Un vecchio proverbio recita: “l’Epifania tutte le feste si porta via“. Amara verità. Per fortuna però quest’anno avrò modo di addolcire un po’ il rietro al lavoro e alla vita di tutti i giorni. Come? Niente calza della befana ma un piccolo barattolino trasparente – che vagamente ricorda quello utilizzato per analisi mediche – con una precisa indicazione: “to relieve boredom“.
Tutto si deve far risalire a quando, camminando per le viuzze del centro di Barcellona (vicino alla fermata della metro Jaume I se non ricordo male), mi sono imbattuto in un negozietto alquanto singolare nel quale campeggiava la scritta: Happy Pills.
Non ho saputo resistere, la curiosità è stata troppa e così sono entrato per cercare di capire di cosa si trattasse. Di primo acchito mi è sembrato un negozio di caramelle solo un po’ particolare, ben presto mi sono reso conto che definirlo così sarebbe stato riduttivo: in piena esaltazione zuccherina, ho preso un contenitore (ho scelto quello “basic” da 3 euro) e con frenesia ho iniziato a riempirlo con le caramelle mi varie, da quelle a forma di dentiera “vampiresca” a quelle a forma di cervello, dalle classiche bottigliette gommose alle liquerizie colorate. Mi sono poi avvicinato alle etichette e ho scelto quella “against monday“, mi sono recato alla cassa e una ragazza, con tanto di camice bianco, ha chiuso il mio flaconcino come fosse un vero e proprio medicinale, attaccandoci l’etichetta che avevo scelto. Una volta gustate le buonissime caramelle ho cercato maggiori informazioni circa la brillante idea che sottende Happy Pills: ho così scoperto che l’ispirazione è frutto dei designer dello Studio MM di Barcellona (l’immagine sopra è presa proprio dalla sezione “proyectos” del sito di grafica, design e architettura), una moderna quanto esilarante versione di farmacia senza controindicazioni, dove ai soliti toni rossi e un po’ cupi si sostituiscono scaffali di colorate “compresse” golose e scritte rosa shocking. Design da leccarsi le dita.
Autore: umbazar
Soul Kitchen, la nuova commedia di Fatih Akin
Solo ora che ho intravisto la locandina dell’uscita italiana del film, trovo il tempo per spendere due parole su Soul Kitchen, divertente pellicola che ho potuto assaporare – in lingua originale con sottotitoli – nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Nella periferia di Amburgo, Zinos, ragazzo di origine greca, gestisce un locale senza molte pretese. Il cibo non è certo prelibato (brutalmente lo definirei junk food), ma gli avventori non si lamentano e anzi si presentano spesso numerosi.
Ma proprio quando tutto sembra essere ben avviato, quando pare che di scossoni ve ne siano stati già a sufficienza, ecco la vita torna prepotentemente a dire la propria e riserva gustose novità: Zinos in pochi giorni è costretto a rivedere tutte le proprie conquiste, dall’amore al lavoro, dalla salute al rapporto con fratello e amici.
Non voglio svelare nulla di più – se raccontassi troppo della trama poi che gusto ci sarebbe? – ma, senza entrare nei particolari, posso dire che il film è una spassosa commedia fatta di gag e di personaggi al limite del surreale che si relazionano tra loro in una società multietnica (alla Kebab for breakfast per intenderci).
La cosa che più mi ha colpito delle pellicola è stata lo stretto rapporto che lega la “crescita” del personaggio principale e al miglioramento delle abilità culinarie, come se, in qualche modo, la trasformarmazione da inserviente di un fastfood a ricercato chef comporti una maturazione anche dal vista umano-sentimentale-sociale capace di rendere Zinos più forte, sicuro e sereno.
Un film, quello di Fatih Akin (Leone d’argento – Gran premio della giuria), semplice, spiritoso (umorismo con retrogusto leggeremenre anglosassone, ritmi veloci e soundtrack accattivante), e, tanto per restare in cucina, leggero come un soufflé. Ideale per digerire il ritorno al lavoro dopo le festività natalizie.
