Slant: tu scrivi, noi ottimizziamo, tu guadagni

Img: slantnews.com

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Il mondo del giornalismo fatica a trovare soluzioni per superare la crisi che da alcuni anni attanaglia anche le redazioni storicamente più autorevoli. Se modelli capaci di far fronte alla progressiva erosione degli introiti pubblicitari latitano, ciò non significa che l’attuale momento per alcune persone non possa rappresentare un’opportunità. Questo deve aver pensato Amanda Gutterman – giovanissima responsabile editoriale proveniente da Huffington Post – quando, con il suo team, ha dato vita a Slant News, ambiziosa start-up di crowdsourced journalism. In cosa consiste il progetto? Nell’offrire l’opportunità, a chiunque voglia raccontare una storia, di guadagnare sulla base del traffico generato dal proprio contributo. Apparentemente nulla di originale, la retribuzione legata alle performance degli articoli – nello specifico al numero di click che il sistema di monitoraggio registra (a tutti gli effetti un modello pay-per-click) – è una strategia utilizzata da numerose testate per retribuire i propri collaboratori. In realtà, Slant News, partendo da una pratica ormai largamente collaudata, è caratterizzato da due aspetti piuttosto originali: a differenza di altre piattaforme riserva il 70% della percentuale dei guadagni a chi ha realizza l’articolo (offrendo all’autore un pannello di controllo tramite il quale monitorare l’andamento del proprio contributo in termini di visualizzazioni e condivisioni) e, soprattutto, supporta chi sottopone un pezzo con il lavoro del proprio team editoriale che, oltre a verificare le informazioni contenute, migliora la proposta ricevuta ottimizzandola per fare in modo che ottenga quanta più visibilità possibile. In che modo? Controllando stile e correttezza ortografica, ma anche suggerendo immagini di maggiore impatto, parole chiave, collegamenti ipertestuali o titoli più affini a social network e motori di ricerca.

Dopo i primi due mesi di test con un numero limitato di autori, dallo scorso 25 settembre Slant è una piattaforma aperta a chiunque voglia proporre il proprio articolo. Anche da mobile. Oltre all’accesso dal sito, infatti, Slant offre anche un’applicazione per iPhone e Android tramite la quale risulta molto semplice navigare tra i contenuti pubblicati e, in caso, sottoporre alla redazione il proprio contributo.
Se per stessa ammissione della Gutterman, Slant non vuole proporsi quale piattaforma per facili quanto rilevanti guadagni (l’idea alla base è piuttosto: “proponi la tua storia, ci adopereremo per renderla affine al web di modo da aumentare le tue possibilità di guadagno”), il progetto rappresenta sicuramente uno spazio tramite il quale avvicinare i giovani al mondo del giornalismo. Sia in qualità di fruitori delle notizie (il tono utilizzato da chi scrive è generalmente piuttosto informale e diretto) che di autori di articoli su cultura, politica e sport.

P.S.= visitando il sito non ho potuto non notare, negli spazi riservati alla pubblicità, le inserzioni del Financial Times che, anche nel magazine (probabilmente proprio in virtù del target giovane al quale si rivolge) cerca nuovi abbonati.

News Feed il segreto del successo di Facebook?

Img: newsroom.fb.com

 

Da alcuni giorni il team di Facebook ha annunciato una nuova modifica al News Feed, l’algoritmo che regola il flusso di notizie visualizzato dagli utenti. Se l’obiettivo resta sempre quello di mostrare le storie più interessanti per il profilo che le scorre, da alcuni giorni per il pubblico statunitense, all’organizzazione automatica dei contenuti si affianca la possibilità di personalizzare, almeno in parte, il controllo del flusso comunicativo. Ogni utente ha modo infatti di selezionare amici e pagine i cui contributi vedere prima, definendo quindi le proprie priorità.

La storia del News Feed è piuttosto interessante. Non solo perché ogni cambiamento nell’algoritmo che lo regola inevitabilmente finisce per influenzare ciò che ognuno di noi visualizza accedendo a Facebook, ma anche perché il News Feed è il fulcro del social network, sicuramente uno degli aspetti sui quali Mark Zuckerberg e soci investono molto.

