Di solito, quando decido di andare al cinema, scelgo il film sulla base di quello di Dylan Dog chiamerebbe “quinto senso e mezzo”, una sorta di richiamo con il quale la pellicola in qualche modo mi invita ad assecondarla. Insomma, faccio di tutto per evitare locandine, sinossi e trailer. Questa volta però, sbirciando gli orari degli spettacoli, non ho potuto non incrociare due paroline che hanno finito per incuriosirmi: Spagna e guerra civile.
Seduto in sala, prima che il film iniziasse, avevo immaginato molte varianti di ciò che da lì a pochi minuti avrei seguito sullo schermo, ma mai avrei sospettato che due dei protagonisti della storia raccontata fossero clown. E non due clown uno mimesi dell’altro – versione circense del bene e del male, almeno non al di fuori del circo – bensì due clown svitati e violenti. E la rivoluzione civile spagnola? Lo sfondo sul quale si svolgono le vicende, (forse) l’origine e conseguenza del “male” che sfocia nel disprezzo della vita e nella sete di vendetta. A ben vedere però, il centro della scena non è tanto un attore in carne ed ossa quanto un concetto astratto seppur tangibile: la tristezza. Tristezza per l’infanzia perduta, per l’affetto non ricambiato, per un destino segnato, per un amore malato, per la libertà negata. Sì, forse è proprio così, è la tristezza nelle sue diverse forme (stavo per scrivere “…e colori” ma in realtà i paesaggi del film sono quasi sempre scuri, in perfetta congruenza con lo sviluppo della trama) la vera protagonista del film, un sentimento che si lega ai personaggi segnandone il destino. Scontato quindi che, alla fine, non ci siano vincitori ma solo vinti e che le lacrime accomunino tutti coloro che nell’amore (per il proprio padre, per una donna, per il proprio lavoro, per la Patria) avevano intravisto una via di fuga.
E’ quindi forse del tutto “normale” che uscito dalla sala parte di tristezza abbia assalito anche il sottoscritto (che non si aspettava un film genere Un giorno di ordinaria follia, datato 2010 ma distribuito in Italia solo ora nonostante i due premi al Festival di Venezia), missione compiuta. Curioso.
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Lebanon e il ruggito del Leone
Dopo Women without men ho continuato la mia personale maratona sui film più acclamati alla mostra del cinema di Venezia vedendo la pellicola vincitrice del Leone d’oro: Lebanon di Samuel Maoz.
Un film strano, di quelli che o conquista o lascia perplessi senza via di mezzo. La storia è quella di in un gruppo di ragazzi che, con un carro armato, fungono da supporto a un plotone di paracadutisti inviati a perlustrare i resti di alcune cittadine bombardate dall’aviazione israeliana. Le continue inquadrature interne al carro armato (visione per questo motivo forse non proprio indicata a chi soffre di claustrofobia, all’uscita dalla sala sembra ci si sente quasi unti di olio come i protagonisti) fanno partecipare in prima persona lo spettatore alle tensione del conflitto e alla sopresa da parte dei giovani soldati di ritrovarsi di colpo catapultati dalle semplici quanto innocue eserciatazioni a un cruda realtà fatta di morte, urla e distruzione. Forse è proprio questo l’aspetto più angosciante della pellicola che mostra il terrore per il conflitto proprio di chi dovrebbe guidare la battaglia e che invece, quasi in maniera compulsiva, non sentendo proprio lo scontro, controlla con il mirino la situazione fuori dal cingolato ma resta quasi incapace di premere il grilletto e di eseguire gli ordini impartiti. I giovani militari, infatti, non sono eroi, non sono desiderosi di sacrificare la propria vita per l’annientamento del nemico, sono solo fragili ragazzi terrorizzati dall’essere in contatto così diretto con gli orrori della guerra, desiderosi solo di tornare vivi dalle loro famiglie e di lasciare quanto prima il campo di battaglia. Film forte, di poche parole, forse a tratti un po’ lento, ma di sicuro impatto.