Magazine sempre più “quotidiani”: il caso The New Yorker

Img: newyorker.com

Nel mio seguire gli sviluppi dell’informazione online, quasi involontariamente, finisco per concentrarmi spesso sui quotidiani a discapito dei magazine, quelli che forse hanno sentito ancora di più il passaggio dalla carta stampata al digitale.
Ecco perché quando ho letto del restyling del famoso The New Yorker dello scorso luglio ho voluto approfondire la nuova strategia della nota rivista fondata da Harold Ross.
Il cambio di veste grafica, incentrato sul concetto di user experience, ha reso la fruizione dei contenuti molto più accattivante: indipendentemente dallo strumento utilizzato, i lettori hanno ora a disposizione uno spazio nel quale testi, immagini e video si alternano in maniera semplice, pulita e ordinata.
Per fare in modo che quanti più utenti potessero scoprire le novità, il magazine ha deciso di aprire il proprio archivio dando l’opportunità a chiunque di leggere ogni singolo articolo pubblicato dal 2007 (la testata ha invitato gli utenti a stilare la propria classifica, in molti hanno iniziato a proporre la propria lista di articoli preferiti condividendoli nei social network). L’operazione, della durata di 3 mesi e frutto della sponsorizzazione di alcuni brand come Haagen-Dazs che collaborano da tempo con la rivista, anticiperà entrata in vigore del paywall, il sistema in uso in molti giornali che consente agli utenti non registrati di leggere solo un determinato numero di articoli al mese. Ne seguirà lo sviluppo Charl Porter, che proprio dell’implementazione di un sistema analogo si era occupato al Financial Times, la sua precedente realtà lavorativa prima di entrare a Condé Nast.
L’apertura degli archivi a tutti gli utenti non è solo un tentativo di rilanciare il settimanale quanto piuttosto una scelta strategica per ricavare dati dalla cui analisi capire quali siano le preferenze dei lettori per calibrare così al meglio il paywall che dall’autunno sarà adottato dalla rivista.
Non è ancora chiaro se il paywall sarà esteso a tutti i contenuti e a tutte le sezioni del sito ma, sicuramente, rappresenta un passo in avanti rispetto alla strategia adottata dalla redazione che, sino a non molto tempo fa, per decidere quale pezzo pubblicare, ad ogni numero cartaceo riuniva i giornalisti attorno a un tavolo per scegliere gli articoli da caricare nel sito e quelli da invece riservare alla sola stampa tradizionale.

In un messaggio ai lettori pubblicato nel sito, si spiega come il sito web punti a diventare nel corso del tempo un’entità sempre più indipendente dal cartaceo: le 15 storie inedite pubblicate ogni giorno online cresceranno di numero e si affiancheranno a nuove rubriche quali il Daily Cultural Comment, per raccontare in maniera migliore i fatti del mondo e dar modo anche ai lettori del cartaceo di avere a disposizione contenuti diversi e multimediali (podcast, video, grafici interattivi e slide show). Ad oggi il 60/70% degli articoli online sono frutto del lavoro di freelance, l’obiettivo a lungo termine è quello di diminuire tale quota sfruttando al meglio lo staff “interno” a disposizione.

Una sfida non da poco quella del New Yorker e degli altri periodici: produrre continuamente nuovi contenuti capaci di incontrare i favori del pubblico (trasformandosi, almeno in parte, in quotidiani) mantenendo inalterate identità e autorevolezza.

Slate lancia Slate Plus, l’alternativa freemium al paywall

Img: wikimedia.org

Nella puntata dello scorso 28 aprile di Eta Beta, programma radiofonico condotto da Massimo Cerofolini e dedicato nell’occasione ai cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo, ho avuto modo di citare la pratica del paywall tramite la quale i quotidiani online hanno iniziato a proporre i propri contenuti (per chi non lo conoscesse, si tratta di un monte articoli al mese, di solito compreso nella sua forma più soft tra 10 e 20 pezzi gratuitamente fruibili, superato il quale le notizie per essere lette necessitano di una forma di abbonamento). Non si tratta dell’unico approccio adottato ma sicuramente di quello che, nonostante i detrattori non lo vedano come soluzione valida a lungo termine, sta contribuendo ad arginare le perdite del comparto editoria.

