Mobile, fortissimamente Mobile: Apple lancia la sua app News

Apple News

Img: theguardian.com

La scorsa settimana a Berlino si è tenuto il News Xchange, una conferenza – organizzata da Eurovision – per riflettere sul giornalismo e sugli sviluppi della distribuzione dell’informazione con protagonisti alcuni dei referenti delle testate più note. Tra gli ospiti, Adam Ellick, (video) corrispondente per il New York Times che, nel corso del suo intervento – come riportato da Shane Randall dell’Associated Press – ha sintetizzato il suo pensiero dicendo: “Se l’industria dei media si muove velocemente, i lettori lo fanno ancora con maggiore velocità”. Secondo Ellick, infatti, la prossima generazione di lettori molto probabilmente non acquisterà mai un giornale e non sarà solita accedere alle notizie da PC. Tale dichiarazione più che una provocazione pare piuttosto un futuro ormai prossimo. In fondo già oggi il 60% delle visite del NYT proviene da mobile e al diffondersi dell’uso dei dispositivi mobili si registra un calo inversamente proporzionale delle visite alla homepage del sito, il corrispettivo digitale della prima pagina del giornale a stampa. Sembra sempre più evidente come debbano essere le redazioni a dover intercettare i lettori attraverso gli strumenti che questi più utilizzano piuttosto che i lettori a dover scovare le notizie.
È, in altre parole, l’idea del formato giornale – cartaceo o digitale che sia – ad essere messa in discussione, non il mondo dell’informazione che continua invece ad attrarre le grandi realtà digitali.
Ultima, in ordine di tempo, Apple che nell’aggiornamento iOS 9.1, in Inghilterra e Australia, ha sostituito il vecchio Apple Newsstand (focalizzato in particolare sui contenuti dei periodici) con Apple News, un rinnovato aggregatore dinamico di notizie. L’applicativo – che stando ai primi feedback non pare discostarsi troppo da Flipboard – punta a raccogliere adesioni in virtù dell’ampio bacino di potenziali utilizzatori (chiunque possieda un iPad o iPhone in grado di installare l’update di sistema vedrà in automatico Apple News tra le icone del proprio menù) proponendo in un’unica app una notevole quantità di contributi di differenti testate, dal Guardian a Sky News, dalla CNN a Vanity Fair. L’utente può navigare per pubblicazione o per argomento, personalizzando, in maniera analoga a quanto avviene in Apple Music, il flusso di notizie collegato al proprio profilo. Sulla base degli interessi sarà così possibile ricevere gli aggiornamenti da leggere o salvare per una fruizione successiva. Il sistema, analizzando i contenuti letti e le risorse segnalate quali preferite, sarà in grado di identificare le news più in linea con i gusti dell’utente mettendo a fuoco le esigenze del lettore. La app prevede anche un motore di ricerca che consente una navigazione trasversale rispetto al materiale informativo che si è soliti fruire (e che, come detto in precedenza, identifica l’utilizzatore).
Dal punto di vista degli editori, i contenuti possono anche contenere messaggi pubblicitari gestiti con iAd, la piattaforma delle inserzioni nei dispositivi Apple.

Nei prossimi mesi sarà interessante seguire gli sviluppi e la diffusione di Apple News, vagliare l’adozione degli standard consigliati da Apple per le notizie e capire quali saranno gli strumenti offerti alle redazioni per misurare l’impatto degli articoli sul pubblico.

La sfida a Google è ormai lanciata. E non solo dagli editori.

