Orange County Register, il giornale controcorrente

Aaron Kushner

Img: cjr.org

Il mondo dell’editoria non sta vivendo un periodo felice. I dati sugli introiti pubblicitari continuano a scendere, le redazioni sono alle prese con tagli del personale e drastiche riorganizzazioni.

In un clima così tetro, la notizia circa l’esperimento del quotidiano californiano Orange County Register sembra quasi un miraggio.
Il giornale, infatti, pare percorrere in senso contrario il declino della stampa. Sta assumendo personale, sta puntando forte sulla versione cartacea della quale ha aumentato la foliazione e, soprattutto, sta registrando una crescita dei ricavi.

Fondato nel 1905, il giornale ha attraverso alcuni momenti davvero difficili ma, da un anno a questa parte, la storia del quotidiano è cambiata completamente. La testata ha visto l’ingresso di due nuovi soci: Eric Spitz e Aaron Kushner. Quest’ultimo, nonostante la mancanza di esperienza nel campo giornalistico, sembra per ora aver vinto la propria scommessa.

Come? Puntando sui contenuti, non sul mezzo. E così, in un momento di crisi come quello attuale, per prima cosa Kushner ha voluto ampliare l’edizione cartacea (più pagine a colori) e il personale – fotografi e giornalisti – per coprire al meglio le notizie locali. Fede, scuola, cibo, cronaca e sport i focus principali, con un notevole spazio – nell’edizione del fine settimana – alle attività sportive femminili e maschili delle high school per avvicinare alla testata anche il pubblico più giovane. Anche l’offerta è stata semplificata: che sia carta o web, il giornale chiede ai propri lettori 1 dollaro al giorno (con un paywall online molto restrittivo).

L’ambizione è quella di poter offrire ai propri lettori un giornale che rappresenti lo strumento più adatto per essere informati e capire la comunità nelle quale si vive o lavora. Un quotidiano utile al proprio pubblico, dai contenuti rilevanti e originali (in un parallelismo televisivo, uno dei giornalisti della testata, Rob Curley, parlando della sfida di rendere unico il quotidiano, ha citato l’esempio dei Soprano, trasmessi solo da HBO e da nessun’altra parte).

Il modello del Orange County molto probabilmente non è così facilmente replicabile in altre redazioni, ma resta interessante da seguire nei suoi ulteriori sviluppi.
Perché in fondo, la considerazione di Kushner secondo la quale mai come oggi il pubblico di lettori è vasto, risulta inattaccabile. Tornare a concentrarsi sull’idea di servizio al cittadino, puntando sulla qualità dei contenuti appare una scelta più che condivisibile.

L’innovazione? A Boston è di casa

Img: 61Fresh.com

Il mercato dell’editoria sta vivendo un momento molto difficile. Il termine innovazione è ormai sulla bocca di quasi tutti gli addetti ai lavori, concentrati nel capire quale sia la strada più sicura sulla quale affrontare i cambiamenti in atto. Mettere in pratica processi che portino a risultati migliori è però molto complicato: in un contesto nel quale, a fronte di investimenti, l’obiettivo risulta ottenere effetti pressoché immediati, ragionare in termini di lungo periodo, vista la rapida evoluzione della Rete, è quasi impossibile.

Nonostante tutto, alcune testate, continuano a provare nuovi approcci al web. Non si tratta esclusivamente di redazioni arcinote, esiste un “sottobosco” di quotidiani a carattere locale che, come avvenne agli esordi di internet con il Chicago Tribune e il Nando Times (in Italia con l’Unione Sarda), per tentare di allargare il proprio pubblico di riferimento o per offrire un’alternativa al mainstream, continuano a proporre nuovi strumenti e nuove modalità di approccio all’informazione.

Uno dei casi di maggior successo in questo senso (successo misurato non esclusivamente in termini di parametri numerici quanto di capacità di rinnovare la propria identità adattandola agli sviluppi della Rete) è il Boston Globe. La testata – come citato anche in News(paper) Revolution – possiede due declinazioni: una, a pagamento, propria del giornale cartaceo, un’altra gratuitamente fruibile – Boston.com – molto più focalizzata sulle notizie locali e indirizzata a un pubblico più trasversale.

