Il native advertising sbarca anche su Flipboard

Img: vator.tv

Non sono un utilizzatore così assiduo di Flipboard ma quando trovo il tempo di usare il tablet, l’applicazione è una di quelle che non lesino ad interrogare per approfondire le notizie sulle tematiche che più mi interessano. Mi sono anche divertito a creare una mia rivista che funge da “contenitore” virtuale degli spunti su comunicazione, giornalismo e web che reputo più rilevanti.
Trovo molto piacevole la lettura di articoli con il look & feel del digital magazine che Flipboard consente a chiunque di sfogliare, non mi stupisce che autorevoli quotidiani come il New York Times, il Financial Times e, ultimo in ordine di tempo, il Wall Street Journal, abbiano deciso di intraprendere una collaborazione con l’applicazione (tra l’altro, il WSJ vende anche spazi pubblicitari su Flipboard testando nuovi modelli di advertising indirizzati in particolare a utenti che non sono soliti utilizzare sito e app del giornale per informarsi). Così come non mi è sembrato strano che “la rivista sociale e personalizzata” intraprendesse la strada già imboccata da altre redazioni digitali: quella dei Promoted Items. Infatti, dal prossimo primo febbraio i brand potranno mettere in evidenza i loro contenuti nel tentativo di raggiungere un pubblico più vasto e/o di suggerire agli utenti un’azione quale l’iscrizione a una newsletter, la visita a un sito o il follow di una particolare rivista.
I due brand che, come recita il comunicato stampa ufficiale, per primi testeranno i Promoted Items sono Levi’s e NARS Cosmetics. Il cosiddetto native advertising, quindi, si applica anche a quello che in definitiva è un aggregatore di notizie: contenuti “sponsorizzati” – in maniera del tutto analoga a ciò che accade, per esempio, su Twitter – entreranno a far parte del flusso di notizie di Flipboard in un continuum che non prevede una distinzione netta tra spazi informativi e spazi pubblicitari. Certo, avranno l’etichetta “promoted”, ma a tutti gli effetti saranno fruibili tra le altre notizie di un determinato canale tematico senza essere relegate, come ad esempio capita nei giornali su carta nostrani, nell’apposita rubrica dei redazionali.

Questa nuova opportunità segue quella dello scorso settembre con la quale Flipboard, per la prima volta, ha proposto ai propri lettori video ads a tutto schermo di 10 brand selezionati (da Gucci a Sony Pictures, da Chrysler a Jack Daniel’s).

Gli investimenti stanziati grossomodo un anno fa per acquistare l’allora competitor Zite devono in qualche modo essere ripianati. Nulla da eccepire, quindi, sul fatto che Flipboard stia tentando – anche in maniera piuttosto aggressiva – di monetizzare al meglio i circa 100 milioni di profili “attivati” dichiarati (espressione piuttosto fumosa che non coincide di certo con “attivi”).

Resta da capire quale sarà la reazione del pubblico a questa “invasione” di pubblicità in un terreno, quello dei contenuti organizzati dall’applicazione, sino a non molto tempo fa apprezzato proprio per la mancanza delle inserzioni tipiche della stampa.

Gli utenti rappresentano al contempo il patrimonio e l’opportunità di Flipboard. Sono probabilmente loro, più che gli inserzionisti, coloro sui quali l’attenzione non dovrebbe mai smettere di concentrarsi.

 

p.s. = ho aggiunto anche l’iconcina di Flipboard ai pulsanti di condivisione dei post del blog

Reported.ly: il giornalismo con e nei social media di Andy Carvin

Img: reported.ly

Nel 2012 Andy Carvin è balzato agli onori delle cronache per la sua capacità di raccontare, in tempo reale su Twitter, la cosiddetta Primavera Araba. Dal suo ufficio di Washington, Andy è riuscito a offrire ai propri follower (ma anche ai media di tutto il mondo) uno spaccato davvero interessante delle proteste che dalla fine del 2010 hanno animato le strade di Tunisia ed Egitto. Grazie a una rete verificata di contatti nei Paesi dei tumulti, Carvin è stato in grado di procedere ad un minuzioso controllo sulle fonti riuscendo ad individuare, analizzare e proporre al vasto pubblico i contributi più interessanti. Un racconto che, anche se realizzato a chilometri e chilometri di distanza dai luoghi delle vicende, ha rappresentato – con una media di 400 tweet al giorno – un ricco “reportage” con testimonianze dirette e multimediali in grado di offrire una sintesi autorevole delle sommosse che agitavano il mondo arabo.