Fare gli auguri di Natale al GGD è più cool
Lo scorso venerdì ho avuto il piacere di poter essere presente al GGD Milano, l’appuntamento che, almeno per quanto mi riguarda, ha di fatto dato il via allo scambio di auguri per le prossime festività.
Dopo un piccolo equivoco – in zona Isola esistono infatti due locali chiamati Osteria dei Vecchi Sapori, uno in via Carlagnola e uno in via Del Verme – sono arrivato a destinazione e, accolto con un sorriso da Sharon ho potuto ritirare i miei gadget (tazzina, buoni Dada e Kodak e busta termica ricca di prodotti Bonduelle) e appropiarmi di due etichette adesive indicanti nome, cognome, abilità e interessi (da buon stakanov quale sono ho pensato solo in ottica “lavorativa” dimenticando di citare, ad esempio, cinema e letteratura tra i miei hobby).
Mi sono così accomodato nella sala già pienissima in uno dei pochi tavoli con ancora qualche posto libero e ho iniziato subito a conversare con i commensali davvero simpatici e di compagnia (bel modo di costringere un timido come il sottoscritto a interagire con gli altri, viva le tavolate!). E così, tra un piatto e l’altro – tutte pietanze buone quanto particolari, solo la polenta taragna non sono riuscito del tutto a finire perchè già sazio – abbiamo parlato di lavoro, di internet, di libri, di viaggi e di somiglianze – Rania di Giordania e Ricucci su tutte – con leggerezza e simpatia.
Rispetto alle precedenti edizioni GGD alle quali ho partecipato non c’è stato un vero dibattito tra ospiti e “resto del mondo” ma forse è giusto così: nell’ultimo appuntamento dell’anno meglio lasciare spazio alle presentazioni dello staff e agli ambiziosi progetti futuri (che trovano tutto il mio appoggio).
Nel corso della serata sono anche stato tirato in ballo per l’iniziativa con la quale sto stressando la blogosfera (ma solo perchè mi sta a cuore) “dai il tuo contributo con un post alla Lista dei Desideri Save the Children” e per aver portato un po’ di libri (Buzz Marketing nei Social Media) da distribuire (putroppo arrivando verso le 20 mi sono perso l’assegnazione dei testi, argh): per carattere non amo essere al centro dell’attenzione, per questo mi sono “palesato” solo su espressa richiesta. Certo, mi ha fatto piacere incontrare di persona coloro i quali ho conversato solo in maniera virtuale (o che seguo nei vari social network), spero che di conoscere sempre di più gli attori del web meneghino e dintorni. Auguri a tutti/e!
Oggi Internet si colora di Telethon
Quando mi è stato chiesto di dare il mio (piccolissimo) contributo alla web marathon 2009 non ho esitato nemmeno un secondo. Telethon, in estrema sintesi, è un polo d’innovazione per la ricerca sulle malattie genetiche rare. Da vent’anni raccoglie fondi – soprattutto tramite la tv – e sostiene la ricerca e la cura di malattie che colpiscono per la stragrande maggioranza i più piccoli.
Oggi, 11 dicembre, contemporaneamente alla maratona televisiva Rai, è attiva anche una maratona web: portali, siti, blog e social network tutti uniti per tentare di sensibilizzare la Rete proponendo notizie, approfondimenti, aste online, visti grafiche pensate proprio per le due giornate di Telethon, per segnalare i molti eventi previsti lungo tutta la Penisola. E ovviamente per diffondere banner e widget per la donazione virtuale.
Un’altra bella occasione per dimostrare come il web sia vivo e attivo. Lunga vita alla ricerca e avanti con la raccolta fondi!