Se potessi avere un milione di abbonati al mese

Img: bostonglobe.com

Il New York Times, con un comunicato ufficiale pubblicato lo scorso 8 agosto, ha reso noto il superamento (a fine giugno) della quota di 1 milione di abbonati digital-only. Il risultato è stato ottenuto grazie al paywall, sistema che dal 2011 consente agli utenti non abbonati di fruire gratuitamente di un numero limitato di articoli del giornale al mese, richiedendo la sottoscrizione di un abbonamento per proseguire la lettura dei contenuti della testata. Al lancio, in un mondo – quello editoriale – che faceva della gratuità online una sorta di dogma della Rete, in pochi avrebbero immaginato che in poco meno di quattro anni e mezzo il NYT potesse raggiungere tale traguardo (anche il Wall Street Journal, a quota 900.000 abbonati, intravede la meta). Il presupposto che gli utenti potessero essere inclini a pagare per leggere informazioni disponibili senza costi in molte (altre) risorse su web non sembrava credibile a tal punto da superare il timore di un allontanamento repentino dei lettori dalla testata proprio in virtù di una richiesta economica all’epoca quanto mai inusuale. Nonostante i foschi presagi però, il NYT è riuscito a raggiungere per primo l’ambizioso obiettivo – una pietra miliare come l’ha definita Mark Thompson, presidente e CEO di The New York Times Company – frutto tanto di un giornalismo conosciuto ed apprezzato da anni nel mondo quanto di ingenti investimenti in innovazioni tecnologiche capaci, nel corso degli anni, di continuare a far eccellere la testata nonostante la forte concorrenza.
Se il traguardo del milione di abbonati certifica l’efficacia della strategia digitale del giornale (crescita nell’ultimo quarter, in termini di guadagni, del 14,2%) per paradossale che possa sembrare, la strada da fare per arginare la continua discesa degli introiti pubblicitari – che complessivamente, nonostante la crescita del comparto digital, negli ultimi quattro mesi hanno fatto registrare un -5,5% in virtù soprattutto di un nuovo ribasso della pubblicità a stampa – è ancora in salita, irta di difficoltà. Notevoli progressi sono stati fatti dal NYT per equilibrare il rapporto tra abbonamenti e pubblicità: ad oggi gli abbonati nella loro totalità (cartaceo e/o digitale) rappresentano il 55% dei guadagni complessivi della testata contro il 39% di revenue provenienti dalla pubblicità. Appare chiaro tuttavia che per gestire i costi dello sviluppo tecnologico necessario per competere con gli altri player, sia necessario lavorare ancora più assiduamente sulla quella enorme fetta di utenti che, visitato il sito del giornale, fruisce dei contenuti senza però siglare un abbonamento (in questo senso, quanto accaduto per la app NYT Now, è rappresentativo della difficoltà di attirare il pubblico giovane). Al momento, infatti, i “pochi” paganti (stime parlano di una percentuale nell’ordine di poche unità di abbonati in rapporto ai visitatori unici al mese fatti registrare dal sito) consentono anche ai non abbonati di fruire dei contenuti della redazione.
Vinta una “battaglia”, insomma, la “guerra” per veder crescere i guadagni del giornale resta ancora lunga. Nonostante gli sforzi, infatti, se il NYT negli ultimi anni (2014 e 2013) ha evitato il passivo nel computo dei guadagni totali della testata, ha visto una crescita flebile arrivata lo scorso anno a 0,7%.
Ancora troppo poco per dichiarare il modello del giornale come solido ed efficace anche sul lungo periodo.

L’informazione può prescindere da Facebook?

Img: dawn.com

Il rapporto tra il mondo dell’editoria e Facebook ha vissuto fasi alterne. Al grande entusiasmo delle principali testate per le applicazioni di Social Reading – adottate a partire dal 2009 per leggere, commentare, condividere gli articoli proprio attraverso il social network di Palo Alto – si è registrato un raffreddamento in virtù dei successivi cambiamenti nell’algoritmo della gestione del flusso di notizie (e dei conseguenti ridimensionamenti del traffico da Facebook) che hanno messo la parola fine a molti dei progetti di stretta collaborazione.

Dalla scorsa settimana, una notizia pubblicata dal New York Times, ha però riportato sotto i riflettori l’ambizione di Facebook di diventare il “miglior giornale personalizzato del mondo”. Pare infatti che il social network guidato da Zuckerberg, forte dei suoi 1,4 miliardi di utenti, abbia iniziato ad intavolare con una dozzina di media company (tre le quali BuzzFeed, National Geographic, il Guardian, l’Huffington Post, Quartz e lo stesso NYT) una serie di incontri per valutare la disponibilità delle testate a veicolare i contenuti direttamente nel social network piuttosto che utilizzare, come avviene ora, collegamenti esterni ai vari articoli.