Il lancio del News Feed è datato settembre 2006, prima Facebook – come suggerisce il nome –era essenzialmente una raccolta di profili nei quali gli utenti potevano indicare i loro hobby, la loro band preferita, caricare foto, scrivere nelle bacheche degli amici, ma nei quali alle diverse azioni non era data molta rilevanza. Con il diffondersi del social network gli sviluppatori si accorsero però che un numero sempre maggiore di utenti sceglieva di visualizzare la sezione dedicata alle modifiche dei profili degli amici. Gli ingegneri decisero così di semplificare la modalità in base alla quale restare informati circa gli aggiornamenti del proprio network di amici lanciando appunto News Feed.
Curiosamente, la novità non fu accolta benissimo: dando maggior risalto alle azioni – in tempo reale si iniziò ad essere informati su ogni singola modifica nei profili degli amici – gli utenti come mai prima si videro inondati di notifiche. Tanto che, non abituati, in molti si riunirono in gruppi quali “Students Against Facebook News Feed” chiedendo ai vertici del social network un passo indietro. Il malumore fu così acceso che lo stesso Zuckerberg si trovò “costretto” a tranquillizzare gli utenti invitandoli a vedere News Feed come una interessante modalità per restare informati sulle novità nella vita degli amici.

Con il debutto, nel 2009, del pulsante “like” attraverso il quale gli utenti iniziarono ad interagire con l’algoritmo alla base del News Feed (indicando al sistema i contributi più interessanti e ai quali dare maggiore visibilità) le dinamiche cambiarono notevolmente.

Dall’osservazione del comportamento degli iscritti, Facebook arrivò allo sviluppo, nel 2011, del cosiddetto EdgeRank, una formula più complessa per la gestione delle notizie da mostrare, in grado di “adattarsi” alle esigenze degli utenti differenziando ogni profilo sulla base (essenzialmente) di tre variabili: affinity, weight, decay. Con il parametro affinity l’algoritmo valuta le relazioni tra gli utenti misurando il grado di interazione tra i profili e premiando i contenuti di chi è riuscito a generare un numero maggiore di like, di commenti, di condivisioni; il concetto di weight, invece, fa riferimento alla tipologia di status: foto e video hanno la priorità su semplici link che a loro volta vengono visualizzati prima degli aggiornamenti di solo testo (anche commenti e like contribuiscono ad aumentare il “peso” di un contributo pubblicato); (time) decay, infine, valuta il tempo trascorso dalla messa online del contributo.

La ricerca di Facebook continua, gli aggiornamenti del News Feed sono ormai a cadenza (quasi) settimanale e oltre alla possibilità di personalizzare manualmente il proprio flusso di aggiornamenti, da alcune settimane l’algoritmo tiene in considerazione anche il tempo speso sul singolo post per valutare il grado di interesse di uno status (enfatizzando maggiormente i contenuti degli amici rispetto a quelli delle pagine).

Quindi presente e futuro passano sicuramente da News Feed. Non solo perché più efficace sarà l’algoritmo più tempo ognuno di noi spenderà su Facebook, ma soprattutto perché più attenzione il flusso informativo sarà in grado di catturare più introiti dagli inserzionisti il social network riuscirà ad ottenere.

Per i brand, la sfida per ottenere una relazione sempre più stretta con gli utenti è iniziata. Perchè ormai il “mi piace” può non bastare più.

Verizon e AOL puntano su mobile e video adv. E i contenuti?