Di questi giorni è la notizia che, proprio lo spazio informativo Boston.com, dal prossimo anno, offrirà una maggiore flessibilità ai propri lettori. Non sono trapelate moltissime informazioni a proposito ma sulla base di quanto dichiarato da Jeff Moriarty – Vicepresidente del Boston Globe e General Manager di Boston.com – il sito proseguirà lo sviluppo della sua costruzione “responsive” anche in ottica utente. Nel 2011 il quotidiano di Boston è stato tra i primi a implementare un sito in grado di adattarsi al device utilizzato. Il giornale, in altre parole, fermo restando i contenuti, è in grado di modificare il proprio aspetto in base al supporto con il quale viene fruito. In questo modo, ad esempio, l’impaginazione è differente se l’utente visita lo spazio informativo da computer, da tablet o da smartphone.
Dal 2014 però la testata farà un ulteriore passo modellandosi anche in base alle modalità di utilizzo del lettore: se l’utente preferirà leggere piuttosto che sfruttare il materiale multimediale a disposizione, il sito sarà in grado di proporre un più alto numero di testi. In qualche modo, quindi, sarà il comportamento stesso dell’utente a configurare la griglia informativa del quotidiano. Un progetto ambizioso che, sulla scia di quanto sta accadendo su Facebook, punta alla personalizzazione, al superamento del giornale indifferenziato, uguale per tutti.

Altro progetto da seguire, sempre a firma Boston Globe, è 61Fresh. E’ uno spazio informativo capace di captare i tweet locali di Boston e dintorni che richiamano le notizie di uno dei 500 siti di notizie della capitale del Massachusetts. Alla base un algoritmo in grado di vagliare la popolarità e la freschezza delle news per riproporre le notizie più chiacchierate dell’area metropolitana.

Complimenti ai responsabili della testata, anche un periodo di crisi può in fondo rappresentare un’opportunità. Per mettersi in gioco e vagliare nuove opzioni.

I quotidiani locali nel web: il caso The Oregonian

Parlando di social media e comunicazione online ci si riferisce spesso quasi esclusivamente a grandi aziende. Il citare realtà di grosso calibro è quasi un atto involontario perché i brand più noti hanno maggiore visibilità, una presenza nelle Rete più strutturata e investimenti più rilevanti. In realtà, il mondo oltre le multinazionali, nella diversità di approccio alla sfida delle Rete, è altrettanto interessante.
Un esempio? Navigando in GoogleNews mi sono imbattuto nella storia del The Oregonian e ho deciso di approfondirla perché, in qualche modo, può essere considerata alternativa ai grandi gruppi editoriali statunitensi e più vicina al giornalismo dei quotidiani locali.

The Oregonian è il più antico quotidiano della West Cost: nato come settimanale nel 1850, è il giornale della città di Portland che, in termini di tiratura, occupa la 19esima posizione tra i newspaper degli Stati Uniti.
Non passa un periodo felicissimo tanto che, la scorsa estate, è stata comunicata la riorganizzazione dello staff e la scelta di ridurre a quattro le copie a stampa per focalizzare gli sforzi nell’informazione online. L’obiettivo dichiarato è quello di far diventare il gruppo editoriale una digital-first company.
Per adattarsi ai cambiamenti del pubblico di lettori e del mondo della pubblicità, la prima mossa è stata quella di puntare sullo sviluppo di OregonLive.com che, se mette in secondo piano la testata e il formato giornale, risulta probabilmente uno spazio più dinamico per informare i cittadini. In secondo luogo la direzione ha deciso di dare maggiore enfasi alle edizioni digitali del giornale pensate (e impaginate) per essere fruite da smartphone e tablet.
La problematica più difficile da affrontare per molte piccole-medie testate è il ridimensionamento della pubblicità: se, a livello generale, la pubblicità su Google e gli altri strumenti della Rete ha negli USA ormai sorpassato l’advertising a stampa, le cifre per quel che riguarda il comparto editoriale non sembrano seguire lo stesso trend. E così, all’implosione del mercato pubblicitario su carta, quasi mai corrisponde una solida crescita dell’adv online. Non resta, quindi, che tentare di ridurre i costi (sperando di non dover abbattere la scure sul personale).

