Gigaom e l’integrità del giornalismo online

Img: about.me/gigaom

Tra gli addetti ai lavori – ma anche tra i semplici appassionati di tecnologia – ha fatto un certo scalpore leggere lo striminzito annuncio tramite il quale Gigaom ha ufficialmente informato di aver cessato, in mancanza di denaro per pagare i creditori, la propria attività. Fondato nel 2006 da Om Malik – ex giornalista di Forbes – il blog, raccontando l’ascesa delle società in orbita Silicon Valley, è riuscito nel giro di pochi anni ad accreditarsi nel panorama informativo legato alle nuove tecnologie superando la ragguardevole cifra dei 6,5 milioni di lettori unici al mese.
A inizio 2012, lo spazio, diventato nel frattempo a tutti gli effetti una media company (anche in virtù dei 15 milioni di capitale stanziati da vari investitori), acquisisce dal Guardian News Media, ContentNext, società che controlla alcuni siti tra i quali spicca paidContent, spazio specializzato nell’analisi della sfera digitale legata ai media. Un affare, questo, che consolida la posizione di Gigaom anche nei confronti degli agguerriti siti “rivali” che, con l’acquisto da parte di AOL di TechCrunch e di ReadWriteWeb ad opera di SAY Media, dimostrarono la vitalità del settore informativo legato alle nuove tecnologie.

Gigaom, in realtà, non è (era?) però solo news: è diventata anche un laboratorio di ricerca con un network di oltre 200 analisti indipendenti (Gigaom Research) e una realtà che organizza eventi sui trend emergenti (Gigaom Events) quali, ad esempio, focus sulla cosiddetta “internet delle cose”, la tecnologia cloud o gli aspetti strategici dell’utilizzo dei metadata. Una società, dunque, apparentemente più che valida. Soprattutto alla luce del nuovo finanziamento (8 milioni di dollari) che a inizio 2014 era sembrato certificare la bontà del progetto di Malik (Malik che, in concomitanza con il sopracitato finanziamento, decide però di lasciare il timone della società).

Molti tra gli addetti ai lavori, commentando quanto accaduto, hanno sottolineato come Gigaom fosse, all’interno del comparto informativo, uno spazio che con orgoglio rivendicava l’avversione nei confronti del clickbait, la pratica che consiste nel pubblicare contenuti di dubbia qualità finalizzati esclusivamente a generare click e, quindi, almeno potenzialmente, maggiori entrate pubblicitarie. Focalizzando il lavoro della redazione sull’aspetto più giornalistico (piuttosto che, parole di Malik, “pregare all’altare di pageview e metriche pubblicitarie che non fanno altro che svalutare il tempo e l’attenzione del pubblico di lettori”), la testata ha evitato il ricorso alle forme pubblicitarie più “invasive” nei confronti degli utenti quali il native advertising, gli auto-play video o gli overlay.

Fine di un sogno? O di un modello di giornalismo (quello del free-for-all)?

Il Financial Times e l’economia dell’attenzione

Img: ft.com

Il Financial Times è uno dei quotidiani che ha meglio saputo affrontare la sfida del digitale. Lo testimoniano anche gli ultimi dati diffusi dalla testata che vedono, nel 2014, un incremento dei profitti: +10% annuo nella circolazione del giornale su carta e online, e un +21% negli abbonamenti (il cui 70% è rappresentato da digital subscriptions). Il FT è stato tra i primi a vagliare su web l’approccio basato sul cosiddetto paywall. Semplificando, tale strategia consente a chiunque di leggere 3 articoli gratis al mese, superati i quali, per proseguire nella fruizione del materiale della testata, si richiede la sottoscrizione di un abbonamento. Un metodo che, in un mondo – quello della Rete – nel quale ancora oggi la gratuità del contenuti è assai diffusa, a molti è inizialmente sembrato azzardato ma che, in virtù della qualità dei pezzi del giornale e della sua rilevanza nel panorama economico-finanziario, si è dimostrato di successo (le 720.000 “copie” tra carta e web del 2014, pur non essendo un numero altissimo, rappresentano il record per la testata).
Nonostante i buoni risultati, il FT ha però deciso di modificare la propria strategia. Da marzo, infatti, il paywall è proposto in una versione aggiornata: non più 3 articoli al mese gratis ma, un mese di accesso senza limiti alle risorse del quotidiano alla cifra simbolica di 1 dollaro. Terminato il mese di “prova”, all’utente sarà proposto l’abbonamento annuale che, nella sua versione base, ammonta a 335 dollari. Questo cambio, secondo John Ridding, CEO di FT, dovrebbe portare ad un ulteriore aumento degli abbonamenti che si stima possa essere compreso tra l’11 e il 29%.

