Pangaea Alliance: qualità e tecnologia per contrastare Facebook e Google

The Pangaea Alliance

Img: newsonnews.com

Il difficile periodo della stampa sta continuando. A rendere complicato lo scenario è in particolare la percentuale relativa agli investimenti pubblicitari che, per il comparto informativo, risulta dall’inizio dell’anno ancora in contrazione. Un articolo del Guardian, ad esempio, analizzando lo scenario dei quotidiani d’oltremanica, evidenzia come le prime 10 realtà in termini di budget pubblicitari abbiano tagliato mediamente del 20% gli investimenti in adv nei giornali: dal -20% del top spender Sky, al -39% di Tesco, le grandi realtà aziendali sembrano identificare sempre meno la stampa tradizionale quale risposta alle loro esigenze di visibilità. E, aspetto forse ancora più preoccupante, non solo su carta. Anche il comparto digitale delle testate, infatti, se non registra segni meno, ha mediamente rallentato la sua crescita. Uno degli esempi più lampanti in questo senso è quello del Daily Mail che, nonostante i 200 milioni di utenti al mese, non è ancora riuscito a trovare un efficace approccio per sfruttare al meglio il proprio bacino di utenza e, dalla scorsa estate, per quel che concerne il reparto digital, ha fatto segnare una crescita minima. Intendiamoci, non è la Rete il problema, gli investimenti online crescono di anno in anno (anche se nel 2015 con tassi trimestrali di crescita inferiori rispetto a quelli dei due anni precedenti). Solo, al momento, il grosso della fetta pubblicitaria online è preda di piattaforme quali Facebook e Google piuttosto che degli editori.

Ecco spiegato il motivo per il quale il Guardian, il Financial Times, la CNN e la Thomson Reuters, pur competitor nel panorama informativo, hanno deciso di collaborare sul fronte dell’advertising in Pangaea Alliance. Combinando l’audience di ciascuna testata (sino al 10% degli spazi pubblicitari di ciascuna realtà coinvolta), il totale di 110 milioni di utenti risulta infatti molto più interessante per gli inserzionisti delle inventory di ciascuna delle singole realtà informative. I brand, tramite quella che viene chiamata in gergo programmatic technology – in parole semplici, un sistema automatizzato di compravendita di spazi pubblicitari – avranno modo, in virtù di un pubblico più ampio di riferimento, di comunicare i loro messaggi pubblicitari in maniera più efficace. Come? Senza addentrarsi in tecnicismi, al centro del progetto ci sono una data management platform (DMP) e un ad server in grado di segmentare i diversi utenti sulla base del loro comportamento online offrendo l’opportunità agli inserzionisti di identificare e mostrare messaggi pubblicitari anche a gruppi di utenti molto specifici quali, ad esempio, i viaggiatori frequenti.

Singolare il fatto che, dal punto vista tecnologico, a Pangaea Alliance partecipi indirettamente anche il Wall Street Journal, il cui gruppo di riferimento – la News Corp – detiene il 13,7% delle azione di Rubicon Project, realtà alla base del marketplace che mette in relazione editori e inserzionisti.

E’ bene sottolineare come Pangaea Alliance non sostituisce i canali ad oggi utilizzati per la diffusione dei messaggi pubblicitari (che restano in gran parte gestiti in maniera autonoma da ogni singola testata), quanto completa l’offerta con una modalità trasversale che punta sulla qualità dei contenuti che andranno ad affiancarsi ai messaggi pubblicitari.

Un progetto analogo con protagonisti il New York Times, il Tribune e i gruppi editoriali Hearst e Gannett – chiamato quadrantONE – seppur nato in un contesto differente, dopo cinque anni di attività, nel febbraio 2013 è stato abbandonato.

In un panorama complicato come quello della stampa, risulta difficile pronosticare, nonostante le testate di primissimo piano coinvolte, se Pangeaea Alliance, dopo la fase di test, sarà in grado di proporsi in maniera agguerrita nel sempre più fluido mercato pubblicitario.

Ciò da cui per i giornali pare impossibile prescindere per sopravvivere, è in ogni caso l’aspetto legato agli investimenti in tecnologia, fattore sempre più discriminante per il successo di un progetto editoriale.