L’obiettivo parrebbe quello di incrementare la soddisfazione del lettore in termini di user experience: superando l’ostacolo del rimando ai siti delle testate e, conseguentemente, il caricamento di nuove pagine, il rischio di spazientire l’utente, soprattutto se si tratta di un lettore che naviga su web da mobile, si ridimensionerebbe notevolmente. Ciò comporterebbe un aumento del tempo speso nel social network e, quindi, un incremento dell’esposizione ai messaggi pubblicitari veicolati attraverso Facebook.

Al di là delle modalità legate alla pubblicità all’interno dei contenuti delle testate – pare che Zuckerberg e soci vogliano proporre agli editori una sorta di affiliazione: spazi pubblicitari gestiti da Facebook inseriti negli articoli e suddivisione degli introiti in base alle performance – resta da capire se le testate accetteranno di scambiare la visibilità dei loro pezzi cedendo però a Facebook i (preziosi) dati circa i profili dei lettori e il loro comportamento nei confronti del materiale informativo.

Leo Mirani, in un interessante articolo pubblicato da Quarz, ha sottolineato come l’offerta di contenuti a “spazi terzi” (quali, ad esempio, YouTube e Snapchat) attraverso i quali diffondere gli articoli, non sia per le redazioni una novità. Proprio per questo motivo, a suo dire, non bisogna temere l’iniziativa di Facebook (che, tra l’altro, non prefigura il social network come canale giornalistico esclusivo). Perché non si può insistere nel pensare che siano i lettori a visitare i siti delle varie testate: chi produce contenuti deve essere presente nei luoghi dove gli utenti sono soliti raccogliersi.

E sotto questo punto di vista, nel bene e nel male, prescindere da Facebook oggi non sembra possibile.

Il formato giornale è diventato obsoleto?

Img: slideshare.net

Nelle mie analisi – su blog e in News(paper) Revolution – ho focalizzato l’attenzione sulle soluzioni mediante le quali il giornalismo “tradizionale” tenta di rispondere alle sollecitazioni provenienti dal web dando forse per scontato che fosse l’intero comparto legato al “quarto potere” a doversi adattare ai social media, all’informazione su mobile e a tutte le altre peculiarità delle Rete. E se, invece, il fulcro del cambiamento in atto non fosse strutturale ma bensì legato al formato attraverso cui il “quarto potere” si è per anni concretizzato? Se, in altre parole, fosse il formato “giornale” ad essere entrato in crisi non rispondendo alle esigenze delle persone, più che la routine lavorativa che produce e distribuisce le notizie?

A scatenare in me le riflessioni sul concetto di “quotidiano” è stata la notizia pubblicata da molte redazioni circa la scelta di tre delle maggiori testate statunitensi – New York Times, Wall Street Journal e Washington Post – di aderire al progetto Blendle distribuendo attraverso la start-up olandese i propri articoli. In realtà il New York Times – con un altro gigante editoriale quale Alex Springer Digital Ventures – già lo scorso ottobre aveva dimostrato un notevole interesse per Blendle, contribuendo al progetto con un investimento di 3 milioni di euro. Obiettivo dichiarato: espandere il servizio a mercati europei al di fuori dell’Olanda per verificare la bontà dell’iniziativa.
In una bella intervista pubblicata su Contently, Marten Blankesteijn, co-founder di Blendle, ha spiegato il ragionamento alla base del servizio: i lettori che sono ben predisposti ad un abbonamento digitale trovano oggi molti valide alternative; chi invece non vuole abbonarsi perché non gradisce le modalità/i costi degli abbonamenti proposti o perché non apprezza la testata a tal punto da volersi legare ad essa in maniera continuativa, non ha invece molta scelta (questo ragionamento è valido soprattutto fuori dall’Italia, dove le principali testate adottano il paywall che, senza abbonamento, consente la fruizione gratuita di un numero limitato di articoli al mese). Non è detto però che chi non sottoscrive un abbonamento non sia disposto a pagare per informarsi. Ed è proprio qui che entra in gioco Blendle: una volta registrati e caricato del denaro nel proprio portafogli virtuale (es. 10 o 20 euro), l’utente può scegliere uno degli articoli da leggere tra i giornali e le riviste in database, pagandolo singolarmente una cifra che solitamente si aggira tra i 15 e i 30 centesimi a pezzo. Con inoltre la possibilità, una volta terminata la lettura, di vedersi restituita la cifra se l’articolo non soddisfa appieno le aspettative. Una vera e propria rivoluzione: gli articoli all’interno di Blendle sono proposti in maniera autonoma rispetto alla loro testata di riferimento ed entrano in diretta competizione tanto con gli altri pezzi dello stesso giornale quanto con gli articoli dei gruppi editoriali concorrenti. Il sistema consente di seguire gli articoli legati ad un determinato argomento e di essere informati circa i contenuti scritti da uno specifico giornalista.