Alla base della scelta della testata – per certi versi inaspettata, per l’intero comparto media online, il paywall di FT ha rappresentato una delle poche certezze – vi sono dei cambiamenti nelle proposte che il giornale riserva agli inserzionisti. Se è vero che la maggior parte degli introiti del quotidiano derivano dagli abbonamenti, FT sta tentando di individuare nuove opportunità legate alla pubblicità.
In virtù del fatto che, come spiegato da Jon Slade, responsabile del comparto digital advertising del FT, i lettori online della testata restano nel sito mediamente sei volte di più che in qualsiasi altro spazio di notizie economico-finanziarie, i vertici di FT hanno iniziato a proporre agli inserzionisti una metrica alternativa (o, quantomeno, complementare) a impression e click. Si tratta del cost-per-hour (CPH), quello che potrebbe presto diventare uno dei nuovi standard del mercato pubblicitario online.
Se, come dimostrato da Chartbeat – partner FT nello sviluppo del progetto per la parte di analisi del comportamento degli utenti – più un individuo è esposto a un messaggio pubblicitario, più alta è la sua propensione all’interazione – sia in termini di brand recall (letteralmente, richiamo di marca) che più genericamente di engagement – riuscire a far tesoro del “tempo speso” dai lettori all’interno del sito potrebbe rappresentare per la testata un (nuovo) punto di svolta.
FT sembra quindi aver deciso di puntare sulla cosiddetta economia dell’attenzione. La sfida, tutt’altro che semplice, è quella di riuscire a catturare il lettore facendolo rimanere il più a lungo possibile all’interno dei “confini” del giornale.
Strategia che sembra diametralmente opposta a quella in uso negli spazi che, facendo massiccio ricorso a classifiche e gallerie fotografiche, costruiscono i propri contenuti per una lettura veloce e una rapida condivisione.

Quale modello avrà la meglio?

La policy editoriale di BuzzFeed

Img: @buzzfeed twitter account

BuzzFeed è sicuramente uno degli spazi informativi più originali che, dal 2006 ad oggi, ha saputo sfruttare al meglio le caratteristiche del web creando uno stile proprio, di successo soprattutto tra i giovani. La fascia d’età 18-34 rappresenta, infatti, secondo le cifre pubblicate nel sito, il 50% degli oltre 175 milioni di visitatori unici al mese che BuzzFeed fa registrare. A conferma di ciò, anche i dati di traffico al sito: 50% da mobile (percentuale in salita), 75% del traffico da canali social, cifre che identificano un bacino di lettori solitamente molto difficile da raggiungere (e ancora di più da mantenere) da parte dei media tradizionali.
Numeri decisamente accattivanti per molti inserzionisti che, nel team di BuzzFeed, hanno potuto trovare un valido supporto (oltre che un valido canale di trasmissione) per la creazione di contenuti appositamente pensati per essere condivisi in maniera diffusa. Quiz, infografiche, video e divertenti liste sono solo alcuni degli esempi attraverso i quali una marca, con il supporto dello staff di BuzzFeed, può riuscire ad intercettare il pubblico con i propri messaggi e valori.

Se dalle (sintetiche) informazioni fornite nella sezione advertise del sito appare piuttosto chiaro il risultato finale di una potenziale collaborazione tra un brand/un’agenzia e il reparto di creativi di BuzzFeed, poco o nulla viene riportato circa l’applicazione concreta del processo “produttivo” che ogni giorno crea i contenuti della testata.

Sul finire dello scorso gennaio, però, BuzzFeed ha pubblicato una sorta di “guida” a disposizione di dipendenti, collaboratori e lettori che delinea gli standard del lavoro editoriale della testata.

Con l’obiettivo di unire il meglio di tradizione e innovazione, il documento rappresenta una sorta di riflessione “pubblica” per identificare la strada entro la quale crescere e proseguire lo sviluppo della internet news media company.