Fatto tesoro di ciò che può essere definito come un processo giornalistico di content curation collaborativa, Carvin ha da alcuni giorni lanciato Reported.ly. Con una redazione di sei giornalisti, sparsi per il mondo ma sempre in contatto (del team fa anche parte l’italiana Marina Petrillo), mediante l’utilizzo di Twitter, Facebook, reddit e Storify, la nuova realtà si propone come la prima “redazione” focalizzata sul native journalism, un’informazione che nasce e si sviluppa nei social media, in grado cioè di sfruttare al meglio le caratteristiche degli strumenti dai quali scaturisce e nei quali si diffonde.
Un innovativo approccio che punta – come scrive Carvin stesso nel post di presentazione del neonato progetto – al superamento della copertura classica dei media: questa infatti si limita a considerare i social network strumenti utili per il rilancio delle notizie più che per il coinvolgimento del pubblico nel racconto di ciò che in un determinato momento sta avvenendo.

Il lavoro del team di Reported.ly non solo trae spunto dagli interventi degli utenti ma a questi, per certi versi, ritorna: non si tratta esclusivamente della ricerca di testimonianze dirette ma, ad esempio, anche della richiesta ai fruitori stessi delle notizie, del supporto per la traduzione di un messaggio in una lingua sconosciuta, per la verifica di una fonte o per la realizzazione di una mappa in grado di sintetizzare diversi accadimenti.

Un esempio concreto del lavoro di Reported.ly è (purtroppo) arrivato dalla cronaca di questi giorni: qui il link al racconto “assemblato” su Storify seguendo in tempo reale il blitz della polizia francesce a Dammartin.

Un esperimento, quello di Reported.ly, che se anche ora pare focalizzarsi esclusivamente nell’uso giornalisticamente sapiente dei social network più che nell’individuazione di un modello finanziario che renda l’attività di Carvin e colleghi sostenibile (in fondo dietro Reported.ly c’è First Look Media del fondatore di eBay Pierre Omidyar), resta da seguire con attenzione.

Citizen Chris: da Facebook a The New Republic

Img: nyt.com

Chris Hughes è uno dei fondatori di Facebook e, proprio per questo, nonostante la giovane età (è del 1983) è già multimilionario. Nell’estate del 2012 acquista lo storico magazine The New Republic con l’intento di rilanciare il giornale nelle sue diverse versioni (carta, sito e app) perché – come riportato in un suo scritto ai lettori del gennaio 2013 – una società democratica necessita di un serio e florido comparto media per generare nuove idee e offrire innovativi approcci ai fatti di ogni giorno. L’obiettivo è quello di creare una digital-media company verticalmente integrata capace di attirare lettori e, quindi, inserzionisti. E per fare ciò non bada a spese: nuovo ufficio, nuovo team di giornalisti, sito web completamente ridisegnato e, più tardi, un grande party per festeggiare i 100 anni della rivista (con ospiti, tra gli altri, Bill Clinton e Wynton Marsalis). All’atto della firma per rilevare la quota di maggioranza del giornale ecco il primo colpo di teatro: a capo del magazine, al posto di Richard Just – uomo chiave nel convincere Hughes ad investire nel giornale – arriva, secondo i bene informati all’insaputa di tutti, la (auto)nomina a direttore dello stesso Chris. Carica che di lì a pochi mesi cederà a Franklin Foer, richiamato al giornale dopo che lo aveva lasciato nel 2010.
Gli avvicendamenti non portano i risultati sperati, le divisioni interne si acuiscono (pare che alcuni diverbi tra Hughes e giornalisti dello staff siano nati a causa di articoli dai toni particolarmente critici nei confronti del mondo della Silicon Valley che egli stesso, almeno in parte, rappresenta), arriva un nuovo cambio al vertice: via Foer, arriva Gabriel Snyder.
La strategia del giornale agli occhi del personale (ma anche di molti tra gli addetti ai lavori) non sembra più così azzeccata, in molti lasciano la redazione accusando la proprietà di aver inferto il colpo letale al New Republic portando avanti il progetto di trasformare il magazine in una sorta di azienda tecnologica, in una start-up. La lotta intestina tra il mondo dell’informazione focalizzato sulle modalità per incrementare il traffico web e quello riconducibile a un giornalismo narrativo e critico nei confronti dell’establishment pare insanabile.
Nella lettera alla direzione con la quale venti giornalisti rassegnano le dimissioni, sintesi del malcontento della redazione, si sottolinea come The New Republic non sia importante esclusivamente in virtù della storia del brand; non si tratta, in altre parole, di (mero) business ma di una causa, non di un prodotto ma di una voce.
In una recente intervista rilasciata al Washington Post, Hughes, commentando quanto accaduto, si è detto dispiaciuto ma ancora desideroso di continuare a lavorare per la realizzazione di un progetto di giornalismo sostenibile, in grado cioè di preservare contemporaneamente i conti in attivo e l’istituzione che The New Republic rappresenta.