INQ1, la mia prova del facebookphone
Per far conoscere INQ1, con una bella iniziativa articolata su twitter e friendfeed, la 3 ha distribuito dei cellulari da testare. Anche il sottoscritto, dopo vari tentativi, in zona Cesarini, è riuscito ad aggiudicarsi un telefonino (grazie ancora per l’opportunità!).
Pochissimi giorni dopo la comunicazione della vincita – e dopo la compilazione dei moduli necessari a registrare sim e cellulare – ho ricevuto un bel pacchettino a forma di cubo. Con grande curiosità ho aperto la confezione e ho finalmente potuto avere tra le mie mani l’INQ1, noto anche come facebookphone. La prima cosa che mi ha colpito è come non ci siano manuali. Una decina di card colorate spiegano con semplicità e senza troppi giri di parole le caratteristiche del cellulare. Leggo incuriosito e capisco quali siano i punti di forza del telefonino: la possibilità di poter accedere a Facebook, quella di poter utilizzare Skype, la rubrica con la quale associare ai numeri di telefono le varie identità internet (in questo modo, quando ad esempio si riceve una chiamata, potrà apparire l’immagine del profilo Facebook di chi sta mettendo in contatto con noi), la possibilità di gestire i feed per seguire gli aggiornamenti dei propri siti preferiti e infine quella di configurare dei widget nella pagina iniziale.
Accendo il cellulare, faccio scattare in avanti lo schermo e, scritto il pin, grazie al tasto carosello navigo nel menu rapido del telefonino, scoprendo, oltre alle applicazioni già citate, anche Messanger, Youtube, pianeta 3 (sezione nella quale acquistare giochi, musica e news) e il pulsante “internet” dal quale posso scegliere se accedere a Google Search, Youtube, Yahoo Search, MSN Mobile, MySpace e eBay. Nella home, in alto, trovo preinstallato un widget: inserisco il nome della città in cui mi trovo e vengo informato su meteo e temperature. Scelgo Google per provare il browser e casualmente scopro che lo schermo permette anche la navigazione in orizzontale semplicemente girando il cellulare. Dopo aver disattivato il sistema di scrittura facilitata, scrivo il nomignolo con il quale sono noto online e poi visito il mio blog. Quando premo il tasto Indietro, nella schermata appaiono i livelli di navigazione per cui posso scegliere con estrema facilità se tornare all’inizio del mio percorso o solo indietro di uno step. Poi provo Youtube: vado nella home e scelgo il primo video della lista (“doesn’t mean anything libe from black ball”) salvo poi leggere “not available on mobile”. Passo alla ricerca. Ridisattivo il sistema di scrittura facilitata – strano non si memorizzi la mia preferenza antit9– e scrivo “glass and the gost children smashing pumpkins”. Clicco “watch video” aspetto alcuni secondi per la connessione e poi mi vedo il video (cinque livelli di volume a mio giudizio sono troppo pochi, pur scegliendo il primo livello il volume mi pare troppo alto per gli autoparlanti del cell). Decido di passare al menu del cellulare: decisamente spartano, presenta 12 caselle, dal tasto fotocamera a quello impostazioni, da sveglia a giochi e applicazioni (nemmeno un gioco preinstallato, uffi). Scelgo feed e trovo già inseriti quelli della Gazzetta dello Sport.
Leggendo la user guide del cd, scopro anche come INQ1 permetta di stabilire una connessione Internet ad alta velocità per il computer tramite cavo USB e driver incorporati. Inoltre leggo come il cellulare permetta l’accesso al proprio account Last.fm per ascoltare le canzoni preferite.
Insomma, INQ1 è un cellulare senza molte pretese ma simpatico, piccolo, maneggevole (anche se non leggerissimo), con una fotocamera da 3.2 mega pixel e una buona batteria, per chiunque desideri iniziare a utilizzare un cellulare collegato alla web e ai principali social network senza però spendere troppo e senza dover scegliere un cellulare complesso forse più indicato per chi per lavoro ha la necessità di essere sempre connesso.