Dal punto di vista finanziario, della cifra pagata dall’utente, il 30% resta a Blendle, il 70% viene riconosciuto alla testata.

Per stessa ammissione dei fondatori, Blendle non si configura come alternativo ai sistemi un uso oggi nelle testate, quanto piuttosto va a completare il panorama informativo offrendo agli utenti l’opportunità di una fruizione delle notizie trasversale alle testate.

Se il sistema può sicuramente fungere da incentivo per un giornalismo di qualità – le redazioni devono impegnarsi ancora di più per guadagnare, pezzo dopo pezzo, il favore degli utenti – restano almeno due i punti da chiarire.
Quanti articoli al mese, in media, un utente acquisti (in questo modo si potrebbero fare valutazioni sulla sostenibilità del servizio) e in che modo il superamento della “cornice” giornale – con le prime pagine nelle quali trovano posto notizie su diversi argomenti – finisca con l’influire nella conoscenza del mondo da parte del lettore.

I micro-pagamenti sconvolgeranno il mondo del giornalismo in maniera analoga a quanto accaduto con gli store digitali per la musica?

p.s.= ho provato a contattare il team Blendle per chiedere dei numeri; mi hanno risposto che le uniche che possono rendere pubbliche sono i 230.000 subscribers dei quali il 21% paying users.

Giornali e blog di testata: un rapporto in evoluzione

Img: heartland.org

Il fenomeno dei blog nacque nella metà degli anni Novanta e più precisamente quando, nel 1994, Justin Hall, allora studente dello Swarthmore College, iniziò a raccontare la propria vita e le proprie avventure nella Rete in una sorta di diario online. Justin’s Links from the Underground, questo il nome dello spazio Web, è comunemente accettato quale primo rudimentale prototipo di blog.
Per le versioni più simili a quelle attualmente in uso occorrerà tuttavia attendere sino al 1999 quando Evan Williams e Meg Hourihan lanciarono Blogger, società poi acquistata nel 2003 da Google.
I blog, nel corso degli anni, hanno fatto registrare un notevole successo, contribuendo non poco all’evoluzione della Rete e, di riflesso, del giornalismo e della professione giornalistica. L’esempio forse più eclatante in questo senso è l’Huffington Post ma, in generale, tutte le testate hanno attinto a piene mani dalla blogosfera, sia in termini di forma che di sostanza.