Img: adage.com

Quando alcuni giorni fa si è diffusa la notizia circa l’annuncio da parte di Verizon – colosso statunitense della telefonia – di aver raggiunto l’accordo per l’acquisto di AOL (4,4 miliardi di dollari, 50 dollari ad azione), molti hanno sottolineato come l’operazione sancisse il successo dei “contenuti”. In effetti AOL, nel corso degli anni, ha saputo trasformarsi da provider e gestore di servizi (chi non ricorda C’e posta per te?) in una delle più rilevanti realtà statunitensi del comparto digital media con, nella propria faretra, frecce quali The Huffington Post, TechCrunch e Engadget.
L’impressione però è quella che Verizon non si appresti ad acquistare AOL per le redazioni – seppur di primo piano – quanto per ciò che tiene uniti i diversi spazi informativi, l’Ad Network. Seguendo una strategia differente da quella del “rivale storico” Yahoo – che ha puntato su tecnologie di contenuti quali Yahoo Answers e Tumblr – AOL ha focalizzato i propri sforzi economici nello sviluppo di una piattaforma pubblicitaria in grado di sfruttare, oltre agli spazi di proprietà, anche un network di altri siti (più di 450 publisher) attraverso i quali diffondere i messaggi pubblicitari dei propri inserzionisti.
Inoltre, con l’acquisto nell’estate 2013 di Adap.tv, AOL ha voluto nuovamente imprimere un cambio di velocità all’azienda. Facendo tesoro della propria esperienza nel campo del display advertising, infatti, AOL ha deciso di scommettere sul formato video, evoluzione interattiva e multimediale del banner.
In realtà AOL ha dimostrato un certo interesse per i video non solo sotto il profilo meramente pubblicitario quanto anche dei contenuti di intrattenimento: AOL Originals e Huffington Post Live rappresentano due degli esperimenti con il maggior seguito. Con il primo AOL si cimenta nella vera e propria produzione di contenuti video premium, con il secondo fa concorrenza online ai canali all news televisivi.
In fondo, è lo stesso Tim Armstrong, CEO di AOL che, informando i dipendenti della trattativa con Verizon, ha presentato l’azienda come una “media platform company” che, vinta la sfida del video, punta ora al successo nel mobile. Con percentuali sempre più in crescita di traffico in mobilità (Armstrong indica in 80% la percentuale della media consumption prevista per i prossimi anni), poter contare su un’infrastruttura come quella di Verizon potrebbe consentire a AOL di, diciamo così, chiudere il cerchio imponendosi sul mercato pubblicitario come punto di riferimento.
Non stupisce dunque che, proprio mentre nel quartier generale di New York si brindava alla vendita di AOL, tra i giornalisti dell’azienda iniziasse a serpeggiare qualche timore. Prima di tutto per l’indipendenza verso un colosso che su temi quali la net neutrality e la privacy online non si è dimostrato apertissimo al confronto. E, in secondo luogo, vista la difficoltà di rendere l’industria del giornalismo online scalabile e profittevole, la paura riguarda potenziali cambi nella strategia del neonato gruppo che potrebbero portare a un ridimensionamento proprio dei contenuti. Malgrado questi siano necessari ai video pubblicitari.

FOLD, la piattaforma che “piega” il testo alla multimedialità

fold

Dalla scorsa estate seguo gli sviluppi di un interessante progetto realizzato sotto l’egida del MIT Media Lab, chiamato FOLD che, alcuni giorni fa – precisamente in data 22 aprile – è stato pubblicamente lanciato. L’ambizioso obiettivo di FOLD è quello di supportare i contenuti multimediali per rendere l’esperienza di lettura interattiva e accattivante. Nato dalla sfida lanciata da Ethan Zuckerman a una classe di studenti del corso “Future of News and Participatory Media”, il primo prototipo di FOLD è stato realizzato da Kevin Hu e Alexis Hope: una storia di sei paragrafi nella quale al testo vengono affiancate mappe, video e immagini. Insomma, qualcosa di analogo a Snow Fall, l’articolo-racconto del 2012 del New York Times che proprio in virtù dell’originale unione di testo e contenuti multimediali (video, animazioni e grafica) si aggiudicò un Premio Pulitzer. Ma molto più semplice da realizzare (anche se certo, non dello stesso impatto grafico).
I buoni giudizi sulla proposta convincono Hope a proseguire lo sviluppo di FOLD quale sua tesi del master consentendole, contemporaneamente, di ottenere la supervisione del MIT. E, pochi giorni fa FOLD ha iniziato ad essere a disposizione degli utenti che possono leggere e caricare le loro storie.
In sintesi FOLD è una piattaforma open source che consente la pubblicazione di storie modulari: chiunque scriva un testo può associare con semplicità a ciascun paragrafo delle “context card” quali video, mappe, tweet, audio, gif animate, slide e altre visualizzazioni interattive. L’idea è appunto quella di superare il testo, contestualizzando grazie a degli inserimenti multimediali che ne definiscono meglio il significato.
Lo schermo è diviso essenzialmente in due colonne: alla sinistra il testo, alla destra gli elementi multimediali a cui lo scritto rimanda. In alto una immagine di testata. Il pannello di controllo che consente di inserire le context card mi ricorda Storify: nel menu si può scegliere la tipologia di elemento da caricare con la possibilità di creare una sorta di scheda che funge da anteprima testuale per consentire all’utente di capire a cosa la card rimanda.

Una volta terminata questa scrittura multimediale, il pezzo può essere condiviso (via Twitter o Facebook) e/o salvato – previa registrazione – tra i preferiti (a breve, secondo quanto riportato nelle FAQs, sarà possibile anche combinare “card” di diverse storie e diversi autori).

L’elemento nuovo è la possibilità che FOLD offre agli utenti di visualizzare i rimandi multimediali di un testo nella stessa schermata di quest’ultimo. I link, in altre parole, non rimandano ad altre fonti esterne al sito ma viene creata una struttura a livelli formata da più elementi che contribuiscono al racconto.