Leggendo l’editoriale pubblicato da Peter Bhatia, vicepresidente dell’Oregonian Media Group, che presenta il cambio di rotta entrato del The Oregonian entrato nel vivo lo scorso primo ottobre, emergono alcuni spunti interessanti:

• se Internet enfatizza la velocità, c’è ancora spazio per redazioni che si occupino di inchieste, di approfondimenti, di verifica delle fonti;
• i giornalisti non si devono più preoccupare del posizionamento della notizie sul quotidiano, devono pensare in funzione del web non più della carta (spazio quindi, ad esempio, alla multimedialità);
• la sfida è, per i giornalisti come per chiunque si occupi di comunicazione nel web, quella dell’engagement dei lettori; e l’interattività dei mezzi digitali in questo senso offre notevoli opportunità;
• di fondamentale importanza l’analisi dei dati relativi al comportamento dei lettori che possono aiutare la redazione a focalizzare al meglio ciò interessa alla comunità.

Il viaggio intrapreso dal giornale di Portland e da tante altre testate a carattere locale è una gara ad ostacoli che comporta un radicale cambiamento culturale, una nuova prospettiva con ben poche certezze. Che investe le figure professionali come i semplici lettori. Ma che pare ormai inevitabile da affrontare, prenderne coscienza è un buon inizio.

Tina Brown e lo strano caso del Newsweek


Lo scorso dicembre, in aeroporto per un viaggio all’estero, in attesa dell’imbarco, gironzolando, entrai in un’edicola, una di quelle con un nutrito numero di riviste internazionali. Nonostante non cercassi nulla di particolare, uscii con un magazine in mano (vedi mio tweet). Era l’ultima copia cartacea del Newsweek sulla cui copertina, una panoramica in bianco e nero di New York, capeggiava la scritta sottoforma di hashtag #lastprintissue. Un passaggio epocale era alle porte: alla vigilia degli 80 anni di “onorato” servizio, il giornale fondato da Thomas J. C. Martyn (precedentemente giornalista di cronaca internazionale per il Time), si apprestava a lasciare la carta per il web. Una sfida, quella della Rete, resasi necessaria (in realtà già annunciata nell’ottobre 2012). Newsweek, infatti, acquistato nel 1961 dal gruppo Washington Post Co. nel corso degli anni vede erodersi l’appeal nei confronti dei lettori tanto che, nel 2010, il settimanale è venduto a Sidney Harman per 1 dollaro (confermo: 1 solo dollaro; ma 47 milioni di dollari di passivo). Di lì a poco lo stesso Harman dà vita a una joint venture con l’InterActiveCorp (IAC) creando così una nuova realtà editoriale capace di unire alla freschezza e alla dinamicità di The Daily Beast, la storia e l’autorevolezza del Newsweek. A capo dell’ambizioso progetto, Tina Brown, acclamata ex-direttrice di Vanity Fair e di The New Yorker. Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Perché, notizia di questi giorni, Tina Brown ha deciso di lasciare. Eppure nel suo editoriale pubblicato nell’ultimo numero cartaceo di Newsweek, poco più di un anno fa, sembrava avere le idee molto chiare sul panorama dell’editoria, sui difetti del giornalismo e sugli ostacoli da superare per avere successo. Qualcosa sembra, quindi, non tornare. Tanto che qualcuno tra gli addetti ai lavori inizia a chiedersi se sia a rischio la sopravvivenza del Daily Beast, co-creato nel 2008 dalla stessa Brown e da Barry Diller, spazio informativo vincitore nel 2011 e nel 2012 del Webby Award come migliore sito di notizie. Sì perché, se recentemente lo stesso Diller ha ammesso come l’acquisizione del Newsweek sia stato un errore (il “bistrattato” magazine è stato nuovamente venduto lo scorso agosto, alla IBT Media), sembra che anche per sito le cose non vadano benissimo. Secondo Adweek, infatti, se theDailyBeast.com sembra recuperare in termini di traffico e revenue, le perdite per l’anno in corso sono stimate in 12 milioni di dollari. Tempi duri per chi lavora nell’editoria. Ad ogni livello.