Nonostante la dedizione e la voglia di continuare a “lottare”, il numero di febbraio, per la prima volta da un secolo a questa parte, non sarà però in edicola.

Our success is not guaranteed, but I think it’s critical to try.

Snapchat, la nuova frontiera della comunicazione?

Img: socialtimes.com

Tra le applicazioni più in voga nell’ultimo periodo c’è sicuramente Snapchat, la social app tramite la quale scambiare foto, video e messaggi a visibilità limitata. L’utente, prima di condividere i propri contenuti ha infatti la possibilità di scegliere la durata della visualizzazione (per quel che concerne i messaggi, una volta letti non saranno più visibili dal mittente né dal destinatario). Questa peculiarità rende molto particolare l’utilizzo dell’applicazione che quindi non può essere considerata come una semplice replica dei vari strumenti di messaggistica istantanea quali Whatsapp, Skebby, Viber o Facebook Messenger (tra l’altro Snapchat in collaborazione con Square ha da poco lanciato Snapcash, un sistema che consente di trasferire denaro da un conto a un altro semplicemente digitando la cifra e schiacciando l’apposita icona “verde dollaro”). L’aspetto “evanescente” della comunicazione via Snapchat influisce sul tipo di contenti veicolati tramite la app? Difficile negarlo. Ma non è questo l’aspetto che mi ha più incuriosito.
Il numero di utenti registrati a Snapchat è in continua crescita, soprattutto tra i più giovani. Facile intuire come l’applicazione sia diventata molto interessante per gli inserzionisti. Non è quindi un caso che, per gli utenti americani, a partire dalla seconda metà di ottobre, abbiano iniziato ad apparire nella sezione “Recent Updates” dei messaggi pubblicitari (che spariscono appena visti o, nel caso vengano ignorato, nel giro di 24 ore).
Ciò che non mi aspettavo è che anche realtà quali Buzzfeed, CNN, Time Inc. e Hearts, si avvicinassero all’applicazione come potenziali fornitori di contenuti. Nonostante la sezione “Our Story” in occasione di eventi pubblici come manifestazioni sportive o concerti susciti una notevole partecipazione da parte degli utenti, mi ha sorpreso il fatto che i media siano passati così velocemente dal parlare di al parlare con Snapchat, riconoscendo quindi nell’applicazione non solo un fenomeno della rete ma un potenziale partner.
Secondo alcune indiscrezioni, infatti, l’applicazione dovrebbe a breve lanciare “Discover”, una nuova sezione nella quale troverebbe spazio il materiale di player autorevoli del settore informativo e di quello entertainment (come Vevo e Comedy Central), attirati da un pubblico giovane che, proprio in virtù dell’essenza “a tempo” dei messaggi, risulta anche molto attivo e decisamente propenso a utilizzare la app più volte al giorno.
A riprova del fatto che Snapchat punta anche sul comparto media per generare profitti basta ricordare l’ingresso nel proprio team di Ellis Hamburger, che da alcuni giorni ha lasciato gli uffici di The Verge, uno degli spazi informativi in ascesa.