Alcune settimane fa però, uno tra i più autorevoli giornali ha in realtà fatto un passo indietro. Il New York Times ha infatti annunciato la decisione di diminuire (gradatamente) il numero di blog della testata, unendo quelli che affrontano tematiche più simili ed eliminando quelli non ritenuti più interessanti. Che cosa si cela dietro la decisione di uno degli spazi informativi più all’avanguardia di ridimensionare la propria componente blog? Immagino che la scelta derivi da una serie di considerazioni, non da un’unica causa scatenante, ma resta il fatto che mi ha davvero colpito leggere della decisione del NYT. Cercando maggiori informazioni, ho capito che alla base vi siano delle valutazioni sul traffico generato (per alcuni blog le visite erano poche se paragonate a quelle fatte registrare dagli spazi più seguiti), sulla frequenza di pubblicazione (non tutti i blog erano così frequentemente aggiornati) e sulla qualità dei post (diminuendo il numero dei blog ci si può concentrare su un numero complessivo minore di articoli qualitativamente migliori). Altra discriminante potrebbe essere stata quella dei link di arrivo ai blog: a quanto pare, gli utenti, per la stragrande maggioranza dei casi, visitano i blog tramite click sui link della homepage o vi giungono da collegamenti condivisi, pochissimi sono gli utenti che nella lettura partono direttamente dai blog. Infine, dal punto di vista tecnico, il software utilizzato per i blog del giornale pare non sia perfettamente compatibile con il design utilizzato per gli articoli della testata.
Il cambiamento intrapreso rappresenta l’inizio di un ridimensionamento dei blog da parte delle redazioni storiche?
Stando alle parole di Ian Fisherassistant managing editor al NYT – il giornale non vuole rinunciare all’aspetto conversazionale dei post. Solo, per ottimizzare le risorse, sta vagliando nuove modalità attraverso le quali inserire i contributi del proprio network di blog all’interno del flusso delle notizie, evitando così l’isolamento dei weblog a qualcosa di “altro” rispetto agli articoli del quotidiano online.

Obiettivo più che legittimo, resta da capire però come (e se) sia possibile sfruttare al meglio i blog senza snaturarne gli aspetti salienti che li differenziano, per tono, linguaggio e modalità di scrittura, dalle storie comunemente raccontate in un giornale.

L’innovazione del giornalismo secondo il New York Times

Img: mashable.com

Da un mese a questa parte uno dei documenti più discussi tra coloro che occupano di media è l’Innovation Report del New York Times, un pdf di 97 pagine che traccia lo status attuale del famoso quotidiano statunitense identificando le nuove sfide che il giornale dovrà affrontare sin da subito per rispondere alla sempre più agguerrita concorrenza su web.

Se l’obiettivo della testata resta sempre quello di produrre il miglior giornalismo, sin dalle prime righe appare chiaro come il Times necessiti di una nuova strategia, un moderno atteggiamento che possa far fronte alla diminuzione del bacino di lettori (non solo del sito ma anche della app) fatta registrare i primi mesi del 2014.

Il successo del paywall offre la stabilità economica necessaria per continuare a rinnovare il giornale proseguendo la ricerca di un nuovo equilibrio lontano dalla tradizione carto-centrica sulle cui basi la testata ha costruito i suoi più rilevanti successi. Si tratta di una transizione che, adottando l’approccio del digital first porta, ad esempio, ad utilizzare per il giornale a stampa i migliori contenuti digitale, non viceversa.

Il nuovo modus operandi si basa su tre concetti fondamentali: discovery, promotion e connection. In sintesi: studiare come proporre e distribuire i contenuti, come attirare l’attenzione degli utenti, come creare relazioni durature e continuative con i lettori.

Lettori che in percentuali sempre più alte utilizzano tablet e smartphone per informarsi, e che arrivano alle notizie più dai social network che dalla hompege del sito (nonostante i vari restyling, solo 1/3 dei lettori visita la “prima pagina” su web del giornale).
L’audience va quindi cercata, l’edizione cartacea funge sono in pochissimi casi da traino per il sito online. I giovani lettori, in particolare, stanno abbandonando la navigazione a favore dei social media: “se qualcosa è importante, mi troverà”, lasciano siano le notizie a raggiungerli piuttosto che operarsi per trovare il contenuto a loro più adatto.

Focalizzarsi sui lettori è condizione necessaria ma non sufficiente, occorre infatti ripensare anche i contenti e alle modalità con le quali le notizie sono proposte. Ancora troppo spesso i giornalisti pensano che il proprio compito si esaurisca con la pubblicazione del pezzo. In realtà, come dimostra il successo Huffington Post (e l’attenzione posta dalla redazione alla fasi successive la messa online dell’articolo), la vita di un contributo inizia con la diffusione pubblica su web, non si esaurisce semplicemente con l’upload.