Il giornalismo digitale secondo Davide Mazzocco

Giornalismo Digitale - Davide MazzoccoTra i testi con i quali ho deciso di ampliare la bibliografia della versione digitale di News(paper) Revolution c’è anche Giornalismo Digitale di Davide Mazzocco, giornalista e scrittore che ho avuto modo di conoscere (anche se di sfuggita) allo scorso Salone del Libro di Torino. La prefazione di Sergio Maistrello (altra new entry della bibliografia del mio libro) non lascia spazio a dubbi sulla bontà del saggio, un testo interessante del quale ho apprezzato soprattutto l’equilibrio, tra aspetti teorici e pratici, scelto nell’affrontare l’evoluzione della comunicazione giornalistica online (non spaventi il sottotitolo Architettura, programmazione, ottimizzazione). Nel libro trovano spazio, infatti, aneddoti legati al lavoro in redazione, testimonianze dirette frutto dell’esperienza dell’autore in piccole-medie testate, spazi che per sopravvivere sono in qualche modo “costretti” a una maggiore intraprendenza nel fare propri gli sviluppi della Rete. Il libro presenta consigli sulla scelta delle immagini, sull’utilizzo dei link esterni ed interni, sulla razionalizzazione del tempo e sull’approccio multitasking, sulla divisione dei compiti in redazione e sull’utilizzo più consapevole di motori di ricerca e social network. Una scrittura semplice e chiara, capitoli brevi, un font utilizzato più che piacevole e delle interviste finali ad alcuni addetti ai lavori che con le loro osservazioni da prospettive differenti fanno da corredo a un libro la cui lettura è sicuramente raccomandata. Per utenti che vogliano conoscere la Rete per informarsi in maniera migliore.

Di politica e giornalismo: l’importanza di intermediari di qualità

© Luce Pinxi/Flick/Getty Images

La nuova tornata elettorale ha portato nuovamente alla mia attenzione una riflessione che da un po’ di tempo a questa parte mi frulla in testa. Gli ultimi accadimenti tra legislatura e urne, infatti, mi paiono aver evidenziato, una volta di più, una certa vicinanza tra Giornalismo e Politica. Mi spiego meglio. Per entrambe queste “istituzioni sociali” alle prese con l’ondata di cambiamenti imposti da web e social network (di linguaggio, di prospettiva, di partecipazione, di relazione, di distribuzione dei contenuti…) molti palesavano tempi duri se non un vero e proprio superamento che avrebbe reso superflui partiti e testate, due degli organi sui quali, a ben vedere, si basano i concetti di democrazia e di libertà.

In realtà, come ho tentato di spiegare nel mio News(paper) Revolution, i nuovi dispositivi sono “solo” degli strumenti. In altre parole, ciò che è importante analizzare non sono unicamente i dettagli tecnici, quanto gli aspetti legati sia al livello di adozione (quanti utenti usano quel determinato strumento?) sia all’utilizzo specifico che gli utenti fanno degli strumenti stessi. In breve, a mio modo di vedere, non vanno confusi fine e mezzo: i device digitali sono nuovi “canali” a nostra disposizione il cui scopo è, ad esempio, quello di farci condividere informazioni in maniera più semplice e rapida.

Pensare che lo strumento in sé possa risolvere problemi o migliorare la vita è, quindi, riduttivo. Il coltello resta dunque dalla parte degli utenti: la Rete, i social network, i blog, gli smartphone hanno carattere “neutro”, acquistano senso solo in virtù del loro utilizzo, di un’audience che se ne serve. Internet non rappresenta “il male” come qualche talkshow vorrebbe far credere, è (ripeto) “solo” uno strumento, che può essere utilizzato in maniera intelligente o meno.

Assodato questo, i proclami che, sia per quel che riguarda il Giornalismo, sia per quanto concerne la Politica, indicavano il Web de facto come via per la Salvezza, risultano quindi sterili. Se infatti possiamo dare per scontata la rivoluzione in atto, difficile è prevedere dove questa ci porterà. La conclusione alla quale sono giunto (forse non sono il primo ma la sento comunque molto mia) è che, vada come vada, per Politica e Giornalismo (ma per molti altri ambiti della vita), indipendentemente dagli strumenti utilizzati, non si possa prescindere da intermediari di qualità.