Di spunti interessanti ce ne sono molti, ecco quelli a mio giudizio più rilevanti:

1) le informazioni devono provenire da fonti confermate; Wikipedia e altri spazi modificabili da più utenti non possono essere considerati la fonte di una storia;
2) i riferimenti ad altri spazi informativi vanno indicati con citazioni esplicite alla testata e al link dell’articolo;
3) estratti da comunicati stampa vanno segnalati;
4) i giornalisti sono incoraggiati a contattare utenti Twitter e Instagram di cui desiderano utilizzare il materiale, soprattutto in caso di contenuti sensibili;
5) nessun articolo editoriale può essere cancellato; se alcune delle informazioni diventassero obsolete o si dimostrassero non corrette, sarà possibile aggiornare l’articolo inserendo delle note esplicative per i lettori;
6) le fonti non vengono retribuite per le interviste che rilasciano; interviste via email, Facebook messanger o Gchat sono permesse, ma quelle di persona sono spesso molto interessanti;
7) per immagini forti dovrebbe essere utilizzato il tool grafico che consente di coprirle lasciando all’utente la facoltà di scegliere se visualizzare o meno il contenuto;
8) gli articoli devono essere rigorosi, neutrali e devono anteporre fatti e notizie al resto;
9) simpatie politiche e commenti di parte non dovrebbero essere espressi pubblicamente, né attraverso forum o social media quali Twitter e Facebook; in particolare da chi si occupa della sezione News; per i membri dello staff News non sono inoltre permesse donazioni in denaro (ma anche in termini di tempo) per candidati politici o campagne politiche;
10) BuzzFeed conta sulla capacità del proprio team di offrire ai lettori indagini accurate, servizi utili e intrattenimento nella netta separazione tra advertising content e editorial content. Il lavoro di reporter, giornalisti ed editor è completamente indipendente da chi si occupa di vendere gli spazi pubblicitari e da chi li compra; chi si occupa della creatività delle inserzioni risponde al comparto business di BuzzFeed, non alla redazione editoriale; la collaborazione tra diversi staff è incoraggiata ma non nel caso di campagne pubblicitarie in occasione delle quali vige una divisione netta e chiara tra i reparti e le mansioni;
11) gli investitori di BuzzFeed non influenzano il lavoro dello spazio informativo.

Nessuna eclatante rivelazione ne sono consapevole, ma resta comunque importante intravedere i punti di riferimento di una realtà nata come fucina di contenuti “virali” che via via ha visto crescere le proprie ambizioni informative.

La sfida di contribuire a creare nuovi modelli per il giornalismo – ciò che pare aver “conquistato” Ben Smith, ex Politico.com e dal 2011 editor-in-chief di BuzzFeed – resta ancora da vincere.

Reuters TV: quando il broadcaster punta forte sul mobile

Img: reuters.tv

Dallo scorso 4 febbraio è disponibile su iTunes, Reuters TV, la nuova applicazione della famosa agenzia stampa britannica.
La sintesi della presentazione del servizio, onestamente, mi ha davvero colpito. Se l’obiettivo del team di sviluppo era quello di reinventate la tv e il modo di “consumare” le notizie, per quello che ho potuto vedere, le premesse sembrano esserci tutte.
Certo, è prematuro tirare dei bilanci ma Reuters TV sembra possedere le caratteristiche idonee per fare breccia nel vasto pubblico utilizzando al meglio l’enorme mole di contributi di qualità dei 2500 giornalisti sparsi in 200 differenti luoghi del pianeta (qualcosa come 100.000 video realizzati all’anno dalla testata).
La app è strutturata in due sezioni principali: Reuters Now e Feed.
Nella prima vengono proposte le notizie principali: facili di scorrere, presentano i filmati relativi ai fatti più rilevanti. Sulla parte alta dello schermo, in base alle esigenze di tempo,
l’utente può scegliere il grado di approfondimento della news indicando la lunghezza dei contenuti da visualizzare: le versioni dei contributi vanno dei 5 ai 30 minuti; l’applicazione consente in ogni momento di interrompere una video-notizia e passare alla successiva: l’operazione consentirà al sistema – in maniera analoga a quanto avviene, per esempio, con Flipboard – di “captare” gusti e interessi dell’utente personalizzando così il flusso informativo non solo sulla base della parametro legato alla geolocalizzazione ma andando incontro alle concrete esigenze dell’utilizzatore di Reuters TV.
Molto interessante anche l’opzione “Offline payback” che consente di programmare il download automatico delle notizie di modo da poterne poi fruire anche in assenza di segnale.