Per coloro che invece si occupano di storytelling, l’originalità di FOLD sta nel proporre una piattaforma semplice e intuitiva che consente a chiunque di scrivere in maniera multimediale e interattiva.

In bocca al lupo al giovane team di FOLD, bel progetto!

FOLD Authoring preview from Alexis Hope on Vimeo.

Il formato giornale è diventato obsoleto?

Img: slideshare.net

Nelle mie analisi – su blog e in News(paper) Revolution – ho focalizzato l’attenzione sulle soluzioni mediante le quali il giornalismo “tradizionale” tenta di rispondere alle sollecitazioni provenienti dal web dando forse per scontato che fosse l’intero comparto legato al “quarto potere” a doversi adattare ai social media, all’informazione su mobile e a tutte le altre peculiarità delle Rete. E se, invece, il fulcro del cambiamento in atto non fosse strutturale ma bensì legato al formato attraverso cui il “quarto potere” si è per anni concretizzato? Se, in altre parole, fosse il formato “giornale” ad essere entrato in crisi non rispondendo alle esigenze delle persone, più che la routine lavorativa che produce e distribuisce le notizie?

A scatenare in me le riflessioni sul concetto di “quotidiano” è stata la notizia pubblicata da molte redazioni circa la scelta di tre delle maggiori testate statunitensi – New York Times, Wall Street Journal e Washington Post – di aderire al progetto Blendle distribuendo attraverso la start-up olandese i propri articoli. In realtà il New York Times – con un altro gigante editoriale quale Alex Springer Digital Ventures – già lo scorso ottobre aveva dimostrato un notevole interesse per Blendle, contribuendo al progetto con un investimento di 3 milioni di euro. Obiettivo dichiarato: espandere il servizio a mercati europei al di fuori dell’Olanda per verificare la bontà dell’iniziativa.
In una bella intervista pubblicata su Contently, Marten Blankesteijn, co-founder di Blendle, ha spiegato il ragionamento alla base del servizio: i lettori che sono ben predisposti ad un abbonamento digitale trovano oggi molti valide alternative; chi invece non vuole abbonarsi perché non gradisce le modalità/i costi degli abbonamenti proposti o perché non apprezza la testata a tal punto da volersi legare ad essa in maniera continuativa, non ha invece molta scelta (questo ragionamento è valido soprattutto fuori dall’Italia, dove le principali testate adottano il paywall che, senza abbonamento, consente la fruizione gratuita di un numero limitato di articoli al mese). Non è detto però che chi non sottoscrive un abbonamento non sia disposto a pagare per informarsi. Ed è proprio qui che entra in gioco Blendle: una volta registrati e caricato del denaro nel proprio portafogli virtuale (es. 10 o 20 euro), l’utente può scegliere uno degli articoli da leggere tra i giornali e le riviste in database, pagandolo singolarmente una cifra che solitamente si aggira tra i 15 e i 30 centesimi a pezzo. Con inoltre la possibilità, una volta terminata la lettura, di vedersi restituita la cifra se l’articolo non soddisfa appieno le aspettative. Una vera e propria rivoluzione: gli articoli all’interno di Blendle sono proposti in maniera autonoma rispetto alla loro testata di riferimento ed entrano in diretta competizione tanto con gli altri pezzi dello stesso giornale quanto con gli articoli dei gruppi editoriali concorrenti. Il sistema consente di seguire gli articoli legati ad un determinato argomento e di essere informati circa i contenuti scritti da uno specifico giornalista.

Dal punto di vista finanziario, della cifra pagata dall’utente, il 30% resta a Blendle, il 70% viene riconosciuto alla testata.

Per stessa ammissione dei fondatori, Blendle non si configura come alternativo ai sistemi un uso oggi nelle testate, quanto piuttosto va a completare il panorama informativo offrendo agli utenti l’opportunità di una fruizione delle notizie trasversale alle testate.

Se il sistema può sicuramente fungere da incentivo per un giornalismo di qualità – le redazioni devono impegnarsi ancora di più per guadagnare, pezzo dopo pezzo, il favore degli utenti – restano almeno due i punti da chiarire.
Quanti articoli al mese, in media, un utente acquisti (in questo modo si potrebbero fare valutazioni sulla sostenibilità del servizio) e in che modo il superamento della “cornice” giornale – con le prime pagine nelle quali trovano posto notizie su diversi argomenti – finisca con l’influire nella conoscenza del mondo da parte del lettore.

I micro-pagamenti sconvolgeranno il mondo del giornalismo in maniera analoga a quanto accaduto con gli store digitali per la musica?

p.s.= ho provato a contattare il team Blendle per chiedere dei numeri; mi hanno risposto che le uniche che possono rendere pubbliche sono i 230.000 subscribers dei quali il 21% paying users.