Tra l’altro proprio in questi giorni è in commercializzazione INQ Chat, l’evoluzione di INQ1 con tastiera QWERTY, GPS integrato, client Twitter, nuovo software e nuovo design. Piccoli INQ crescono.
Lista dei desideri 2009: Save this post
Con l’avvicinarsi del Natale torno a proporre – come lo scorso anno – la Lista dei Desideri by Save the Children, l’innovativa soluzione di regalo virtuale e solidale con la quale dare il proprio piccolo-grande contributo per garantire educazione di qualità, per costruire asili comunitari e per migliorare la salute e la nutrizione di bambini dei paesi nei quali di certo le festività non fanno rima con la parola consumismo (qui di fianco l’immagine del nuovo simpatico video circa l’iniziativa).
Come reagirebbero le persone a noi più vicine se ricevessero davvero in regalo uno Yak, 40 polli o magari 100 vaccini? Forse non ne sarebbero entusiaste, l’esatto contrario di quello che proverebbero i bambini che vivono in paesi poveri o in via di sviluppo per i quali questi regali significano la vita stessa.
Nella Lista dei Desideri – per chi ancora non la conoscesse – ci sono regali per tutte le tasche, da 10 a oltre 1.000 euro: da un cesto di cibo (14 euro) a una bicicletta (43 euro), da un vaccino (15 euro) a dei filtri per l’acqua (57 euro). Un modo utile e intelligente per trasformare i regali da futili a utili, aiutando realmente a migliorare la vita di migliaia di bambini. Doni che rendono felici noi, i nostri cari a cui sono rivolti e soprattutto i bambini nei paesi in via di sviluppo.
Per tutti i donatori che acquisteranno un regalo sulla Lista dei Desideri, tra le altre cose, c’è la possibilità di accedere ad un’applicazione che permetterà di prestare il proprio volto e posare insieme al simbolo nonché primo testimonial della campagna, lo Yak, di stampare lo scatto o di condividerlo su Facebook.
Sempre su Facebook è anche possibile compilare un test a cura di Save the Children dal titolo “Scopri il regalo che fa per te”.
Per maggiori info:
http://desideri.savethechildren.it
http://www.facebook.com/savethechildrenitalia
http://twitter.com/SaveChildrenIT
http://www.youtube.com/user/savethechildrenIT
Remix, la mia recensione sul libro di Lessig
Una madre riprende il proprio bambino mentre, per la prima volta, inizia a ballare spingendo il proprio girello a ritmo di musica. Il video è divertente e la donna decide di conviderlo con amici e parenti caricandolo su Youtube. Ma dopo alcune settimane qualcuno scrive alla signora minacciando di intentare causa per una riproduzione non autorizzata.
Un ragazzo appassionato di manga, realizza un mashup, unendo come colonna sonora la propria canzone preferita e, per la parte visiva, immagini di una sequenza di scene del fumetto per il quale stravede.
Di questi paradossi e di molti altri aspetti legati al cosiddetto diritto d’autore si occupa il (bel) libro Remix, il futuro del copyright (e delle nuove generazioni) di Lawrence Lessig (fondatore di Creative Commons, l’organizzazione non profit che sostiene la condivisione pubblica di opere creative).
Un testo che cerca di fare il punto sulla situazione statunitense circa il copyright per capire come e se questa forma di tutela applicata con rigore nei media classici possa essere anche riprosta con le medesime modalità nel mondo digitale, territorio virtuale estremamente fluido, vasto e variopinto. Ma lo studio non si ferma a quest’analisi e scava più in profondità proponendo un ripensamento non solo del lato più “legale” del problema che la Rete porta a galla, ma un cambiamento capace di modificare economia, cultura e rapporto tra giovani e istituzioni.