La sezione Feed, invece, è quella da scegliere per seguire gli avvenimenti live: senza alcun tipo di filtro o interruzione, l’utente avrà modo di seguire gli eventi più importanti in tempo reale. Non solo dirette video ma anche social integration: ai filmati, volendo, si possono affiancare i tweet più interessanti dei protagonisti di ciò che sta avvenendo o di chi sta commentando quanto accade.

L’utilizzo di Reuters TV è gratuito per i primi 30 giorni, poi richiede un abbonamento di 1,99 dollari al mese. Per quel che riguarda la pubblicità, le dichiarazioni in merito sono state piuttosto generiche: il comunicato stampa infatti parla di limited premium advertising senza però entrare nello specifico circa le modalità offerte agli inserzionisti.

Alcune testate, sintetizzando la notizia del lancio di Reuters TV, hanno paragonato il servizio a Netfix. Le parole di Isaac Showman, Managing Director di Reuters TV, presentando l’applicazione, in realtà hanno indicato Reuters TV non come il “Netfix delle news” ma come il modo di intendere le notizie nell’era di Netfix: personalizzate, continuamente aggiornate e on-demand.

La app è ottimizzata per iPhone, richiede iOS 8, ed è – anche in virtù delle valutazioni più che positive su iTunes – sicuramente da provare. Per informarsi ma, al contempo, anche per capire se possa rappresentare uno strumento sul quale puntare per rinnovare il mondo del broadcasting informativo.

Andrew Sullivan lascia, The Dish chiude. Peccato.

Img: dish.andrewsullivan.com

E’ passato poco più di un anno dal post nel quale cercavo di analizzare i numeri di The Dish. Nonostante il breve lasso di tempo trascorso da allora, sono – purtroppo – qui oggi a scrivere circa la fine dell’avventura di Sullivan e collaboratori. Con vivo rammarico, non lo nascondo.
Perché, pur non essendo un abbonato, dall’inizio dell’avventura “indipendentista” di Sullivan ho sempre tifavo per il blog (il termine blog utilizzato per descrivere contemporaneamente umbazar.com e The Dish non mi pare non mi pare il più azzeccato), apprezzandone l’originalità dell’approccio, la “sfrontatezza” del modello economico-finanziario (risultato alla fine tutt’altro che azzardato) e la coerenza del “condottiero” nel rifiutare inserzioni e investimenti esterni nella piena fiducia del proprio bacino di lettori.

Tornando ai fatti che in questi giorni hanno scombussolato (non solo negli USA) il mondo del giornalismo online, il susseguirsi di ipotesi e speculazioni ha avuto inizio lo scorso 28 gennaio quando, con un post dal titolo A Note To My Readers, Andrew Sullivan ha comunicato ai propri lettori l’intenzione di prendersi una pausa. Non tanto dalla scrittura in senso lato, quanto piuttosto da quello che per Sullivan è stato negli ultimi 15 anni lo strumento di lavoro quotidiano – il blog – e dal suo universo di riferimento – il digital. Ciò che colpisce, della lettera di commiato è in particolare l’accento posto sul desiderio di avere maggiore tempo a disposizione – per leggere, per pensare, per lasciare che un’idea prenda lentamente forma – in contrapposizione alla velocità che la comunicazione su web oggi sembra imporre.
In secondo luogo, non lascia certo indifferenti l’affermazione circa la prospettiva di “tornare al mondo reale”, quasi quello dei bit abbia rappresentato per Sullivan una dimensione tanto preziosa per la crescita professionale quanto alienante nei confronti, in particolar modo, degli affetti più cari.
La seconda parte del post lascia invece spazio a un velo di malinconia nel ricordo delle tante battaglie portate avanti nel corso degli anni insieme ai lettori e dei successi che proprio il pubblico ha sancito. Ed è forse proprio questo l’aspetto per il quale il progetto The Daily Dish – nato nel finire del 2000 – mancherà di più: lo spazio, nel corso degli anni, ha saputo accreditarsi non solo in quanto veicolo alternativo di notizie e interpretazioni dei fatti, ma come luogo di condivisione delle opinioni, di partecipazione attiva e confronto costruttivo: il blog è diventato, in altre parole, una community. Un gruppo di persone (30.000 abbonati e circa un milione di lettori al mese) che insieme hanno contribuito a innovare concretamente un comparto – quello dei media tradizionali – che non sembra ancora aver esattamente compreso il proprio ruolo all’interno della mutata scena informativa.