Gigaom e l’integrità del giornalismo online

Img: about.me/gigaom

Tra gli addetti ai lavori – ma anche tra i semplici appassionati di tecnologia – ha fatto un certo scalpore leggere lo striminzito annuncio tramite il quale Gigaom ha ufficialmente informato di aver cessato, in mancanza di denaro per pagare i creditori, la propria attività. Fondato nel 2006 da Om Malik – ex giornalista di Forbes – il blog, raccontando l’ascesa delle società in orbita Silicon Valley, è riuscito nel giro di pochi anni ad accreditarsi nel panorama informativo legato alle nuove tecnologie superando la ragguardevole cifra dei 6,5 milioni di lettori unici al mese.
A inizio 2012, lo spazio, diventato nel frattempo a tutti gli effetti una media company (anche in virtù dei 15 milioni di capitale stanziati da vari investitori), acquisisce dal Guardian News Media, ContentNext, società che controlla alcuni siti tra i quali spicca paidContent, spazio specializzato nell’analisi della sfera digitale legata ai media. Un affare, questo, che consolida la posizione di Gigaom anche nei confronti degli agguerriti siti “rivali” che, con l’acquisto da parte di AOL di TechCrunch e di ReadWriteWeb ad opera di SAY Media, dimostrarono la vitalità del settore informativo legato alle nuove tecnologie.

Gigaom, in realtà, non è (era?) però solo news: è diventata anche un laboratorio di ricerca con un network di oltre 200 analisti indipendenti (Gigaom Research) e una realtà che organizza eventi sui trend emergenti (Gigaom Events) quali, ad esempio, focus sulla cosiddetta “internet delle cose”, la tecnologia cloud o gli aspetti strategici dell’utilizzo dei metadata. Una società, dunque, apparentemente più che valida. Soprattutto alla luce del nuovo finanziamento (8 milioni di dollari) che a inizio 2014 era sembrato certificare la bontà del progetto di Malik (Malik che, in concomitanza con il sopracitato finanziamento, decide però di lasciare il timone della società).

Molti tra gli addetti ai lavori, commentando quanto accaduto, hanno sottolineato come Gigaom fosse, all’interno del comparto informativo, uno spazio che con orgoglio rivendicava l’avversione nei confronti del clickbait, la pratica che consiste nel pubblicare contenuti di dubbia qualità finalizzati esclusivamente a generare click e, quindi, almeno potenzialmente, maggiori entrate pubblicitarie. Focalizzando il lavoro della redazione sull’aspetto più giornalistico (piuttosto che, parole di Malik, “pregare all’altare di pageview e metriche pubblicitarie che non fanno altro che svalutare il tempo e l’attenzione del pubblico di lettori”), la testata ha evitato il ricorso alle forme pubblicitarie più “invasive” nei confronti degli utenti quali il native advertising, gli auto-play video o gli overlay.

Fine di un sogno? O di un modello di giornalismo (quello del free-for-all)?

Il Financial Times e l’economia dell’attenzione

Img: ft.com

Il Financial Times è uno dei quotidiani che ha meglio saputo affrontare la sfida del digitale. Lo testimoniano anche gli ultimi dati diffusi dalla testata che vedono, nel 2014, un incremento dei profitti: +10% annuo nella circolazione del giornale su carta e online, e un +21% negli abbonamenti (il cui 70% è rappresentato da digital subscriptions). Il FT è stato tra i primi a vagliare su web l’approccio basato sul cosiddetto paywall. Semplificando, tale strategia consente a chiunque di leggere 3 articoli gratis al mese, superati i quali, per proseguire nella fruizione del materiale della testata, si richiede la sottoscrizione di un abbonamento. Un metodo che, in un mondo – quello della Rete – nel quale ancora oggi la gratuità del contenuti è assai diffusa, a molti è inizialmente sembrato azzardato ma che, in virtù della qualità dei pezzi del giornale e della sua rilevanza nel panorama economico-finanziario, si è dimostrato di successo (le 720.000 “copie” tra carta e web del 2014, pur non essendo un numero altissimo, rappresentano il record per la testata).
Nonostante i buoni risultati, il FT ha però deciso di modificare la propria strategia. Da marzo, infatti, il paywall è proposto in una versione aggiornata: non più 3 articoli al mese gratis ma, un mese di accesso senza limiti alle risorse del quotidiano alla cifra simbolica di 1 dollaro. Terminato il mese di “prova”, all’utente sarà proposto l’abbonamento annuale che, nella sua versione base, ammonta a 335 dollari. Questo cambio, secondo John Ridding, CEO di FT, dovrebbe portare ad un ulteriore aumento degli abbonamenti che si stima possa essere compreso tra l’11 e il 29%.