Sono davvero curioso di scoprire nei prossimi mesi gli sviluppi della potenziale collaborazione tra due mondi – quello della comunicazione istantanea e quello dell’informazione – apparentemente così distanti e di capire se e come le news si adegueranno a Snapchat.

Innovare significa anche saper osare, no?

[update: con gli aggiornamenti della app di fine gennaio 2015, Discover – “un modo divertente di esplorare gli Snap provenienti da prospettive editoriali diverse” – è stato ufficialmente reso disponibile a tutti gli utenti]

C’è vita su Marte? E cultura nel web?

Img: flavorwire.com

20 novembre, ore 7.45 di una qualsiasi giornata lavorativa. Dopo le abbondanti piogge dei giorni precedenti, un timido sole – che si intravede appena tra le nuvole – scalda l’aria fresca della mattina.

Salgo in auto e metto in moto, in automatico si accende la radio. E’ impostata su Radio 1 Rai, sta andando in onda Radio 1 in Corpo 9, la rassegna stampa che anticipa il radiogiornale delle 8.

Si parla di Kate Middleton e del fatto che stia perdendo consensi perché evita di prendere posizione. Il tragitto che mi separa dall’ufficio è (fortunatamente) breve per cui decido di non cambiare frequenza. La conversazione si sposta verso un’analisi (superficiale) del mercato dell’editoria e dalla stampa che porta allo scambio di battute capace di rovinarmi la giornata prima ancora che questa abbia inizio.

Ma il web è cultura? C’è cultura su web?
No, su web c’è tutt’altro che cultura, c’è ricerca dell’immediato, ovviamente”.
”.

Sarò esagerato, sarò permaloso, ma ogni volta che qualcuno “sparla” dell’online liquidandolo frettolosamente, mi sento chiamato in causa.

Per il sottoscritto il web, dopo essere stato una passione diventata poi oggetto di studio, è oggi – e spero possa esserlo anche in futuro – sinonimo di lavoro. Ogni giorno, nel mio piccolo, sulla base delle esigenze e delle disponibilità della realtà nella quale opero, cerco di individuare modalità e strumenti per far intravedere nella Rete nuove opportunità.
Sono pagato per farlo, certo, ma credo in ciò che faccio.

Come ho già avuto modo di spiegare (vedi Di politica e giornalismo: l’importanza di intermediari di qualità), considero il web come uno strumento al servizio di noi utenti. Un (meta?)mezzo non necessariamente migliore di altri, ma nemmeno da demonizzare costantemente.

Non sono d’accordo con coloro i quali considerano la Rete un mondo “altro da”, con chi la addita quale rappresentazione del male tout court né con chi la dipinge esclusivamente come il regno della velocità legata all’effimero.

La valutazione sul web non credo possa prescindere dall’utilizzo che decidiamo di farne: sta a noi scegliere come e dove “navigare”. Il web è un canale (è molto di più, provo a semplificare) e come tale può essere punto di incontro come di scontro, di emancipazione o di propaganda asservita a un qualche gruppo di persone, sinonimo di creatività o solo l’ennesima versione di contenuti spazzatura.

E perché no, c’è spazio anche per la cultura nella Rete: ci sono esperienze, rielaborazioni, scambi costruttivi, valutazioni che possono contribuire ad ampliare le proprie conoscenze e a rendere gli individui più consapevoli.

Possibile che i protagonisti del dialogo che tanto mi ha irritato, seppur giornalisti di lunga data, non intravedano un briciolo di cultura nella Rete? E se davvero fosse in loro tanto radicata tale convinzione, quale il senso della loro presenza online (rispettivamente con Cinquantamila e con Il Blog del Direttore)?

