo tardi in versione italiana anche se ha una sua appendice online). Gli esempi, seppur numerosissimi, sono tutti made in US e quindi forse un po’ troppo distanti dalla nostra realtà. Il libro è assolutamente consigliato per chi voglia avere un’infarinatura dell’argomento ma per chi invece mastica già le tematiche legate al passaparola forse risulterà un po’ troppo generico e ripetitivo. A tratti infatti il testo sembra la raccolta degli speech dell’autore senza però un’analisi “scientifica” e realmente strategica con dati, numeri, grafici e considerazioni dettagliate. Sicuramente una scelta voluta per evitare di appesantire la lettura ma che almeno per quanto mi riguarda avrebbe reso ancora più accattivante il testo.
Per concludere un piccolo aneddoto: ho saputo dell’uscita del libro attraverso il profilo twitter dell’autore. Incuriosito ho subito scritto a lui e alla sua casa editrice (la Corbaccio che lo ha inserito, non so per quale motivo, nella collana de I libri del benessere) per sapere se fosse possibile avere una copia da leggere e recensire per generare un po’ del più volte citato passaparola attorno al nuovo volume. Niente, nessuna risposta. Disappunto, speravo che almeno stavolta non fossero solo parole su carta.

Pay a Blogger Day, il giorno dopo…

Lo scorso 29 novembre è stato il Pay a Blogger Day una bella iniziativa che ha saputo attirare le attenzioni di molti utenti. If you enjoy reading blogs, give a little back – at least one day a year pay a blogger: questa l’idea alla base della campagna che, in estrema sintesi, si proponeva di sensibilizzare i lettori di blog a esprimere il loro apprezzamento verso i contenuti di uno spazio con un’azione concreta capace di superare i semplici commenti, i like e il generico sharing nei vari social network. Quale? Una donazione. O meglio una microdonazione. Ideatori della campagna sono i ragazzi del team di Flattr, realtà di Malmo specializzata nel cosiddetto social micro-payment system che ha elaborato una modalità tramite la quale supportare chi crea contenuti di valore (il termine flatter in inglese significa adulare ma anche donare). Lo strumento è utile sia per gli editori (siano essi blogger, musicisti, programmatori, fotografi, eccetera) che possono aggiungere un bottone tramite il quale raccogliere delle donazioni sia ai lettori che avranno così modo di premiare i loro autori preferiti. Ovviamente la stessa persona può vestire i panni sia del creatore sia quelli del fruitore di contenuti.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=9zrMlEEWBgY&w=440&h=360]

Il funzionamento è davvero elementare: registarsi al sito equivale ad aprire una sorta di conto virtuale nel quale depositare del denaro. Alla fine di ogni mese poi, la quota che l’utente avrà indicato come totale delle sue donazioni, verrà equamente distribuita in base alle volte in cui ha cliccato sul pulsante Flattr dimostrando l’intenzione di riconoscere all’autore del contenuto un piccolo corrispettivo in denaro (l’esempio della torta del video ufficiale qui sopra rende benissimo l’idea).
Da blogger non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione e così mi sono subito registrato al sito e ho fatto in modo di aggiungere, sotto ogni mio post (quindi anche questo), vicino ai tasti di condivisione, anche il bottone Flattr dando così modo ai miei “venticinque lettori”, nel caso volessero premiarmi, l’opportunità di riconoscermi una piccola donazione. Non mi illudo di certo sulle cifre ma sono molto interessato allo sviluppo dello strumento che non propone una sorta di “vendita con libera donazione” come successo, ad esempio, con i Radiohead per l’uscita di In Rainbows ma invece rovescia la prospettiva permettendo al fruitore di esprimere con una microdonazione il proprio apprezzamento verso il materiale proposto comunque free senza alcuna richiesta.
Qualcuno ci tiene a precisare come un blog si aggiorni con contributi audio-foto-video per passione non (solo) per lucro. Ma fare in modo che chi legge possa dimostrare concretamente il gradimento verso l’operato di chi ha realizzato il contenuto, senza alcun obbligo e in maniera decisamente democratica, mi sembra una bella opportunità. Support web great content!

[update: dopo un solo giorno dall’installazione del pulsante flattr ho ricevuto la mia prima donazione, che bello!]