Certo che, al di là delle opinioni espresse, The Dish negli anni a venire sarà ricordato come uno dei contributi più stimolanti all’innovazione del giornalismo [non ho avuto dubbi nel citarlo nella versione digitale aggiornata e ampliata di News(paper) Revolution], con l’auspicio che qualcuno presto riesca a far tesoro dell’esperienza di Sullivan, non posso che ringraziare coloro i quali – staff ma anche semplici utenti – hanno creduto nel progetto di trasformazione di un “diario in Rete” in uno spazio informativo di livello.

Il native advertising sbarca anche su Flipboard

Img: vator.tv

Non sono un utilizzatore così assiduo di Flipboard ma quando trovo il tempo di usare il tablet, l’applicazione è una di quelle che non lesino ad interrogare per approfondire le notizie sulle tematiche che più mi interessano. Mi sono anche divertito a creare una mia rivista che funge da “contenitore” virtuale degli spunti su comunicazione, giornalismo e web che reputo più rilevanti.
Trovo molto piacevole la lettura di articoli con il look & feel del digital magazine che Flipboard consente a chiunque di sfogliare, non mi stupisce che autorevoli quotidiani come il New York Times, il Financial Times e, ultimo in ordine di tempo, il Wall Street Journal, abbiano deciso di intraprendere una collaborazione con l’applicazione (tra l’altro, il WSJ vende anche spazi pubblicitari su Flipboard testando nuovi modelli di advertising indirizzati in particolare a utenti che non sono soliti utilizzare sito e app del giornale per informarsi). Così come non mi è sembrato strano che “la rivista sociale e personalizzata” intraprendesse la strada già imboccata da altre redazioni digitali: quella dei Promoted Items. Infatti, dal prossimo primo febbraio i brand potranno mettere in evidenza i loro contenuti nel tentativo di raggiungere un pubblico più vasto e/o di suggerire agli utenti un’azione quale l’iscrizione a una newsletter, la visita a un sito o il follow di una particolare rivista.
I due brand che, come recita il comunicato stampa ufficiale, per primi testeranno i Promoted Items sono Levi’s e NARS Cosmetics. Il cosiddetto native advertising, quindi, si applica anche a quello che in definitiva è un aggregatore di notizie: contenuti “sponsorizzati” – in maniera del tutto analoga a ciò che accade, per esempio, su Twitter – entreranno a far parte del flusso di notizie di Flipboard in un continuum che non prevede una distinzione netta tra spazi informativi e spazi pubblicitari. Certo, avranno l’etichetta “promoted”, ma a tutti gli effetti saranno fruibili tra le altre notizie di un determinato canale tematico senza essere relegate, come ad esempio capita nei giornali su carta nostrani, nell’apposita rubrica dei redazionali.

Questa nuova opportunità segue quella dello scorso settembre con la quale Flipboard, per la prima volta, ha proposto ai propri lettori video ads a tutto schermo di 10 brand selezionati (da Gucci a Sony Pictures, da Chrysler a Jack Daniel’s).

Gli investimenti stanziati grossomodo un anno fa per acquistare l’allora competitor Zite devono in qualche modo essere ripianati. Nulla da eccepire, quindi, sul fatto che Flipboard stia tentando – anche in maniera piuttosto aggressiva – di monetizzare al meglio i circa 100 milioni di profili “attivati” dichiarati (espressione piuttosto fumosa che non coincide di certo con “attivi”).

Resta da capire quale sarà la reazione del pubblico a questa “invasione” di pubblicità in un terreno, quello dei contenuti organizzati dall’applicazione, sino a non molto tempo fa apprezzato proprio per la mancanza delle inserzioni tipiche della stampa.

Gli utenti rappresentano al contempo il patrimonio e l’opportunità di Flipboard. Sono probabilmente loro, più che gli inserzionisti, coloro sui quali l’attenzione non dovrebbe mai smettere di concentrarsi.