Un’iniziativa di sicuro interesse in questo senso è quella proposta dal magazine statunitense Slate. I contenuti del sito restano free per tutti ma ai lettori è anche offerta l’opportunità di sottoscrivere l’abbonamentp a Slate Plus.

Slate Plus is an all-access pass for readers who support our journalism and want a closer connection to it. For $5 a month or $50 a year, a richer Slate experience awaits you.

Diventando membri di S+ si possono leggere le notizie tutte in una pagina, i propri commenti vengono pubblicati a margine dell’articolo senza apparire in un pop-up, si possono ascoltare dei podcast esclusivi (o senza interruzioni pubblicitarie), vedere video del dietro le quinte del lavoro della redazione o partecipare a chat private con alcune delle firme più prestigiose, acquistare con lo sconto del 30% il merchandise ufficiale.

David Plotz, presentando l’iniziativa, ha sottolineato più volte come S+ non sia una modalità freemium tramite la quale chiedere soldi ai lettori in cambio di articoli informativi quanto piuttosto un tentativo di proporre delle opportunità extra ai lettori rispetto a quanto proposto a incondizionatamente a tutti.

L’articolo, in data odierna, è stato commentato 1368 volte. Scorrendo fra i commenti un confronto su tutti mi è parso interessante: un utente (aka Krocnyc) esprimendo un suo giudizio sull’abbonamento si chiede perché debba pagare per avere i bonus previsti da S+; gli risponde Jennifer Lai, moderatrice Slate che cita l’esempio di coloro i quali acquistano i DVD edizione speciale (con extra quali il commento del regista o le scene tagliate) pur potendo risparmiare con la semplice proposta “DVD solo film”. La conversazione continua con l’utente che lapidario chiede: “Esiste ancora qualcuno che compra DVD? Per i contenuti extra?”

La risposta circa il vero intento di S+ a mio modo di vedere arriva poche righe più in basso quando Jennifer Lai indica come duplice scopo del nuovo membership program prima di tutto quello di cercare di focalizzarsi maggiormente sull’aspetto conversazionale delle notizie tra utenti e tra lettori e giornalisti (livechat, videochat, maggior spazio ai commenti, etc.) e, dall’altro lato, quello di supportare il giornalismo che Slate incarna.

Al di là dei primi giudizi, sarà interessante vedere come i lettori di Slate reagiranno alla proposta della redazione. Sinceramente, i benefit offerti non mi sembrano giustificare il costo mensile di 5 dollari, ma  è anche vero che se qualcosa mi gratifica (e la lettura di articoli interessanti sicuramente può essere annoverata tra ciò che mi appaga), sono ben disposto a dimostrare il mio apprezzamento a prescindere dai bonus.

E se invece che “Join S+” fosse stato proposto un più semplice “Support Us”?

Quando la stampa scopre l’ecommerce

Img: wwd.com

Alcuni giorni fa mi è stato chiesto di commentare la partnership tra Harper’s Bazaar, storico magazine di moda e stile del gruppo Hearst, con l’italiana Yoox (UPDATE: l’intervista è stata pubblicata nel numero di dicembre di AdV). Ho in questo modo potuto approfondire gli aspetti legati al rapporto tra stampa ed ecommerce che, focalizzando la mia attenzione prevalentemente al mondo dei quotidiani, avevo forse tralasciato.

In questi ultimi anni molti sono i gruppi editoriali che hanno deciso di puntare sul commercio elettronico. Condé Nast, tanto per citare un altro esempio, ha investito in due marketplace: Farfetch, spazio che unisce boutique indipendenti e Vestiaire Collective, community dedicata alla vendita online di abiti e accessori di lusso usati.