Alla base della scelta della testata – per certi versi inaspettata, per l’intero comparto media online, il paywall di FT ha rappresentato una delle poche certezze – vi sono dei cambiamenti nelle proposte che il giornale riserva agli inserzionisti. Se è vero che la maggior parte degli introiti del quotidiano derivano dagli abbonamenti, FT sta tentando di individuare nuove opportunità legate alla pubblicità.
In virtù del fatto che, come spiegato da Jon Slade, responsabile del comparto digital advertising del FT, i lettori online della testata restano nel sito mediamente sei volte di più che in qualsiasi altro spazio di notizie economico-finanziarie, i vertici di FT hanno iniziato a proporre agli inserzionisti una metrica alternativa (o, quantomeno, complementare) a impression e click. Si tratta del cost-per-hour (CPH), quello che potrebbe presto diventare uno dei nuovi standard del mercato pubblicitario online.
Se, come dimostrato da Chartbeat – partner FT nello sviluppo del progetto per la parte di analisi del comportamento degli utenti – più un individuo è esposto a un messaggio pubblicitario, più alta è la sua propensione all’interazione – sia in termini di brand recall (letteralmente, richiamo di marca) che più genericamente di engagement – riuscire a far tesoro del “tempo speso” dai lettori all’interno del sito potrebbe rappresentare per la testata un (nuovo) punto di svolta.
FT sembra quindi aver deciso di puntare sulla cosiddetta economia dell’attenzione. La sfida, tutt’altro che semplice, è quella di riuscire a catturare il lettore facendolo rimanere il più a lungo possibile all’interno dei “confini” del giornale.
Strategia che sembra diametralmente opposta a quella in uso negli spazi che, facendo massiccio ricorso a classifiche e gallerie fotografiche, costruiscono i propri contenuti per una lettura veloce e una rapida condivisione.

Quale modello avrà la meglio?

La policy editoriale di BuzzFeed

Img: @buzzfeed twitter account

BuzzFeed è sicuramente uno degli spazi informativi più originali che, dal 2006 ad oggi, ha saputo sfruttare al meglio le caratteristiche del web creando uno stile proprio, di successo soprattutto tra i giovani. La fascia d’età 18-34 rappresenta, infatti, secondo le cifre pubblicate nel sito, il 50% degli oltre 175 milioni di visitatori unici al mese che BuzzFeed fa registrare. A conferma di ciò, anche i dati di traffico al sito: 50% da mobile (percentuale in salita), 75% del traffico da canali social, cifre che identificano un bacino di lettori solitamente molto difficile da raggiungere (e ancora di più da mantenere) da parte dei media tradizionali.
Numeri decisamente accattivanti per molti inserzionisti che, nel team di BuzzFeed, hanno potuto trovare un valido supporto (oltre che un valido canale di trasmissione) per la creazione di contenuti appositamente pensati per essere condivisi in maniera diffusa. Quiz, infografiche, video e divertenti liste sono solo alcuni degli esempi attraverso i quali una marca, con il supporto dello staff di BuzzFeed, può riuscire ad intercettare il pubblico con i propri messaggi e valori.

Se dalle (sintetiche) informazioni fornite nella sezione advertise del sito appare piuttosto chiaro il risultato finale di una potenziale collaborazione tra un brand/un’agenzia e il reparto di creativi di BuzzFeed, poco o nulla viene riportato circa l’applicazione concreta del processo “produttivo” che ogni giorno crea i contenuti della testata.

Sul finire dello scorso gennaio, però, BuzzFeed ha pubblicato una sorta di “guida” a disposizione di dipendenti, collaboratori e lettori che delinea gli standard del lavoro editoriale della testata.

Con l’obiettivo di unire il meglio di tradizione e innovazione, il documento rappresenta una sorta di riflessione “pubblica” per identificare la strada entro la quale crescere e proseguire lo sviluppo della internet news media company.