Ignorare il web credo sia già oggi impossibile. Per le aziende, per gli utenti, per il mondo dell’informazione, per gli organi dello Stato. Per provare a conoscerlo e, quindi, a capirlo, accorre mettere da parte pregiudizi e generalizzazioni con cui tentiamo di difenderci dal nuovo che avanza.

p.s.= forse per qualcuno Wikipedia non sarà cultura; ma mi sono comunque permesso di aggiornare la voce di Giorgio Dell’Arti inserendo gli ultimi libri pubblicati.

[update: il direttore di Oggi ha spiegato meglio, con una risposta pubblicata nella sezione Posta, il suo punto di vista]

Google ed editori: c’eravamo tanto amati

Img: presstv.ir

La sfida tra editori e Google ha segnato nei giorni scorsi un nuovo avvenimento degno di nota: il gigante editoriale tedesco Alex Springer ha abbandonato, dopo solo due settimane di test, il blocco che limitava l’accesso ad alcune delle proprie pubblicazioni al motore di ricerca offrendo una free license per l’utilizzo dei contenuti di 4 siti del gruppo (welt.de, computerbild.de, sportbild.de e autobild.de).

L’irritazione degli editori (in Germania ma anche in Spagna, Francia e Italia solo per citare alcuni dei Paesi nei quali il problema ha dato adito ai dibattiti più accesi) è dovuta al fatto che l’azienda di Mountain View non si limita a riportare, nei risultati di una ricerca, i soli link agli articoli dei giornali ma presenta anche degli estratti dei contenuti. Secondo i detrattori, Google sfrutterebbe il materiale delle redazioni senza pagare alcunché alle testate ma anzi, guadagnando, anche grazie ad esso, in virtù degli annunci sponsorizzati del proprio circuito.
Gli editori, in alcuni stati, hanno perciò iniziato a riunirsi in consorzi (es. VG Media con oltre 200 editori tedeschi) chiedendo a gran voce che i propri rappresentanti politici si adoperino per tutelare il copyright dei loro contributi e per imporre a Google e altri aggregatori il pagamento di una fee (sintetizzata in Google Tax) per rendere pubblica la preview dei contenuti delle varie testate.

E’ interessante notare come la decisione di Springer che, sulla base del calo di traffico – sceso del 40% dal motore di ricerca e dell’80% da Google News – ha deciso di tornare ad adottare una posizione meno intransigente, susciti riflessioni opposte nei due schieramenti “in campo” (o forse, per meglio dire, “in rete”).
Se Mathias Doepfner, Chief Executive di Springer, sottolinea come quanto accaduto sia la prova più lampante della posizione dominante di Google nel mercato del search e quando sia stata discriminante la scelta del gruppo editoriale di provare a limitare il motore di ricerca (alcuni hanno notato come la marcia indietro del gruppo sia stata pressoché contemporanea all’annuncio dei dati che mostrano un utile ancora in discesa per il gruppo editoriale a causa, soprattutto, di incassi minori dalla pubblicità a stampa), dalla sede Google in Germania si fa notare come i numeri emersi dalla vicenda dimostrino quanto l’azienda californiana sia importante per il contributo fornito all’economia dell’informazione online.

Se è vero che Google guadagna dalla pubblicità veicolata attraverso l’indicizzazione di contenuti non propri nella SERP (il ragionamento che vale per le testate risulta valido, su scala minore, anche per i blog) è altrettanto vero che è proprio grazie al motore di ricerca o all’aggregatore di notizie Google News che i contenuti possono essere trovati dagli utenti, sempre più inclini a interrogare la Rete piuttosto che a visitare le homepage delle varie testate.

La questione, seppur delicata, sembra però una sorta di diversivo rispetto a una problematica ben più complessa: Google per il mondo dell’editoria pare essere più un’opportunità che una minaccia, ciò che continua a mancare è un modello (valido) di business che consenta alle testate di finanziarsi a prescindere dagli strumenti che gli utenti usano per trovare i contenuti informativi.

Un po’ come guardare il dito di chi indica il cielo.

Il medium è i (propri) messaggi: la lezione del Financial Times

Whic FT reader are you?