In ordine di tempo, una delle prime strette collaborazioni tra chi scrive contenuti e chi vende beni su web, è stata quella di Vogue che, per la settimana della moda di New York del settembre 2012, offrì alle proprie lettrici la possibilità di acquistare, attraverso il luxury retailer Moda Operandi, i capi di abbigliamento presentati nelle passerelle.

Altro caso degno di nota è quello di Elle che lo scorso anno ha iniziato a sperimentare il social e-commerce. La redazione presentava alcuni capi “must” della stagione in arrivo, gli utenti potevano interagire con in contenuti scegliendo tra “Love”, “Want”, “Own” o, più sotto, “Buy”.

In realtà, scandagliando la Rete ho trovato anche qualcosa di relativo ai quotidiani. L’autorevole Washington Street Journal ha, infatti, da alcuni giorni lanciato un proprio canale ecommerce. Si chiama The Shops, un sito di vendita online di prodotti di lusso sponsorizzato da Capital One (e dalla sua carta di credito). Tutto torna. O quasi. Perché poi, in fondo alla pagina, un riquadro magenta sottolinea come il sito operi in maniera indipendente dalla redazione del quotidiano finanziario.

L’editoria in crisi sperimenta nuove soluzioni – che alle volte si allontanano dal core business delle news – alla ricerca di modelli economici alternativi.
Se per la stampa l’ecommerce possa rappresentare una interessante fonte di reddito forse è troppo presto per dirlo. In ogni caso, da lettore, mi auguro che ciò avvenga in maniera trasparente salvaguardando la distinzione tra contenuto informativo e pubblicitario.

Dall’edicola ai tablet: i magazine su Next Issue

next issue

img from goodereder.com

Nel 2011, alla ricerca di modelli di business in grado di garantire un solido futuro al mondo dell’informazione giornalistica online, tre colossi dell’editoria americana (Gannet Company, The New York Company e The Washington Post Company) finanziarono il progetto ONGO, una sorta di aggregatore delle notizie di oltre 50 tra le più seguite testate statunitensi organizzate in 8 sezione tematiche. Nonostante le news fossero presentate senza pubblicità e l’abbonamento mensile fosse sceso rapidamente sino ad arrivare a 1.99 dollari, l’esperimento, dopo poco più di un anno, si concluse, bruciando così i 12 milioni di dollari di finanziamento iniziale.

Se il progetto ONGO non ha dato i frutti sperati, c’è un’altra realtà che invece sta raccogliendo consensi. Si chiama Next Issue, ha uffici a Palo Alto e New York e prima di Natale (il 15 dicembre 2013) renderà il proprio servizio disponibile anche oltre i confini USA, in Canada.

Di cosa si tratta? Next Issue è un’applicazione che permette la lettura di oltre 100 magazine. Frutto della partnership tra Condé Nast, Hearst corporation, Meredith, News Corporation e TimeInc., il sistema permette, previa abbonamento mensile, di avere accesso illimitato alle riviste in catalogo. Una sorta di Spotify dell’informazione periodica. L’utente, armato di iPad, tablet Android o pc/tablet Windows 8, può optare per due tipologie di abbonamento: con 9.9 dollari mese ha a disposizione 97 magazine (da Vanity Fair a Wired, da Fortune a PC Magazine), pagando 14.99 dollari ha accesso a 107 riviste, le mensili più alcune tra i più noti settimanali (Time, People, The New Yorker, Sports Illustrated…). Scegliendo tra le proprie riviste preferite l’utente avrà modo di sfogliarle appositamente impaginate per il supporto in uso, con la pubblicità, ma con la possibilità di visualizzare contenuti speciali quali video, interviste, animazioni grafiche.

Next Issue trattiene per sé il 40% lasciando la restante percentuale dei proventi ai gruppi editoriali.