 

p.s. = ho aggiunto anche l’iconcina di Flipboard ai pulsanti di condivisione dei post del blog

Reported.ly: il giornalismo con e nei social media di Andy Carvin

Img: reported.ly

Nel 2012 Andy Carvin è balzato agli onori delle cronache per la sua capacità di raccontare, in tempo reale su Twitter, la cosiddetta Primavera Araba. Dal suo ufficio di Washington, Andy è riuscito a offrire ai propri follower (ma anche ai media di tutto il mondo) uno spaccato davvero interessante delle proteste che dalla fine del 2010 hanno animato le strade di Tunisia ed Egitto. Grazie a una rete verificata di contatti nei Paesi dei tumulti, Carvin è stato in grado di procedere ad un minuzioso controllo sulle fonti riuscendo ad individuare, analizzare e proporre al vasto pubblico i contributi più interessanti. Un racconto che, anche se realizzato a chilometri e chilometri di distanza dai luoghi delle vicende, ha rappresentato – con una media di 400 tweet al giorno – un ricco “reportage” con testimonianze dirette e multimediali in grado di offrire una sintesi autorevole delle sommosse che agitavano il mondo arabo.

Fatto tesoro di ciò che può essere definito come un processo giornalistico di content curation collaborativa, Carvin ha da alcuni giorni lanciato Reported.ly. Con una redazione di sei giornalisti, sparsi per il mondo ma sempre in contatto (del team fa anche parte l’italiana Marina Petrillo), mediante l’utilizzo di Twitter, Facebook, reddit e Storify, la nuova realtà si propone come la prima “redazione” focalizzata sul native journalism, un’informazione che nasce e si sviluppa nei social media, in grado cioè di sfruttare al meglio le caratteristiche degli strumenti dai quali scaturisce e nei quali si diffonde.
Un innovativo approccio che punta – come scrive Carvin stesso nel post di presentazione del neonato progetto – al superamento della copertura classica dei media: questa infatti si limita a considerare i social network strumenti utili per il rilancio delle notizie più che per il coinvolgimento del pubblico nel racconto di ciò che in un determinato momento sta avvenendo.

Il lavoro del team di Reported.ly non solo trae spunto dagli interventi degli utenti ma a questi, per certi versi, ritorna: non si tratta esclusivamente della ricerca di testimonianze dirette ma, ad esempio, anche della richiesta ai fruitori stessi delle notizie, del supporto per la traduzione di un messaggio in una lingua sconosciuta, per la verifica di una fonte o per la realizzazione di una mappa in grado di sintetizzare diversi accadimenti.

Un esempio concreto del lavoro di Reported.ly è (purtroppo) arrivato dalla cronaca di questi giorni: qui il link al racconto “assemblato” su Storify seguendo in tempo reale il blitz della polizia francesce a Dammartin.

Un esperimento, quello di Reported.ly, che se anche ora pare focalizzarsi esclusivamente nell’uso giornalisticamente sapiente dei social network più che nell’individuazione di un modello finanziario che renda l’attività di Carvin e colleghi sostenibile (in fondo dietro Reported.ly c’è First Look Media del fondatore di eBay Pierre Omidyar), resta da seguire con attenzione.

Citizen Chris: da Facebook a The New Republic

Img: nyt.com

Chris Hughes è uno dei fondatori di Facebook e, proprio per questo, nonostante la giovane età (è del 1983) è già multimilionario. Nell’estate del 2012 acquista lo storico magazine The New Republic con l’intento di rilanciare il giornale nelle sue diverse versioni (carta, sito e app) perché – come riportato in un suo scritto ai lettori del gennaio 2013 – una società democratica necessita di un serio e florido comparto media per generare nuove idee e offrire innovativi approcci ai fatti di ogni giorno. L’obiettivo è quello di creare una digital-media company verticalmente integrata capace di attirare lettori e, quindi, inserzionisti. E per fare ciò non bada a spese: nuovo ufficio, nuovo team di giornalisti, sito web completamente ridisegnato e, più tardi, un grande party per festeggiare i 100 anni della rivista (con ospiti, tra gli altri, Bill Clinton e Wynton Marsalis). All’atto della firma per rilevare la quota di maggioranza del giornale ecco il primo colpo di teatro: a capo del magazine, al posto di Richard Just – uomo chiave nel convincere Hughes ad investire nel giornale – arriva, secondo i bene informati all’insaputa di tutti, la (auto)nomina a direttore dello stesso Chris. Carica che di lì a pochi mesi cederà a Franklin Foer, richiamato al giornale dopo che lo aveva lasciato nel 2010.
Gli avvicendamenti non portano i risultati sperati, le divisioni interne si acuiscono (pare che alcuni diverbi tra Hughes e giornalisti dello staff siano nati a causa di articoli dai toni particolarmente critici nei confronti del mondo della Silicon Valley che egli stesso, almeno in parte, rappresenta), arriva un nuovo cambio al vertice: via Foer, arriva Gabriel Snyder.
La strategia del giornale agli occhi del personale (ma anche di molti tra gli addetti ai lavori) non sembra più così azzeccata, in molti lasciano la redazione accusando la proprietà di aver inferto il colpo letale al New Republic portando avanti il progetto di trasformare il magazine in una sorta di azienda tecnologica, in una start-up. La lotta intestina tra il mondo dell’informazione focalizzato sulle modalità per incrementare il traffico web e quello riconducibile a un giornalismo narrativo e critico nei confronti dell’establishment pare insanabile.
Nella lettera alla direzione con la quale venti giornalisti rassegnano le dimissioni, sintesi del malcontento della redazione, si sottolinea come The New Republic non sia importante esclusivamente in virtù della storia del brand; non si tratta, in altre parole, di (mero) business ma di una causa, non di un prodotto ma di una voce.
In una recente intervista rilasciata al Washington Post, Hughes, commentando quanto accaduto, si è detto dispiaciuto ma ancora desideroso di continuare a lavorare per la realizzazione di un progetto di giornalismo sostenibile, in grado cioè di preservare contemporaneamente i conti in attivo e l’istituzione che The New Republic rappresenta.