E’ arrivato un Natale carico di… specie da adottare

Di solito in questo periodo dell’anno sono solito pubblicare appelli alle donazioni verso realtà che si occupano di aiutare i più deboli e sfortunati.

Quest’anno però lo spunto per la segnalazione mi è arrivato da una dichiarazione letta alcuni giorni fa da parte dell’attuale CEO di The Coca-Cola Company che spiegava come dal mese di novembre, almeno in America, l’ormai storica lattina rossa si sarebbe colorata di bianco per la nuova campagna, realizzata in collaborazione con il WWF (3 milioni di dollari la donazione dell’azienda di bibite gassate) per la ricerca e la conservazione dell’orso polare, icona utilizzata da Coca-Cola sin dal 1922.

Indagando un po’ più a fondo ho scoperto inoltre che, in collaborazione con 7-Eleven, Coca-Cola ha distribuito nei fastfood dei bicchieri bianchi con un QR Code che richiama un’applicazione – Snowball Effect, purtroppo non scaricabile da noi – con la quale sfidare gli amici a suon di palle di neve e donare ulteriori fondi al WWF.

E in Italia, cosa possiamo fare? Anche nel nostro Paese il WWF è attivo con una campagna che sensibilizza su temi quali la distruzione degli habitat naturali, i cambiamenti climatici e il bracconaggio che rischiano di far scomparire per sempre dal nostro pianete animali quali tigri, orsi, elefanti, panda, oranghi e molti altri animali (una delle ultime dichiarazioni della IUCN, l’Unione Internazionale per la salvaguardia della natura, da questo punto di vista è allarmante: un quarto dei mammiferi è a rischio estinzione).

adozioni

Dare il proprio contributo è molte semplice: basta andare nella sezione Adozioni del sito del WWF Italia scegliere una delle dodici specie simbolo (ci sono anche tre specie italiane) e devolvere quanto ci sembra opportuno per fare in modo che la ONG-Onlus possa essere sempre più agguerrita nel contrastare il commerciali illegale e nell’aumentare il numero delle riserve naturali.

Le tipologie di donazioni sono tre: la donazione semplice (a partire da 30 euro), l’azione con peluche (peluche WWF realizzati senza PVC, a partire da 50 euro) e l’adozione Trio dedicata alla salvaguardia di quattro grandi habitat condivisi da più specie a rischio. Il trittico italiano propone orso bruno, lupo e delfino: con una donazione a partire da 125 euro, si riceveranno tre peluche e tre kit con planisfero e certificati personalizzabili.

Per chi volesse essere a impatto zero anche nella proprio donazione, inoltre, è possibile scegliere l’adozione digitale I WWF you che consentirà di ricevere uno sfondo per il desktop e  uno screensaver.

Tutto può essere anche una originale idea regalo: potremmo infatti realizzare una ecard che verrà consegnata il giorno da noi scelto al destinatario del nostro dono.

Forse è un po’ prematuro scambiarsi gli auguri di Natale. Ma non siamo certo in anticipo per augurare ai nostri “amici animali” un futuro migliore. Anche grazie al nostro aiuto, noi che troppo spesso siamo stati per loro – e continuiamo ad esserlo – una minaccia.

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Tommy Hilfiger: in preppy we trust

Lo scorso lunedì ho avuto il piacere di partecipare all’evento Find your Preppy Pin with Tommy Hilfiger TH 1090/S, serata nella quale sono stati presentati i nuovi occhiali unisex, geometrici, di “tendenza Eighties”, realizzati per la griffe da Safilo.

La particolarità degli occhiali – oltre la leggerezza e la struttura su aste iniettate senza anima metallica che se scaldate si possono piegare per farle aderire meglio alle nostre forme – sono appunto delle pin, una sorta di spillette magnetiche che, posizionate sul simbolino Tommy nell’asticella vicino alle lenti, consentono di rendere personalizzare l’occhiale. Quattro le varianti: il fenicottero rosa per uno stile glamour, lo stemma Hilfiger per stile sport-chic, i mini occhiali da sole per uno stile scanzonatamente ironico e il teschio (da subito la mia pin preferita) per uno stile rock anticonformista.