La componente prezzo mi pare molto interessante: il costo mese richiesto all’utente non è bassissimo se paragonato alle cifre di un abbonamento annuale “su carta” a uno dei magazine che il servizio permette di leggere in versione digitale. Proprio per questo motivo per, diciamo così, ammortizzare la spesa, un utente dovrebbe sfogliare un bel po’ di riviste. Il sistema, infatti, si rivolgere ai lettori “avidi” di informazioni, quelli interessati a pochi e ultra selezionati periodici, probabilmente non sfrutterebbero al meglio il servizio e quindi a Next Issue potrebbero preferire per l’abbonamento alla singola rivista (Wired, per esempio, costa 5 dollari per 6 mesi di edizione cartacea e tablet). Trattandosi principalmente di mensili, poi, l’aggiornamento della bacheca con i propri magazine preferiti si rinnoverà solo ogni 30 giorni.

Il servizio merita di essere tenuto sotto la lente di ingrandimento, rappresenta un interessante esperimento per comprendere meglio le dinamiche del lettore digitale. Anche se, a ben vedere, Next Issue non è altro che un sistema di distribuzione di contenuti cartacei online che pare continuare a rivolgersi a una tipologia di lettore abituato ai tempi e ai modi della carta più che alla dinamicità delle Rete.

Tina Brown e lo strano caso del Newsweek


Lo scorso dicembre, in aeroporto per un viaggio all’estero, in attesa dell’imbarco, gironzolando, entrai in un’edicola, una di quelle con un nutrito numero di riviste internazionali. Nonostante non cercassi nulla di particolare, uscii con un magazine in mano (vedi mio tweet). Era l’ultima copia cartacea del Newsweek sulla cui copertina, una panoramica in bianco e nero di New York, capeggiava la scritta sottoforma di hashtag #lastprintissue. Un passaggio epocale era alle porte: alla vigilia degli 80 anni di “onorato” servizio, il giornale fondato da Thomas J. C. Martyn (precedentemente giornalista di cronaca internazionale per il Time), si apprestava a lasciare la carta per il web. Una sfida, quella della Rete, resasi necessaria (in realtà già annunciata nell’ottobre 2012). Newsweek, infatti, acquistato nel 1961 dal gruppo Washington Post Co. nel corso degli anni vede erodersi l’appeal nei confronti dei lettori tanto che, nel 2010, il settimanale è venduto a Sidney Harman per 1 dollaro (confermo: 1 solo dollaro; ma 47 milioni di dollari di passivo). Di lì a poco lo stesso Harman dà vita a una joint venture con l’InterActiveCorp (IAC) creando così una nuova realtà editoriale capace di unire alla freschezza e alla dinamicità di The Daily Beast, la storia e l’autorevolezza del Newsweek. A capo dell’ambizioso progetto, Tina Brown, acclamata ex-direttrice di Vanity Fair e di The New Yorker. Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Perché, notizia di questi giorni, Tina Brown ha deciso di lasciare. Eppure nel suo editoriale pubblicato nell’ultimo numero cartaceo di Newsweek, poco più di un anno fa, sembrava avere le idee molto chiare sul panorama dell’editoria, sui difetti del giornalismo e sugli ostacoli da superare per avere successo. Qualcosa sembra, quindi, non tornare. Tanto che qualcuno tra gli addetti ai lavori inizia a chiedersi se sia a rischio la sopravvivenza del Daily Beast, co-creato nel 2008 dalla stessa Brown e da Barry Diller, spazio informativo vincitore nel 2011 e nel 2012 del Webby Award come migliore sito di notizie. Sì perché, se recentemente lo stesso Diller ha ammesso come l’acquisizione del Newsweek sia stato un errore (il “bistrattato” magazine è stato nuovamente venduto lo scorso agosto, alla IBT Media), sembra che anche per sito le cose non vadano benissimo. Secondo Adweek, infatti, se theDailyBeast.com sembra recuperare in termini di traffico e revenue, le perdite per l’anno in corso sono stimate in 12 milioni di dollari. Tempi duri per chi lavora nell’editoria. Ad ogni livello.