In occasione della serie di incontri dell’Asiatica Film Mediale in corso a Roma ho avuto modo di vedere il film di Abai Kublai, Strizh (Swift in inglese). La pellicola del regista kazako racconta le giornate di Ainur, una ragazza che tra mille difficoltà cresce scontrandosi giorno dopo giorno con problemi dovuti all’assenza di una famiglia unita e di amici che possano supportarla nel suo processo di crescita. E qui la mia fantasia ha colto la prima metafora: ho intravisto nella ragazza il riflesso della stessa Repubblica del Kazakistan, così fragile, impegnato nell’autocostruzione di sé stesso – ecco forse spiegato le tante imamgini di cantieri – ma al contempo spaesato, solo e alla continua ricerca di una propria definita indentità. La ragazza vive tra casa e scuola anche se spesso si ritrova per strada, seduta sulla panchina di un parco o in cima alla montagna per vedere da sopra la piccola cittadina nella quale abita, immersa nei propri pensieri, lontana dai litigi, dalle incomprensioni, dalle lacrime amare. E proprio quando le cose sembrano andare meglio, quando finalmente si varca quel luogo visto sempre come irraggiungibile (forse non a caso sferico come il mondo nel quale viviamo), se il sogno si trasforma nel giro di alcuni istanti da sogno a incubo, allora trovare la forza per continuare nonostante tutto e tutti risulta un’impresa più che ardua.
Un film quello di Kubai dalle atmosfere rarefatte, lontate, fredde, che rende bene l’idea di cosa possa voler dire vivere in una realtà tanto difficile, così lontana, povera ma al contempo ricca di contraddizioni.