Il Financial Times è una delle testate di riferimento per quel che concerne l’informazione online, sicuramente uno degli esempi più virtuosi (e citati, anche in questo nel blog) di come il web possa rappresentare per il giornalismo un’opportunità e non necessariamente una minaccia.
Un modello di business audace quanto efficace (incentrato su un rigido paywall), un brand riconosciuto ed apprezzato per integrità, autorità e accuratezza, una diffusione cresciuta del 30% negli ultimi cinque anni (rappresentata, oggi come oggi, per il 70% da abbonati “digitali” al quotidiano), una forte spinta – per metà del traffico complessivo – da mobile. Insomma, una situazione invidiabile per molti gruppi editoriali, in difficoltà nell’individuare strategie in grado di far fronte alla contrazione – in termini di introiti – del mercato pubblicitario.
Ciò nonostante il gruppo Pearson alcuni giorni fa ha confermato la vendita di FT al giapponese Nikkei, cessione che consentirà alla società fondata da Samuel Pearson di focalizzarsi su istruzione e formazione, colonne portanti della realtà inglese che nel 1957 acquistò l’autorevole giornale economico-finanziario.
In un articolo pubblicato pochi giorni fa, Jonh Fallon, chief executive di Pearson, raccontando il passaggio di consegne (e, in qualche modo, difendendo la scelta fatta), descrive l’attuale momento come un periodo di crisi dei media: la dirompente diffusione delle nuove tecnologie e, in particolare, le crescite esplosive di mobile e social media, rappresentano sfide molto impegnative per la produzione e la vendita del giornalismo. In virtù di ciò, nonostante la readership oggi registrata sia per il Financial Times la più elevata di sempre (e i lettori siano disposti a pagare come mai per essere informati), dopo attente analisi e riflessioni, il gruppo Pearson ha ceduto FT per dare l’opportunità alla redazione di far parte di una realtà giornalistica digitale globale, focalizzata al 100% sull’editoria.
Non sono un esperto di alta finanza ma il messaggio, tra le righe, mi pare un modo elegante per indicare i media tradizionali, benché capaci di reinventarsi e crescere sottoforma digitale, quali strutture ancora fragili e inadatte a garantire guadagni crescenti. Insomma, non così accattivanti per chi, operando in altri settori, voglia investire del denaro (a conferma di ciò, pare che anche l’Economist, altra testata in orbita Pearson, sia sul mercato).
Il valore pagato da Nikkei per FT è di 1,3 miliardi di dollari, 5 volte la somma versata nel 2013 da Bezos per acquistare il Washington Post. Se non c’è alcun dubbio sul fatto che la cifra sia davvero notevole, è altrettanto vero che le parole di Naotoshi Okoda, presidente e amministratore del quotidiano Nikkei, sembrano comunque confermare i limiti della stampa: “Siamo giornali. L’affare [con Pearson] non punta a incrementare i profitti. Lo abbiamo fatto perché vogliamo crescere l’influenza del [nostro?] giornalismo”.
Il futuro di FT (e, generale, del “Quarto Potere”) insomma, resta ancora tutto da decifrare.