Possiamo mostrare le riunioni in streaming, tagliare il supporto cartaceo, rendere pubbliche le spese legate all’attività politica o organizzare una testata di soli blogger, la differenza la fanno coloro che deleghiamo a gestire la “cosa pubblica” o informarci sugli accadimenti del mondo.

Sia chiaro, la mia non è la difesa di caste o corporazioni (al termine “giornalista”, per esempio, che mi pare troppo legato all’iscrizione ad un Albo, preferisco di gran lunga gatekeeper) ma un invito, generalizzato, a non focalizzarsi esclusivamente sulle caratteristiche tecniche di nuovi strumenti, ma soprattutto sulla competenza degli attori in gioco. Solo così si potrà garantire un futuro a Giornalismo e Politica.

La Rete non cancella nulla, anzi, accentua il nostro bisogno di validi interlocutori.

Il giornalismo del futuro? Innovazioni dentro e fuori le testate da tenere sottocchio

Lo scorso martedì 28 maggio, in occasione dell’uscita della versione ebook (riveduta e aggiornata) del mio News(paper) Revolution sono stato ospite di Digital Accademia per parlare di giornalismo e social media. Avendo solo due ore a disposizione e dovendo confrontarmi con una platea tutt’altro che sprovveduta ho ripensato la mia presentazione tentando, dopo la prima parte dedicata ad un breve excursus sulla storia del giornalismo online, di individuare 10 caratteristiche del web attorno alle quali le testate si stanno muovendo (o, meglio, si dovrebbero muovere) per rinnovare il mondo dell’editoria.

Ho così individuato una serie di strumenti e iniziative – schematicamente divisi tra innovazioni esterne o interne alle testate – da tenere d’occhio, al di là del numero del loro bacini attuale di utenti attivi, per intravedere (forse) gli ulteriori sviluppi della comunicazione (giornalistica) online.

La grafica non è certo il mio forte, la presentazione è volutamente scarna, ridotta all’osso. Ecco perché, in breve, cerco di sintetizzare ciò che propongo quando, servendomi del ppt, rifletto a voce alta.

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Tra le innovazioni fuori dalle testate ho scelto, a titolo esemplificativo:

Flipboard, NewsWhip, Italia2013.me, Instagram, Storify, Vine, Google+, Storyful e i Social Reader di Facebook.

Tra i progetti più interessanti all’interno delle testate ho invece segnalato:

HuffPost Live, Snow Fall, Live Blogging, Archivi Digitali, Native Advertising, Compendium, PaperPay, JuLiA, Guardian Witness e The Dish.

Flipboard

Con le applicazioni non solo ognuno di noi può filtrare le notizie in base ai propri interessi organizzandole come un magazine, con le ultime versioni può anche condividere il proprio “giornale”, diventando quindi non solo autonomo nell’atto di informarsi ma anche “editore” per altri utenti che con lui condividono l’interesse per determinati argomenti.

NewsWhip

Le risorse che aggregano le notizie più chiacchierate della Rete, che indicizzano i contributi più condivisi, stanno riscuotendo un notevole successo. Analizzare la Rete, individuare i contributi del web più rilevanti diventa sempre più importante.

Italia2013.me

Esperimento di content curation molto interessante che, per raccontare le elezioni, ha utilizzato i cittadini come fonti della notizia.

Instagram

Grazie ad uno smartphone i nostri “racconti per immagini” possono viaggiare nel web e, grazie all’utilizzo di hashtag condivisi, partecipare alle testimonianze degli altri utenti.

Storify

Unire contributi di differenti utenti in un unico flusso al quale aggiungere le proprie osservazioni, fantastico, no?

Vine

Anche con video di soli 6 secondi si può raccontare molto. Un esempio? Le pillole dalle passerelle del WSJ in occasione della New York Fashion Week.

Google+

La videochat rappresenta sicuramente un’opportunità per dialogare in maniera interattiva con altri utenti.

Storyful

Società con sede a Dublino composta da un team di professionisti che monitora i social media catturando immagini e contenuti degli utenti da vendere poi alle testate di tutto il mondo.