In generale, quindi, va ripensato il modo di proporre le news. Il traffico generato da una notizia scema drammaticamente dopo un solo giorno dalla pubblicazione. Occorre vagliare nuove soluzioni per allungare il “tempo di interesse” delle informazioni proposte, facendo in modo che gli articoli siano più utili, più rilevanti, più propensi alla condivisione da parte degli utenti.

Senza dimenticare gli aspetti legati alla personalizzazione delle notizie, sulla cui tecnologia molti sono i player (da Facebook Paper al Washington Post) che stanno investendo.

Che si tratti o meno della versione definitiva del documento presentato al management della New York Times Company, il testo raccoglie molti spunti interessanti che dimostrano come la sfida del web non sia ancora vinta appieno e non vi siano molte certezze nemmeno per un gruppo solido come quello del Times chiamato ogni giorno a rimettersi in gioco continuamente.

Il Washington Post apre ai quotidiani locali, l’influenza di Bezos inizia a farsi sentire

Img: washingtonpost.com

Da quando Jeff Bezos ha acquistato il Washington Post ho con curiosità aspettato la prima rilevante decisione per comprendere il suo approccio alla guida di una così prestigiosa testata. In settimana qualcosa in questo senso pare essersi mosso.

Il pubblico di lettori del Washington Post è piuttosto omogeneo, almeno in termini di ubicazione geografica. A differenza del “rivale” New York Times che può contare su una notevole fetta di acquirenti del quotidiano fuori dalla “Grande Mela”, il WP resta fortemente ancorato, in termini di vendite, alla Capitale degli Stati Uniti. Tale aspetto, almeno per quel che concerne le copie a stampa, è diventato ancora più palese dopo il 2009 quando i vertici, per ovviare alla crisi, decisero di chiudere le redazioni del giornale a New York, Chicago e Los Angeles. L’avvento del digitale, nonostante gli sforzi per rendere la testata più forte sia a livello nazionale che internazionale, non è ancora riuscito nell’impresa di allargare il bacino di riferimento.

Proprio su questo versante il “Bezos pensiero” sembra essersi concretizzato in un primo importante cambio di prospettiva. In base alle dichiarazioni rilasciate al Financial Times da Steve Hills, presidente del WP, una delle primissime indicazioni del fondatore di Amazon, è stata quella di esplorare diverse soluzioni puntando sul successo digitale a lungo termine. La questione, come sottolinea lo stesso Hills, non è affatto di poco conto. Se nella precedente gestione il traguardo era legato alla realizzazione di guadagni nei 2/3 anni successivi, il cambio di rotta in atto, considerando un lasso temporale più ampio, consente – almeno potenzialmente – di valutare molte più opportunità.

Non è un caso quindi che, dal prossimo maggio, il giornale abbia deciso di offrire gratuitamente l’accesso digitale ai contenuti di sito e app, agli abbonati di sei quotidiani locali degli Stati Uniti, dal Dallas Morning Star al Minneapolis Star Tribune. In questo modo si stima che il pubblico di riferimento della testata possa crescere notevolmente anche perchè non è escluso che a breve il giornale possa adottare lo stesso approccio stringendo collaborazioni con i più noti servizi premium, da Spotify alle televisioni a pagamento.

Forse c’era davvero bisogno di un affermato professionista del digitale non legato all’editoria per allargare l’orizzonte della stampa.

In bocca al lupo signor Bezos, io faccio il tifo per lei!

La nuova veste del New York Times, tra interattività e native adv

img: from AdAge.com

Lo scorso 8 gennaio, il New York Times ha iniziato a proporre la nuova veste grafica. Obiettivo primario – come sintetizzato nel minisite del lancio – è quello di rendere l’esperienza di lettura più profonda e coinvolgente, offrendo ai lettori un’interfaccia in grado di rispondere con maggiore tempestività e semplicità ai bisogni informativi.