Di spunti interessanti ce ne sono molti, ecco quelli a mio giudizio più rilevanti:

1) le informazioni devono provenire da fonti confermate; Wikipedia e altri spazi modificabili da più utenti non possono essere considerati la fonte di una storia;
2) i riferimenti ad altri spazi informativi vanno indicati con citazioni esplicite alla testata e al link dell’articolo;
3) estratti da comunicati stampa vanno segnalati;
4) i giornalisti sono incoraggiati a contattare utenti Twitter e Instagram di cui desiderano utilizzare il materiale, soprattutto in caso di contenuti sensibili;
5) nessun articolo editoriale può essere cancellato; se alcune delle informazioni diventassero obsolete o si dimostrassero non corrette, sarà possibile aggiornare l’articolo inserendo delle note esplicative per i lettori;
6) le fonti non vengono retribuite per le interviste che rilasciano; interviste via email, Facebook messanger o Gchat sono permesse, ma quelle di persona sono spesso molto interessanti;
7) per immagini forti dovrebbe essere utilizzato il tool grafico che consente di coprirle lasciando all’utente la facoltà di scegliere se visualizzare o meno il contenuto;
8) gli articoli devono essere rigorosi, neutrali e devono anteporre fatti e notizie al resto;
9) simpatie politiche e commenti di parte non dovrebbero essere espressi pubblicamente, né attraverso forum o social media quali Twitter e Facebook; in particolare da chi si occupa della sezione News; per i membri dello staff News non sono inoltre permesse donazioni in denaro (ma anche in termini di tempo) per candidati politici o campagne politiche;
10) BuzzFeed conta sulla capacità del proprio team di offrire ai lettori indagini accurate, servizi utili e intrattenimento nella netta separazione tra advertising content e editorial content. Il lavoro di reporter, giornalisti ed editor è completamente indipendente da chi si occupa di vendere gli spazi pubblicitari e da chi li compra; chi si occupa della creatività delle inserzioni risponde al comparto business di BuzzFeed, non alla redazione editoriale; la collaborazione tra diversi staff è incoraggiata ma non nel caso di campagne pubblicitarie in occasione delle quali vige una divisione netta e chiara tra i reparti e le mansioni;
11) gli investitori di BuzzFeed non influenzano il lavoro dello spazio informativo.

Nessuna eclatante rivelazione ne sono consapevole, ma resta comunque importante intravedere i punti di riferimento di una realtà nata come fucina di contenuti “virali” che via via ha visto crescere le proprie ambizioni informative.

La sfida di contribuire a creare nuovi modelli per il giornalismo – ciò che pare aver “conquistato” Ben Smith, ex Politico.com e dal 2011 editor-in-chief di BuzzFeed – resta ancora da vincere.

Reuters TV: quando il broadcaster punta forte sul mobile

Img: reuters.tv

Dallo scorso 4 febbraio è disponibile su iTunes, Reuters TV, la nuova applicazione della famosa agenzia stampa britannica.
La sintesi della presentazione del servizio, onestamente, mi ha davvero colpito. Se l’obiettivo del team di sviluppo era quello di reinventate la tv e il modo di “consumare” le notizie, per quello che ho potuto vedere, le premesse sembrano esserci tutte.
Certo, è prematuro tirare dei bilanci ma Reuters TV sembra possedere le caratteristiche idonee per fare breccia nel vasto pubblico utilizzando al meglio l’enorme mole di contributi di qualità dei 2500 giornalisti sparsi in 200 differenti luoghi del pianeta (qualcosa come 100.000 video realizzati all’anno dalla testata).
La app è strutturata in due sezioni principali: Reuters Now e Feed.
Nella prima vengono proposte le notizie principali: facili di scorrere, presentano i filmati relativi ai fatti più rilevanti. Sulla parte alta dello schermo, in base alle esigenze di tempo,
l’utente può scegliere il grado di approfondimento della news indicando la lunghezza dei contenuti da visualizzare: le versioni dei contributi vanno dei 5 ai 30 minuti; l’applicazione consente in ogni momento di interrompere una video-notizia e passare alla successiva: l’operazione consentirà al sistema – in maniera analoga a quanto avviene, per esempio, con Flipboard – di “captare” gusti e interessi dell’utente personalizzando così il flusso informativo non solo sulla base della parametro legato alla geolocalizzazione ma andando incontro alle concrete esigenze dell’utilizzatore di Reuters TV.
Molto interessante anche l’opzione “Offline payback” che consente di programmare il download automatico delle notizie di modo da poterne poi fruire anche in assenza di segnale.

La sezione Feed, invece, è quella da scegliere per seguire gli avvenimenti live: senza alcun tipo di filtro o interruzione, l’utente avrà modo di seguire gli eventi più importanti in tempo reale. Non solo dirette video ma anche social integration: ai filmati, volendo, si possono affiancare i tweet più interessanti dei protagonisti di ciò che sta avvenendo o di chi sta commentando quanto accade.