Img: ft.com

Da alcune settimane l’autorevole Financial Times ha adottato una nuova veste per il quotidiano cartaceo e per il proprio spazio online. In occasione del restyling, il NeimanLab ha pubblicato una lunga intervista a Gillian Tett, U.S. managing editor del FT, dalla quale emerge come la caratteristica primaria dell’approccio adottato dal giornale economico-finanziario inglese sia la flessibilità.
In sintesi, oggi non è più sufficiente limitarsi a proporre la testata come digital-first e/o digitally focused, ma il giornale entra davvero nell’era digitale nel momento in cui riesce a far fronte alle diverse esigenze degli utenti.
Se è vero che l’evoluzione dalla stampa al digitale coinvolge molti lettori (ma non ancora tutti, per cui al momento non si può ancora prescindere dal quotidiano cartaceo), è altrettanto vero che nell’arco della giornata uno stesso utente si informa utilizzando differenti strumenti. L’unità di misura della stampa, il lettore, è oggi una realtà decisamente complessa: è il singolo individuo infatti, nel proprio consumo di notizie, ad essere sfaccettato.
La mattina, ad esempio, tra una riunione e l’altra, l’utente desidera essere aggiornato con tempestività e sintesi sulle breaking news, notizie da scorrere facilmente con lo smartphone (proprio sulla base di questa necessità sono declinate le opzioni fastFT e FT Antenna del Financial Times). La sera, invece, al termine di una giornata lavorativa, avendo maggior tempo a disposizione, può voler optare per le cosiddette “big page”, articoli lunghi e dettagliati che presentano il contesto nel quale gli avvenimenti principali si sviluppano.

Il digitale, in altre parole, accompagna l’evoluzione del giornale che – come dimostra l’esempio del FT – sta iniziando a proporsi come un’entità camaleontica in grado di adattare linguaggio e contenuti in base alle richieste dagli utenti. La celebre espressione di McLuhan: “il medium è il messaggio” forse andrebbe aggiornata con una versione 2.0 del tipo “il medium è… i (propri) messaggi”.

La flessibilità va intesa però come punto di arrivo non di partenza. A precederla, due “leve” alla base anche degli sviluppi del FT: la capacità di analizzare i dati a disposizione per individuare le esigenze del proprio bacino di lettori; e quella di innovare, creando nuovi strumenti (in questo senso da seguire gli sviluppo della collaborazione sui wearable device, gli strumenti che si indossano, tra FT e Samsung Gear) in grado di migliorare la fruizione delle notizie.

Tesoro, mi si è ristretta la copertina

La questione del diritto d’autore su web è una di quelle tematiche che, nonostante l’evoluzione della Rete, continua a restare spinosa. Per sua natura il contenuto digitale presuppone l’aspetto della duplicazione, quasi impossibile imbrigliare gli utenti vincolandoli al rispetto di una ferrea disciplina che tuteli chi i contenuti li produce. Tracce audio, film e serie tv che si scaricano con software peer-to-peer, partite in streaming che si guardano in una diversa lingua, video di trasmissioni televisive “specularmente” editati, blog che ripropongono post di altri spazi, sono solo alcuni dei molti esempi seguendo i quali superare il concetto di proprietà intellettuale.
Pur seguendo gli sviluppi del dibattito (soprattutto in occasione del mancato rinnovo della collaborazione tra Rai e YouTube) non mi sono mai appassionato sino in fondo alla questione, almeno sino a ieri.
Lo scorso mercoledì ho infatti casualmente scoperto qualcosa che mi ha lasciato – uso un eufemismo – sconcertato. Navigando nella sezione Bibliotech di Key4Biz (nella quale era appena stata pubblicata la segnalazione del mio “Web Marketing: questione di metodo”), tra i libri proposti ho notato qualcosa di molto familiare.
La copertina di un testo di nuova pubblicazione (la metà sulla destra dell’immagine qui sotto), usava parte della grafica di quello che è il fronte del mio News(paper) Revolution.