Un libro ricco di aneddoti, riflessioni, suggerimenti per capire meglio la portata dei cambiamenti in atto non solo nell’industria culturale ma anche in tutti quegli atteggiamenti che – condannati o meno dalla legge – sono quasi diventati routine.
p.s.= un sentito ringraziamento a Gianfranco Chicco per avermi dato modo di ricevere una copia del libro
The big escape by Nokia
Nel canale YouTube di Nokia Italia da alcuni giorni è comparso un nuovo breve filmato che, pare, sia un assaggio di un advergame legato al servizio Ovi Maps 3.0. Si tratta di The big escape, una nuova iniziativa grazie alla quale scappare – almeno virtualmente – dai luoghi comuni. Potevo esimermi dal partecipare? Certo che no. Perchè in fondo, benché quanto mi appresto a raccontare sia stato per certi versi traumatico, oggi ricordarlo è anche divertente. Il luogo comune dal quale vorrei fuggire è sintetizzabile nello slogan: “Italiano è sempre buono. Anche all’estero” che ben rende l’idea di ciò che per alcuni giorni sia stato il mio incubo, il martellante pensiero capace di levarmi l’appetito.
Ero in Inghilterra, in una sorta di college per ragazzi stranieri, stavo tentando di rendere meno imbarazzante il mio inglese. Fortunatamente di connazionali non vi era presenza e anzi orami ero diventato, diciamo così, “amico del mondo”, nel senso che avevo stretto amicizia con una ragazzi di ogni etnia e provenienza, dalla Spagna alla Repubblica Ceca, dalla Germania alla Corea. Sono molto delicato per ciò che concerne il cibo ma mi ero ripromesso di accettare il confronto con le altre culture presenti nella scuola: a turno, uno di noi ragazzi sceglieva un locale e tutti insieme andavamo a provare le pietanze offerte come fossimo fini critici culinari. Spesso, per non sfigurare nei confronti degli altri, sceglievamo locali vicini alla loro cultura. Una delle prime volte, forse per dimostrami l’affetto e la stima nei miei confronti (così mi piace pensare), i ragazzi quasi in coro mi proposero un ristorante/pizzeria chiamato “Made in Italy”. Sin dall’ingresso il locale, nonostante il nome, non mi parve traspirasse italianità, ma ascoltando in sottofondo la musica di Vasco e vedendo l’entusiasmo dei miei amici, un po’ mi tranquillizzai. Una volta arrivato il menu però i dubbi svanirono: la cosa più vicina a un piatto nostrano che la lista offriva era una margherita con ananas a pezzi (adorata, tra l’altro, dei miei compagni asiatici). Sorrisi a denti stretti. Alla fine, quando tutti insieme, ci avvicinammo per pagare alla cassa, l’occhio mi cadde sui “cartoni” per le pizze da asporto: nella parte superiore, sotto il nome, c’era una sagoma della penisola italiana. Ma solo della penisola, senza isole.
Uscii ferito nell’orgoglio patriottico e mi ripromisi di evitare quanto più possibile i ristoranti (pseudo)italiani all’estero. Avrei voluto scappare come il protagonista del minitrailer ma vendendo i mei compagni tutto sommato appagati (certo, per chi non è abituato alla nostra cucina, probabilmente anche un piatto di pasta scotta con del ketchup può sembrare una pietanza succulenta) affogai in una buona (e sana) pinta di birra la mia delusione.
Le nuove Adidas Predator X sbarcano a Milano
Il tardo pomeriggio di oggi ha visto protagoniste, all’Arena Civica di Milano, le nuove Adidas Predator X calzate da sportivi di eccezione quali gli All Blacks Dan Carter, Jimmy Cowan, Zachary Guildford, Luke McAlister e i calciatori Diego (Ribas da Cunha), Cristian Brocchi e Alessandro Matri.