Ma esattamente cos’è lo stile preppy? Il termine (letteralmente: figlio di papà) nasce in America negli anni Cinquanta e viene associato ai giovani che frequentano i college privati. La cultura preppy nel corso degli anni è diventata sinonimo di uniformi, pantaloni e camicie a strisce, stemmi, motti latini, scherzi goliardici, Country Club e feste in piscina, un’identità che ancora oggi continua a ispirare la moda. Anche online.

Sì perché andando nella pagina facebook di Tommy Hilfiger e cliccando sull’applicazione The preppy point of view si possono indossare virtualmente gli occhiali grazie alla realtà aumentata. Come? Semplicissimo! Basta diventare fan del brand (mettendo like alla pagina), scaricare un plug-in, accendere la webcam, centrare il proprio volto e poi scegliere gli occhiali preferiti che appariranno sull’immagine riflessa sullo schermo (sarà poi possibile scattare una foto e condividerla con gli amici).

Bellissimi gli occhiali, originale lo stile preppy (sportivo, vintage ma comunque elegante) e molto simpatica l’applicazione facebook. Grazie Tommy!

Videogiochi e informazione: in Italia a che punto siamo?

Lo scorso sabato, da appassionato di videogiochi, ho fatto una capatina al Games Week occasione nella quale sono anche riuscito a partecipare a un interessante dibattito attorno al tema della (dis)informazione sui videogiochi in Italia.
Promotore dell’incontro, il movimento contro la disinformazione sui videogiochi, gruppo nato spontaneamente (ma che nel giro di breve tempo ha saputo riunire oltre 13mila fan su facebook) in seguito ad alcuni servizi giornalistici che hanno messo in relazione – con troppa sufficienza – fatti di cronaca ai videogames.
Il videogioco, come ricordato nel corso della tavola rotonda che ha visto partecipare professionisti appartenenti a diverse realtà (da Multiplayer.it a Wired, da Evereye.it a TgCom), si può a tutti gli effetti definire come un medium. Che non è certo (l’unica) causa dei mali della società. Capita però spesso che i media tradizionali spinti dal sensazionalismo più che da spunti di riflessione costruttiva, spolverino il binomio violenza-videogioco. Ecco quindi i telespettatori imbattersi in un servizio, come quello mandato in onda dal TG1, nel quale si sottolinea la vicinanza tra Andres Breivik – tristemente famoso per gli attentati a Oslo – e il mondo dei videogiochi violenti (mettendo tra le altre cose in un unico calderone sparatutto e RPG).
Ecco allora più che azzeccata la provocazione di Matteo Bordone: “La stragrande maggioranza degli assassini – almeno in Italia – è battezzata ma non si innesca in noi certo un rapporto di causa e effetto tra questo e il loro crimine”.
Verso il mondo dei videogiochi, tuttavia, permangono molti pregiudizi nonostante il mercato del gaming sia in notevole crescita (nel 2010 sono stati venduti 33 videogiochi e 5 console al minuto secondo AESVI). Questo – almeno secondo quanto è emerso nelle conferenza – in parte perchè nelle redazioni, nelle testate giornalistiche, manca un “esperto di videogiochi” che abbia esperienza per informare in maniera corretta (come invece esiste l’esperto di cinema). Vuoi perchè non esiste nel nostro Paese un organo come Gamers’ Voice che in UK difende i diritti dei giocatori dando il proprio concreto contributo a media e istituzioni. O perchè si crede che il mondo dei videogiochi sia “qualcosa per bambini” quando – almeno negli USA, come ha ricordato Antonio Dini de IlSole24Ore – l’età media del giocatore è di 37 anni.
E infine forse anche perchè mentre in altre espressione della creatività la violenza non è deprecata (anzi ormai nel cinema, per esempio, sembra quasi del tutto sdoganata), in un mezzo giovane come quello dei videogiochi, non è ancora accettata.
Il movimento insomma avrà il suo bel da fare, non posso che fare un caloroso in bocca al lupo a tutti coloro che si stanno occupando della crescita del gruppo e della contemporanea sensibilizzazione dei consumatori (oltre chiaramente ai complimenti per l’idea).
Mi piacerebbe però non fosse un qualcosa di legato solo alla denuncia di enventuali atti di disinformazione ma che potesse fungere da osservatorio permanente sul mondo dei videogiochi e contemporaneamente punto di riferimento per tutti coloro che, affascinati dal gaming, vogliano scoprire qualcosa di più della semplice lista circa le ultime imperdibili uscite.