Le sei novità più sostanziose sono:

1. Gli articoli non sono più spezzati in diverse pagine, la lettura può proseguire con il solo scroll senza più la necessità di cliccare “Continua”. Le foto degli articoli, inoltre, possono essere ingrandite per poi tornare alla lettura.

2. L’area dedicata ai commenti è stata espansa e la si può navigare parallelamente all’articolo di modo da rendere gli interventi degli utenti di più facile comprensione;

3. La navigazione tra contenuti ora può avvenire anche in maniera orizzontale grazie a un box a lato dell’articolo e a una barra in alto che consente di scoprire gli altri contributi della sezione;

4. Il sito, nella parte alta, avvisa l’utente circa la pubblicazione delle breaking news;

5. Il tasto per la condivisione è, in alto, sempre visibile. Non è legato ai contenuti ma fa parte della cornice del sito entro la quale ogni articolo viene caricato. Lo stesso dicasi per le sezioni, raggruppate in un unico menu laterale.

6. Maggiore spazio ai suggerimenti che rimandano ad articoli correlati su una particolare tematica, e a quelli più condivisi.

Alle scelte legate al design sia affianca l’utilizzo da parte della testata del native advertising. Avevo già trattato l’argomento, ora anche il NYT ha deciso di proporre agli inserzionisti la pubblicazione di contenuti sponsorizzati.

La prima campagna, online per i prossimi tre mesi, vede protagonista Dell. A supporto della classica tabellare, è stata creata una sezione apposita che viene richiamata da un riquadro blu nella homepage nel quale campeggia la scritta “Paid Post”. Il click rimanda a paidpost.nytimes.com, un minisite che pubblica gli articoli sponsorizzati (“PAID FOR AND POSTED BY DELL” recita il titolo della pagina). Il primo post, Will millennials ever completely shun the office?, secondo quanto riportato da AdAge.com, sarebbe stato scritto da un freelance che collabora con la testata sulla base di un tema non legato in maniera diretta ai prodotti del colosso americano dell’hardware – quello appunto della cosiddetta milleniam generation – proposto da un editor del NYT e avvallato da Dell. I commenti all’articolo sono disattivati e, in caso di condivisione del contributo via Twitter, un testo predefinito suggerisce come prima parte del messaggio: “Dell Paid Post – From NYTimes.com” (da notare come il post non sia stato diffuso dalla testata nei propri profili social media).

Scorrendo la Timeline che sintetizza i vari cambiamenti della presenza online del NYT, è facile capire come il giornale in Rete stia diventando qualcosa di sempre più ibrido, capace di innovarsi facendo proprie le scelte di maggior successo di blog (es. articoli correlati, scroll per proseguire la lettura) e applicazioni (il flip laterale che in un certo senso richiama il voltare pagina di quotidiano cartaceo), e testando nuovi approcci pubblicitari (native advertising) alla ricerca di soluzioni valide a lungo termine.

New York Times Company, crescono i profitti. Ma non grazie all’adv.

nyt_3rdquarter_13Ultimamente ho focalizzato la mia attenzione su alcune redazioni locali statunitensi e sul loro approccio alla crisi della stampa. Con questo post, invece, torno ad occuparmi di uno dei colossi del giornalismo a stelle e strisce. Sono infatti stati resi noti i dati relativi al terzo quarter del 2013 di The New York Times Company. Le cifre pubblicate permettono di avere un’idea sullo stato di salute di una delle aziende più importanti al mondo nel panorama dei media.
Il primo dato è quello che, rispetto allo stesso periodo del 2012, i profitti sono in aumento: dagli 8.9 si è passati quest’anno ai 12.9 milioni di dollari, una crescita che, al netto della svalutazione, dell’ammortamento e di alcune liquidazioni di fine rapporto, è stimata attorno al 35%.
Nel terzo quarter del 2013 il totale delle entrate è aumentato del 1.8%, 4.8% se considerata la sola distribuzione. Da notare come, proprio per quel che concerne la diffusione dei giornali, i guadagni crescano sia per il comparto digitale sia per quello della stampa classica nonostante quest’ultima registri un calo delle vendite. La diminuzione del numero di copie cartacee acquistate è stato infatti bilanciata da un aumento del prezzo del quotidiano.