Nonostante la dedizione e la voglia di continuare a “lottare”, il numero di febbraio, per la prima volta da un secolo a questa parte, non sarà però in edicola.

Our success is not guaranteed, but I think it’s critical to try.

Snapchat, la nuova frontiera della comunicazione?

Img: socialtimes.com

Tra le applicazioni più in voga nell’ultimo periodo c’è sicuramente Snapchat, la social app tramite la quale scambiare foto, video e messaggi a visibilità limitata. L’utente, prima di condividere i propri contenuti ha infatti la possibilità di scegliere la durata della visualizzazione (per quel che concerne i messaggi, una volta letti non saranno più visibili dal mittente né dal destinatario). Questa peculiarità rende molto particolare l’utilizzo dell’applicazione che quindi non può essere considerata come una semplice replica dei vari strumenti di messaggistica istantanea quali Whatsapp, Skebby, Viber o Facebook Messenger (tra l’altro Snapchat in collaborazione con Square ha da poco lanciato Snapcash, un sistema che consente di trasferire denaro da un conto a un altro semplicemente digitando la cifra e schiacciando l’apposita icona “verde dollaro”). L’aspetto “evanescente” della comunicazione via Snapchat influisce sul tipo di contenti veicolati tramite la app? Difficile negarlo. Ma non è questo l’aspetto che mi ha più incuriosito.
Il numero di utenti registrati a Snapchat è in continua crescita, soprattutto tra i più giovani. Facile intuire come l’applicazione sia diventata molto interessante per gli inserzionisti. Non è quindi un caso che, per gli utenti americani, a partire dalla seconda metà di ottobre, abbiano iniziato ad apparire nella sezione “Recent Updates” dei messaggi pubblicitari (che spariscono appena visti o, nel caso vengano ignorato, nel giro di 24 ore).
Ciò che non mi aspettavo è che anche realtà quali Buzzfeed, CNN, Time Inc. e Hearts, si avvicinassero all’applicazione come potenziali fornitori di contenuti. Nonostante la sezione “Our Story” in occasione di eventi pubblici come manifestazioni sportive o concerti susciti una notevole partecipazione da parte degli utenti, mi ha sorpreso il fatto che i media siano passati così velocemente dal parlare di al parlare con Snapchat, riconoscendo quindi nell’applicazione non solo un fenomeno della rete ma un potenziale partner.
Secondo alcune indiscrezioni, infatti, l’applicazione dovrebbe a breve lanciare “Discover”, una nuova sezione nella quale troverebbe spazio il materiale di player autorevoli del settore informativo e di quello entertainment (come Vevo e Comedy Central), attirati da un pubblico giovane che, proprio in virtù dell’essenza “a tempo” dei messaggi, risulta anche molto attivo e decisamente propenso a utilizzare la app più volte al giorno.
A riprova del fatto che Snapchat punta anche sul comparto media per generare profitti basta ricordare l’ingresso nel proprio team di Ellis Hamburger, che da alcuni giorni ha lasciato gli uffici di The Verge, uno degli spazi informativi in ascesa.