Social Reader (di Facebook)

Facebook ha ultimamente modificato l’algoritmo alla base del news feed. Oggi hanno maggiore risalto i soli contenuti che raccolgono condivisioni, like e commenti. E questo ha cambiato le carte in tavola costringendo alcune testate, prima molto attratte dalla possibilità di conquistare fette di audience tra i giovani, a rivedere il loro impegno nel social network di Zuckerberg.

HuffPost Live

Nuovo spazio all’insegna di multimedialità e interattività del pubblico: come suggeriscono dalla testata di Arianna Huffington, una via di mezzo tra YouTube e la CNN.

Snowfall

Esperimento del NYT capace di guadagnarsi non solo l’attenzione tra gli addetti ai lavori ma anche un premio Pulitzer per la capacità di proporre una lettura particolare: il testo (lungo) si arricchisce di video e animazioni interattive.

Live Blogging

Per seguire in tempo realtà lo sviluppo dei grandi avvenimenti, preferibile la struttura snella e dinamica di un live blog.

Native Advertising

Alla ricerca di nuove forme di pubblicità, i quotidiani riscoprono – con alterne fortune – i contenuti sponsorizzati (ne ho parlato anche qui).

Compendium

Una sorta di Pinterest delle notizie di una testata che consente al lettore di raccogliere in una bacheca pubblica i pezzi che ritiene più interessanti da catalogare.

PaperPay

Il giornale di carta venduto tramite la lettura di un codice a barre (ho scritto sul servizio qui).

Guardian Witness

L’applicazione con la quale il Guardian invita i lettori a proporre alla redazione i propri contributi su fatti dei quali sono stati diretti testimoni che potrebbero poi essere ripresi dalla testata.

The Dish

Un blog senza pubblicità né soldi da venture capitalist che chiede ai proprio lettori i fondi per continuare a servire il proprio pubblico. Bella scommessa!

Adoro confrontarmi con chi – anche se non necessariamente un giornalista – la Rete la vive ogni giorno a suo modo, cercando il modo migliore per sopravviverci. La mia è una testimonianza, spero costruttiva, di un mondo in continuo perenne mutamento.

Giornalismo e web raccontati con dissacrante lucidità

Strano ma vero, sono ufficialmente un lettore di ebook solo da alcune settimane. Ancora in parte non abituato alla sola lettura in digitale, indeciso su quale titolo acquistare per “rompere il ghiacchio”, ho optato per Il Web e l’arte della manutenzione della notizia, il saggio di Alessandro Gazoia edito da MinimunFax. Si tratta di un approfondito excursus che analizza i cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo, portando avanti un interessante parallelismo tra gli sviluppi e il modo di fare informazione nostrano e il “quarto potere” negli Stati Uniti, Paese guida, per tecnologie e sperimentazioni, della rivoluzione apportata alla stampa dalla Rete. Partendo da alcune riflessioni sui cambiamenti del lavoro di giornalista, sul modo di comunicare e partecipare alla vita politica e sociale degli utenti, l’autore ci accompagna alla ricerca del significato dell’informazione (e quindi, in ultima analisi, anche delle chiavi interpretative a nostra disposizione) oggi.
Un libro del quale ho apprezzato in particolar modo due aspetti: da una parte la scelta di non limitarsi ad analizzare le grandi testate ma di raccontare anche i “giornali nativi digitali” e gli spazi più noti specializzati nell’informazione locale. Dall’altra, l’uso di un approccio disincantato (che non lesina critiche) nei confronti del giornalismo italiano, del quale vengono analizzati i tratti distintivi sottolineandone vizi (tanti) e virtù (pochine) che lo contraddistinguono.
Un testo fatto anche di numeri, di tabelle, di raffronti, di link, che consente di avere un’idea quanto mai precisa sulla realtà informativa dei nostri giorni. Insomma, un libro di sicuro interesse che, visto anche il costo irrisorio, è sicuramente da leggere.

Native advertising e brand journalism: quando il giornalismo online incontra la pubblicità

Da alcune settimane sono immerso nell’aggiornamento di News(paper) Revolution che, a grande richiesta, uscirà a breve anche in versione ebook (UPDATE: la versione digitale, ampliata e aggiornata, è uscita alla fine del mese di maggio).