copertina_usata_senzapermesso

Mi sono sentito intimamente defraudato. Perché la copertina l’ho pensata in prima persona (mia l’idea di aeroplani di carta di giornale guidati da utenti che “puntano” gli strumenti digitali; copertina materialmente realizzata su mie indicazioni dalla bravissima Valeria De Angelis) ed è una delle parti del libro che mi rendono più orgoglioso.
Nessuno ha chiesto al sottoscritto, a Valeria o all’editore (Fausto Lupetti Editore) il permesso di usare la grafica del mio saggio, vederla ripresa – in maniera grossolana – in un altro libro è stato davvero un colpo al cuore. Se poi aggiungiamo che il testo è edito da una realtà di Padova (mia città natale nella quale vivo), che tratta argomenti affini alla mia prima opera in solitaria e che è scritto da un “addetto ai lavori”, il quadro risulta forse ancora più grottesco. Non ho modo né voglia di individuare le eventuali responsabilità, non mi interessa sapere se sia una casualità o meno. Per quanto mi riguarda – anche se ammetto di non essere un esperto – si tratta di una probabile violazione del copyright ragione per cui ho dato mandato al mio legale di approfondire quanto accaduto.

Se è vero che il web è per molti versi baluardo di libertà ciò non significa necessariamente che tutto ciò che è in Rete si possa liberamente utilizzare. Internet non è completamente altro dal cosiddetto “mondo reale”, non si tratta di un luogo virtuale quanto anarchico, non va pensata come una sorta di frontiera dove tutto è lecito. Il web è parte della nostra quotidianità, spesso basterebbe anche solo il buon senso.

Ai posteri (meglio se avvocati), l’ardua sentenza.

p.s. = diffidate dalle imitazioni, mi raccomando!

[update: la controversia si è risolta con l’impegno della casa editrice a comunicare nel sito, nel materiale informativo relativo al libro e in un avviso da inserire nelle copie cartecee del testo, il copyright dell’immagine tratta dalla copertina del mio saggio]

Le storie più che le notizie salveranno il giornalismo?

Alcune settimane orsono, il Washington Post ha lanciato Storyline, una nuova iniziativa editoriale che propone su web il giornalismo narrativo alla Truman Capote.
In estrema sintesi, si tratta di raccontare storie (spesso legate ad un singolo individuo) attraverso le quali semplificare temi complessi. Non necessariamente fatti legati alle breaking news, le analisi approfondiscono una questione di pubblico interesse con frasi semplici, tono accessibile e precise spiegazioni di tutti i concetti espressi. Pezzi che sin dal titolo si pongono come obiettivo quello di trovare la risposta a una precisa domanda, superando lo sterile dibattito della politica e della finanza e preferendo concentrarsi – anche grazie a materiale multimediale e tabelle di dati – sull’impatto di una determinata questione nella vita di tutti i giorni delle persone. Storie che non si esauriscono nella pubblicazione dell’articolo ma che, nel corso delle settimane, seguono gli sviluppi della vicenda segnalata.

Il progetto, annunciato lo scorso gennaio, ha avuto il via ufficiale a fine luglio sotto l’egida di Jim Tankersley, giornalista economico del giornale. Proseguendo la strada già intrapresa dal New York Times con The Upshot e da ESPN con Five Thirthy Eight, è stato dallo stesso Tankersley così presentato:

“We care about policy as experienced by people across America. About the problems in people’s lives that demand a shift from government policymakers and about the way policies from Washington are shifting how people live.”

La lunga genesi di Storyline è probabilmente dovuta in parte allo stato di crisi del giornale e i timori pre-Bezos della testata circa il lancio di nuove iniziative, in parte all’uscita di scena della redazione dal WaPo con direzione Vox.com di Ezra Klein, (giovane e brillante) giornalista che nel 2011 lanciò Wonkblog, il blog di maggior successo della testata, diventato punto di riferimento proprio per la sua capacità di affrontare in maniera diretta e con semplicità temi “caldi” per il grande pubblico americano quali l’assistenza sanitaria (suo è anche l’interessante esperimento Know More di cui ho scritto qui).