L’utilizzo di Reuters TV è gratuito per i primi 30 giorni, poi richiede un abbonamento di 1,99 dollari al mese. Per quel che riguarda la pubblicità, le dichiarazioni in merito sono state piuttosto generiche: il comunicato stampa infatti parla di limited premium advertising senza però entrare nello specifico circa le modalità offerte agli inserzionisti.

Alcune testate, sintetizzando la notizia del lancio di Reuters TV, hanno paragonato il servizio a Netfix. Le parole di Isaac Showman, Managing Director di Reuters TV, presentando l’applicazione, in realtà hanno indicato Reuters TV non come il “Netfix delle news” ma come il modo di intendere le notizie nell’era di Netfix: personalizzate, continuamente aggiornate e on-demand.

La app è ottimizzata per iPhone, richiede iOS 8, ed è – anche in virtù delle valutazioni più che positive su iTunes – sicuramente da provare. Per informarsi ma, al contempo, anche per capire se possa rappresentare uno strumento sul quale puntare per rinnovare il mondo del broadcasting informativo.

Andrew Sullivan lascia, The Dish chiude. Peccato.

Img: dish.andrewsullivan.com

E’ passato poco più di un anno dal post nel quale cercavo di analizzare i numeri di The Dish. Nonostante il breve lasso di tempo trascorso da allora, sono – purtroppo – qui oggi a scrivere circa la fine dell’avventura di Sullivan e collaboratori. Con vivo rammarico, non lo nascondo.
Perché, pur non essendo un abbonato, dall’inizio dell’avventura “indipendentista” di Sullivan ho sempre tifavo per il blog (il termine blog utilizzato per descrivere contemporaneamente umbazar.com e The Dish non mi pare non mi pare il più azzeccato), apprezzandone l’originalità dell’approccio, la “sfrontatezza” del modello economico-finanziario (risultato alla fine tutt’altro che azzardato) e la coerenza del “condottiero” nel rifiutare inserzioni e investimenti esterni nella piena fiducia del proprio bacino di lettori.

Tornando ai fatti che in questi giorni hanno scombussolato (non solo negli USA) il mondo del giornalismo online, il susseguirsi di ipotesi e speculazioni ha avuto inizio lo scorso 28 gennaio quando, con un post dal titolo A Note To My Readers, Andrew Sullivan ha comunicato ai propri lettori l’intenzione di prendersi una pausa. Non tanto dalla scrittura in senso lato, quanto piuttosto da quello che per Sullivan è stato negli ultimi 15 anni lo strumento di lavoro quotidiano – il blog – e dal suo universo di riferimento – il digital. Ciò che colpisce, della lettera di commiato è in particolare l’accento posto sul desiderio di avere maggiore tempo a disposizione – per leggere, per pensare, per lasciare che un’idea prenda lentamente forma – in contrapposizione alla velocità che la comunicazione su web oggi sembra imporre.
In secondo luogo, non lascia certo indifferenti l’affermazione circa la prospettiva di “tornare al mondo reale”, quasi quello dei bit abbia rappresentato per Sullivan una dimensione tanto preziosa per la crescita professionale quanto alienante nei confronti, in particolar modo, degli affetti più cari.
La seconda parte del post lascia invece spazio a un velo di malinconia nel ricordo delle tante battaglie portate avanti nel corso degli anni insieme ai lettori e dei successi che proprio il pubblico ha sancito. Ed è forse proprio questo l’aspetto per il quale il progetto The Daily Dish – nato nel finire del 2000 – mancherà di più: lo spazio, nel corso degli anni, ha saputo accreditarsi non solo in quanto veicolo alternativo di notizie e interpretazioni dei fatti, ma come luogo di condivisione delle opinioni, di partecipazione attiva e confronto costruttivo: il blog è diventato, in altre parole, una community. Un gruppo di persone (30.000 abbonati e circa un milione di lettori al mese) che insieme hanno contribuito a innovare concretamente un comparto – quello dei media tradizionali – che non sembra ancora aver esattamente compreso il proprio ruolo all’interno della mutata scena informativa.

Certo che, al di là delle opinioni espresse, The Dish negli anni a venire sarà ricordato come uno dei contributi più stimolanti all’innovazione del giornalismo [non ho avuto dubbi nel citarlo nella versione digitale aggiornata e ampliata di News(paper) Revolution], con l’auspicio che qualcuno presto riesca a far tesoro dell’esperienza di Sullivan, non posso che ringraziare coloro i quali – staff ma anche semplici utenti – hanno creduto nel progetto di trasformazione di un “diario in Rete” in uno spazio informativo di livello.