Uno degli approfondimenti al quale ho deciso di dare spazio nella nuova edizione del mio libro, è quello relativo al cosiddetto native advertising. Ecco, di seguito, un estratto della parte dedicata alla forma di pubblicità che gli editori stanno iniziando a testare.

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Uno dei nuovi formati pubblicitari online che gli editori stanno iniziando ad adottare è il cosiddetto native advertising.

L’idea di base è semplice: in ultima analisi, anche l’advertising può rappresentare una notizia; se non riesce ad esserlo, allora probabilmente il contenuto pubblicitario non ha poi così tanta rilevanza.

Degli esempi di formati legati al native adv sono le Sponsored Story di Facebook e i Promoted Tweet di Twitter: contenuti brandizzati integrati direttamente nell’esperienza dei social media piuttosto che posizionati nei classici spazi riservati alla pubblicità online.

In qualche modo, quindi, il native advertising è una rivisitazione “in salsa web/social” dei redazionali (advertorial) presenti nei quotidiani stampati. Con il native adv i lettori possono fruire di contenuti sponsorizzati interattivi che puntano alla condivisione, operazione questa che la pubblicità tabellare di solito non consente. E’ un modo di comunicare con un linguaggio che, sfruttando appieno le peculiarità della Rete, la creatività e lo storytelling, può essere recepito in maniera costruttiva dagli utenti e superare la “cecità” dei lettori verso alcuni dei formati attualmente in uso online.

Quasi tutte le campagne di native advertising nascono dalla collaborazione diretta tra editori e brand, senza l’intermediazione delle agenzie. Sono proprio le testate, infatti, a conoscere meglio di chiunque altro gli standard da adottare, il profilo dei propri lettori e i “segreti” per fare in modo che questi contribuiscano a diffondere ad amici e colleghi i contenuti informativi.

Uno dei primi esperimenti di native advertising è stato realizzato dal magazine statunitense The Atlantic con un post sponsorizzato su Scientology pubblicato il 14 gennaio 2013. Probabilmente anche a causa dell’oggetto dell’articolo, l’iniziativa scatenò un acceso dibattito online, non sempre così benevolo nei confronti della testata (che, alcuni giorni dopo, ammise di aver commesso qualche errore di valutazione nella ricerca dell’innovazione del digital advertising).

Altro spazio informativo che ha deciso di puntare sul native adv, è BuzzFeed la cui testata propone una collaborazione con i brand alfine di realizzare contenuti pubblicitari in grado di catturare l’attenzione dei lettori (Jonah Peretti, CEO di BuzzFeed, definisce il native advertising come “(sort of) social advertising”).

Forbes ha, invece, introdotto BrandVoice, il servizio – nato dalla start-up newyorkese True/Slant – che consente di condividere tra editori e inserzionisti gli strumenti per creare engagement, per monitorarlo in tempo reale e per, al contempo, offrire il miglior servizio informativo ai lettori. Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di fornire contributi pubblicitari non intrusivi quanto, piuttosto, esperienzialmente accattivanti. Il magazine ha dato vita a una “Brand Newsroom” con la quale i marketer possono collaborare per far conoscere in maniera più efficace il loro business.

Un servizio analogo è quello del Washington Post che, con BrandConnect, permette alle aziende di pubblicare, nel sito del quotidiano, propri contenuti quali video, post e infografiche.

Il primo esempio di “sponsor generated content” del giornale è stato realizzato dalla CTIA, l’associazione internazionale no profit che rappresenta l’industria delle comunicazioni wireless che racconta come la tecnologia mobile abbia rivitalizzato le comunità rurali (il post era circondato dalla pubblicità display dell’associazione, conteneva un video e non consentiva di essere commentato).

Interessante notare, ancora una volta, la posizione di Google News che chiede agli editori di separare con molta chiarezza i contenuti giornalistici da quelli pubblicitari, pena l’esclusione della fonte dall’aggregatore di notizie. Il servizio dell’azienda di Mount View non si propone come uno strumento di promozione e, quindi, vuole salvaguardare la propria inclinazione meramente informativa.

(UPDATE: anche il New York Times, nel redesign del sito, online dall’8 gennaio 2013, ha iniziato a testare il native advertising, ne parlo qui)