E se fosse proprio lo storytelling l’antidoto per contribuire a salvare il giornalismo?

In un mondo, quello delle Rete, nel quale sono moltissimi gli spazi che aggiornano su ciò che sta accadendo nel mondo, la vera differenza per gli utenti la fanno i siti che “formano” più che “informano”, che riescono cioè a sviscerare i fatti affrontandoli con semplicità, che consentono di “capire” oltre che di “conoscere”.
Il lancio di agenzia è certo utile, ma da solo non poi così costruttivo.

Branded content e native advertising: differenze e punti di contatto

Nelle scorse settimane una giornalista che collabora con un mensile che si occupa di strategie di comunicazione mi ha contattato per chiedermi un commento sul native advertising. Tra le domande alle quali con piacere ho risposto, una mi è particolarmente dispiaciuto che non abbia trovato spazio nell’articolo sul rapporto tra editoria e pubblicità. Ho così deciso di riproporre i miei ragionamenti in un post. La questione sollevata dalla mia interlocutrice è stata molto semplice e diretta: qual è la differenza tra branded content e native advertising?

Il fenomeno dei contenuti brandizzati è esploso con la diffusione virale di video su YouTube creati dagli utenti. Non che prima non esistessero, ma è proprio grazie all’avvento dei social network che, in virtù della semplicità con la quale è possibile condividere un contributo, i numeri sono diventati rilevanti. Star Wars Kid, Numa Numa ed Evolution of Dance sono solo alcuni esempi di contenuti che registrano milioni di visualizzazioni frutto del passaparola spontaneo. Tali successi hanno inevitabilmente attirato l’attenzione dei brand che cominciano così a sperimentare realizzando video che puntano sulla diffusione “virale” nella Rete: contenuti con lo scopo di sorprendere più che di presentare un prodotto e le sue caratteristiche. Nascono così i Viral Branded Video che, giocando su originalità ed emozione, fanno leva sugli utenti (e sulle loro condivisioni ad amici, conoscenti e familiari) per diffondere i clip.
Uno degli esempi di branded content che ultimamente ha fatto più parlare di sé è il video First Kiss che con oltre 87 milioni di visualizzazioni ha colpito molti utenti (il video riprende 20 sconosciuti ai quali viene chiesto di baciarsi). Nei giorni successivi alla pubblicazione, quando il contenuto era già diventato un tormentone, si è scoperto come in realtà i protagonisti fossero attori e che si tratta dell’operazione pubblicitaria – davvero ben riuscita – di Wren, brand di moda di Los Angeles.

Il native advertising, invece, si rifà ai media tradizionali, mettendo in contatto la marca e le redazioni per creare contenuti che possano suscitare l’interesse degli utenti sfruttando l’autorevolezza della testata nella quale compaiono. E’ una forma di comunicazione che ancora deve trovare degli standard ben definiti ma che, in generale, si presenta sotto forma di contributi (articoli ma anche video o foto) sponsorizzati. Gli esperimenti in questo senso più interessanti a mio modo di vedere sono quelli che, un po’ come per alcuni dei viral branded video di maggior successo, alludono a un prodotto senza però limitarsi a mostrarne le peculiarità. Per cui, ad esempio, una delle prime “uscite” del native advertising è nata dalla collaborazione tra un noto brand di computer (Dell) con una famosa testata (New York Times) che ha pubblicato nel giornale un paid post sulle nuove generazioni e il loro modo di lavorare in mobilità.

Brand content e native adv fanno quindi riferimento a forme espressive differenti. Hanno tuttavia un punto in comune: il superamento dei classici format pubblicitari. Il fine ultimo di queste due modalità è infatti quello di entrare nel flusso comunicativo-informativo di solito precluso alla pubblicità. Le inserzioni, anche online, sono relegate entro precisi confini che gli utenti, nel corso degli anni, hanno ben imparato a conoscere (ed evitare?). Riuscire a trasformare in notizia qualcosa che richiami, direttamente o indirettamente, una marca o un prodotto, consentirebbe al messaggio di svincolarsi da banner e affini aumentandone così, almeno potenzialmente, l’efficacia.