Sono davvero curioso di scoprire nei prossimi mesi gli sviluppi della potenziale collaborazione tra due mondi – quello della comunicazione istantanea e quello dell’informazione – apparentemente così distanti e di capire se e come le news si adegueranno a Snapchat.

Innovare significa anche saper osare, no?

[update: con gli aggiornamenti della app di fine gennaio 2015, Discover – “un modo divertente di esplorare gli Snap provenienti da prospettive editoriali diverse” – è stato ufficialmente reso disponibile a tutti gli utenti]

C’è vita su Marte? E cultura nel web?

Img: flavorwire.com

20 novembre, ore 7.45 di una qualsiasi giornata lavorativa. Dopo le abbondanti piogge dei giorni precedenti, un timido sole – che si intravede appena tra le nuvole – scalda l’aria fresca della mattina.

Salgo in auto e metto in moto, in automatico si accende la radio. E’ impostata su Radio 1 Rai, sta andando in onda Radio 1 in Corpo 9, la rassegna stampa che anticipa il radiogiornale delle 8.

Si parla di Kate Middleton e del fatto che stia perdendo consensi perché evita di prendere posizione. Il tragitto che mi separa dall’ufficio è (fortunatamente) breve per cui decido di non cambiare frequenza. La conversazione si sposta verso un’analisi (superficiale) del mercato dell’editoria e dalla stampa che porta allo scambio di battute capace di rovinarmi la giornata prima ancora che questa abbia inizio.

Ma il web è cultura? C’è cultura su web?
No, su web c’è tutt’altro che cultura, c’è ricerca dell’immediato, ovviamente”.
”.

Sarò esagerato, sarò permaloso, ma ogni volta che qualcuno “sparla” dell’online liquidandolo frettolosamente, mi sento chiamato in causa.

Per il sottoscritto il web, dopo essere stato una passione diventata poi oggetto di studio, è oggi – e spero possa esserlo anche in futuro – sinonimo di lavoro. Ogni giorno, nel mio piccolo, sulla base delle esigenze e delle disponibilità della realtà nella quale opero, cerco di individuare modalità e strumenti per far intravedere nella Rete nuove opportunità.
Sono pagato per farlo, certo, ma credo in ciò che faccio.

Come ho già avuto modo di spiegare (vedi Di politica e giornalismo: l’importanza di intermediari di qualità), considero il web come uno strumento al servizio di noi utenti. Un (meta?)mezzo non necessariamente migliore di altri, ma nemmeno da demonizzare costantemente.

Non sono d’accordo con coloro i quali considerano la Rete un mondo “altro da”, con chi la addita quale rappresentazione del male tout court né con chi la dipinge esclusivamente come il regno della velocità legata all’effimero.

La valutazione sul web non credo possa prescindere dall’utilizzo che decidiamo di farne: sta a noi scegliere come e dove “navigare”. Il web è un canale (è molto di più, provo a semplificare) e come tale può essere punto di incontro come di scontro, di emancipazione o di propaganda asservita a un qualche gruppo di persone, sinonimo di creatività o solo l’ennesima versione di contenuti spazzatura.

E perché no, c’è spazio anche per la cultura nella Rete: ci sono esperienze, rielaborazioni, scambi costruttivi, valutazioni che possono contribuire ad ampliare le proprie conoscenze e a rendere gli individui più consapevoli.

Possibile che i protagonisti del dialogo che tanto mi ha irritato, seppur giornalisti di lunga data, non intravedano un briciolo di cultura nella Rete? E se davvero fosse in loro tanto radicata tale convinzione, quale il senso della loro presenza online (rispettivamente con Cinquantamila e con Il Blog del Direttore)?

Ignorare il web credo sia già oggi impossibile. Per le aziende, per gli utenti, per il mondo dell’informazione, per gli organi dello Stato. Per provare a conoscerlo e, quindi, a capirlo, accorre mettere da parte pregiudizi e generalizzazioni con cui tentiamo di difenderci dal nuovo che avanza.

p.s.= forse per qualcuno Wikipedia non sarà cultura; ma mi sono comunque permesso di aggiornare la voce di Giorgio Dell’Arti inserendo gli ultimi libri pubblicati.

[update: il direttore di Oggi ha spiegato meglio, con una risposta pubblicata nella sezione Posta, il suo punto di vista]