I guadagni provenienti degli abbonamenti digitali ammontano, nel terzo quarter del 2013, a 37.7 milioni di dollari, +29% rispetto allo stesso periodo del 2012. Se l’analisi si allarga ai primi nove mesi del 2013, la percentuale rispetto allo scorso anno sale al 42.4.

Il numero delle iscrizioni digitali continua ad aumentare attestandosi, per quel che concerne New York Times e Herald Tribune, a circa 727.000, il 29% in più rispetto al medesimo periodo del 2012.

Nell’insieme di cifre in progresso è però da notare la frenata degli introiti derivanti dalla pubblicità. Se il -1.6% dei guadagni da adv cartaceo era quantomeno prevedibile, il -3.4% dell’adv online rispetto al 2012 fa sicuramente riflettere. I guadagni da adv digitali, rispetto al totale delle revenue pubblicitarie del gruppo, scendono a 23.8% rispetto al 24.1% dello scorso anno. In realtà è da inizio anno che le entrate pubblicitarie sembrano soffrire: considerando i primi nove mesi del 2013 rispetto a quelli del 2012, l’adv digitale registra un -7.3%, quello a stampa un -3.2%.

In sostanza, da quanto emerge, il The New York Times Company si dimostra ancora una volta un gruppo solido e in salute. Con il progressivo abbassamento dei costi in atto e la parallela crescita dei profitti, il colosso statunitense sta affrontando al meglio le sfide che le testate giornalistiche sono chiamate oggi ad affrontare.

Il fatto che gli introiti pubblicitari, digitali o a stampa, non riescano a tornare a crescere, risulta, in estrema sintesi, un “monito” per tutte le testate: ad oggi, preferibile puntare sui contenuti (e, in generale, sulle iniziative volte a migliorare il rapporto con i lettori) piuttosto che sulla pubblicità che questi possono veicolare.

Know More, l’esperimento semiserio del Washington Post

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Img: http://knowmore.washingtonpost.com

Quando mi capita di parlare in pubblico di web e comunicazione [a proposito, per chi ancora non lo sapesse, domani presenterò News(paper) Revolution a La Fiera delle Parole], uno dei punti sui quali insisto maggiormente è quello relativo alla mia convinzione che, proprio in virtù del mare magnum che è il web, la funzione di “filtro” sia necessaria per non rischiare di perdere la bussola.
A tal proposito cito spesso l’esempio di Compendium, il progetto del New York Times in virtù del quale gli utenti possono organizzare una sorta di bacheca (Pinterest docet) con i contenuti della testata che reputano più interessanti, da condividere con amici e conoscenti (il primo filtro è il giornalista, il secondo, ancora più accurato, è il lettore).
E’ di questi giorni un’iniziativa analoga del Washington Post, forse più “scanzonata”, più semplice ma non per questo non degna di nota.
Lo spazio al quale faccio riferimento è Know More, una riproposizione in salsa blog (trae origine dal Wonkblog) di una bacheca virtuale nella quale però i contenuti sono per la stragrande maggioranza esterni alla testata. Foto, video, grafici sintetizzati con un titolo accattivante che, se cliccati, si aprono a tutto schermo mostrando ai lati due bottoni: No more e Know more. Se si sceglie l’opzione di sinistra (la prima) il contenuto scompare dalla bacheca, se si opta per la seconda si viene rimandati alla fonte dell’informazione. Chi sceglie cosa pubblicare? Una miniredazione composta, al momento, da Dylan Matthews e Ezra Klein. Quest’ultima, presentando l’iniziativa ha sottolineato come lo scopo sia quello di stimolare nei lettori l’approfondimento, un supporto agli articoli interessanti ma non costruiti abbastanza bene da essere trovati dal pubblico. L’aspetto singolare è che mentre solitamente le iniziative editoriali puntano a incrementare il tempo speso entro i propri “confini”, il successo di Know More si misurerà nel numero di utenti che sceglieranno di lasciare lo spazio per leggere altrove. Sintetico e audace, da seguire.