I giocatori, divisi in due squadre miste, capitanate rispettivamente da Dan Carter e Diego, si sono sfidati in una competizione molto spettacolare: l’obiettivo era colpire, dalla terrazza dell’Arena, sia con il pallone ovale che con quello da calcio, un bersaglio posizionato al centro del campo a circa 70 metri di distanza (per onor della cronaca ha vinto la squadra di Carter). Un modo simpatico – e per certi versi spettacolare – con il quale testare potenza e controllo delle ultime nate in casa Adidas (pazzesco come le scarpette da calcio si siano “evolute” dal 1994!) che si basano, in estrema sintesi, su tre principali tecnologie: powerspine, predator e optifit. Spero di riuscire a spiegare queste innovazioni senza annoiare troppo: grazie alla tecnologia powerspine il piede nel colpire la palla subisce una minore deformazione e questo significa meno perdita di energia e quindi più potenza e velocità impressa alla palla; la tecnologia predator – un mix plastica-silicone a lato dalla scarpetta – permette una maggiore accuratezza nel controllo del pallone e nell’effetto del tiro, in ogni condizione metereologica (pioggia o sole) e di campo (secco, duro o bagnato); la tecnologia optifit infine punta a garantire un miglior controllo di palla: riducendo il materiale tra pallone e piede, grazie a innovativi elementi costruttivi e nuovi materiali, si ha una sensazione confortevole come se si giocasse a piedi nudi.
Altre chicche che caratterizzano le Predator X sono: la parte laterale pre-sagomata che una volta indossate rende le scarpette ergonomice al massimo, la parte del tallone dei tacchetti che è a sé stante rispetto alla tomaia della scarpa, i lacci più ampi dove si annoda e poi più fini per ridurre al minimo l’ingombro, il bordo morbido all’avampiede… Insomma se la mia (brillante?) carriera di fantastista non fosse stata prematuramente bloccata da un brutto infortunio alla caviglia destra (e nonostante il prezzo della top di gamma non sia proprio economico), avrei voluto davvero provare le nuove Predator X e sentirmi, almeno il tempo di una partita, un campione.
Io, Gavin, i Fiberoctopus e il web 2.0
[Avviso ai lettori, questo post è autocelebrativo]
Tempo fa – ormai più di tre anni orsono – mi sono imbattuto nel sito di un gruppo di San Diego mai sentito prima di allora, i Fiberoctopus. Mi sono piaciuti da subito, il loro sound malinco-elettronico è stato capace di rapirmi sin dalle prime note e così, in pochi giorni canzoni come Wet Match, She was my hostage, Waiting in heaven e When you dream sono diventati i miei personali tormentoni, canzoni che ascoltavo in loop per ore. Tanto mi ero appassionato alla band che ho (ben) pensato di creare un gruppo su Facebook per tentare di farli conoscere anche ai miei contatti diffondendo così il loro indie-pensiero. Dopo alcuni mesi il gruppo continuava però ad essere formato da pochissime persone (che avevo “pressato”) e così, non senza sconforto, in qualità di ammistratore, decisi di cancellarlo optando per una più pagina più sobria pagina “diventa fan”.
Pochi giorni fa, con mia somma sorpresa/orgoglio, ho ricevuto un messaggio dal frontman della band – Gavin – nel quale mi ringrazia per aver cercato di diffondere la musica dei Fiberoctopus e mi chiede di poter diventare anch’egli amministatore per poter così aggiornare e rendere più accattivante il frutto della mia passione. Pazzesco no? Il leader della band che chiede al sottoscritto di diventare amministratore della sezione fan su Facebook relativa al proprio gruppo, surreale, hi hi.
Dopo due giori di suspance (non potevo dargliela vinta subito, l’occasione era troppo ghiotta), l’ho accettato a bordo, convincendolo anche ad aprire un account su Twitter (oltre a Myspace già attivo) con il quale restare in costante contatto con la band.
Per la serie: “Dio benedica i social network”. E ovviamete anche la musica dei Fiberoctopus.