Se potessi avere un milione di abbonati al mese

Img: bostonglobe.com

Il New York Times, con un comunicato ufficiale pubblicato lo scorso 8 agosto, ha reso noto il superamento (a fine giugno) della quota di 1 milione di abbonati digital-only. Il risultato è stato ottenuto grazie al paywall, sistema che dal 2011 consente agli utenti non abbonati di fruire gratuitamente di un numero limitato di articoli del giornale al mese, richiedendo la sottoscrizione di un abbonamento per proseguire la lettura dei contenuti della testata. Al lancio, in un mondo – quello editoriale – che faceva della gratuità online una sorta di dogma della Rete, in pochi avrebbero immaginato che in poco meno di quattro anni e mezzo il NYT potesse raggiungere tale traguardo (anche il Wall Street Journal, a quota 900.000 abbonati, intravede la meta). Il presupposto che gli utenti potessero essere inclini a pagare per leggere informazioni disponibili senza costi in molte (altre) risorse su web non sembrava credibile a tal punto da superare il timore di un allontanamento repentino dei lettori dalla testata proprio in virtù di una richiesta economica all’epoca quanto mai inusuale. Nonostante i foschi presagi però, il NYT è riuscito a raggiungere per primo l’ambizioso obiettivo – una pietra miliare come l’ha definita Mark Thompson, presidente e CEO di The New York Times Company – frutto tanto di un giornalismo conosciuto ed apprezzato da anni nel mondo quanto di ingenti investimenti in innovazioni tecnologiche capaci, nel corso degli anni, di continuare a far eccellere la testata nonostante la forte concorrenza.
Se il traguardo del milione di abbonati certifica l’efficacia della strategia digitale del giornale (crescita nell’ultimo quarter, in termini di guadagni, del 14,2%) per paradossale che possa sembrare, la strada da fare per arginare la continua discesa degli introiti pubblicitari – che complessivamente, nonostante la crescita del comparto digital, negli ultimi quattro mesi hanno fatto registrare un -5,5% in virtù soprattutto di un nuovo ribasso della pubblicità a stampa – è ancora in salita, irta di difficoltà. Notevoli progressi sono stati fatti dal NYT per equilibrare il rapporto tra abbonamenti e pubblicità: ad oggi gli abbonati nella loro totalità (cartaceo e/o digitale) rappresentano il 55% dei guadagni complessivi della testata contro il 39% di revenue provenienti dalla pubblicità. Appare chiaro tuttavia che per gestire i costi dello sviluppo tecnologico necessario per competere con gli altri player, sia necessario lavorare ancora più assiduamente sulla quella enorme fetta di utenti che, visitato il sito del giornale, fruisce dei contenuti senza però siglare un abbonamento (in questo senso, quanto accaduto per la app NYT Now, è rappresentativo della difficoltà di attirare il pubblico giovane). Al momento, infatti, i “pochi” paganti (stime parlano di una percentuale nell’ordine di poche unità di abbonati in rapporto ai visitatori unici al mese fatti registrare dal sito) consentono anche ai non abbonati di fruire dei contenuti della redazione.
Vinta una “battaglia”, insomma, la “guerra” per veder crescere i guadagni del giornale resta ancora lunga. Nonostante gli sforzi, infatti, se il NYT negli ultimi anni (2014 e 2013) ha evitato il passivo nel computo dei guadagni totali della testata, ha visto una crescita flebile arrivata lo scorso anno a 0,7%.
Ancora troppo poco per dichiarare il modello del giornale come solido ed efficace anche sul lungo periodo.

Nuovo corso per il Financial Times: sole levante o luna crescente?

Img: theguardian.com

Il Financial Times è una delle testate di riferimento per quel che concerne l’informazione online, sicuramente uno degli esempi più virtuosi (e citati, anche in questo nel blog) di come il web possa rappresentare per il giornalismo un’opportunità e non necessariamente una minaccia.

Un modello di business audace quanto efficace (incentrato su un rigido paywall), un brand riconosciuto ed apprezzato per integrità, autorità e accuratezza, una diffusione cresciuta del 30% negli ultimi cinque anni (rappresentata, oggi come oggi, per il 70% da abbonati “digitali” al quotidiano), una forte spinta – per metà del traffico complessivo – da mobile. Insomma, una situazione invidiabile per molti gruppi editoriali, in difficoltà nell’individuare strategie in grado di far fronte alla contrazione – in termini di introiti – del mercato pubblicitario.

Ciò nonostante il gruppo Pearson alcuni giorni fa ha confermato la vendita di FT al giapponese Nikkei, cessione che consentirà alla società fondata da Samuel Pearson di focalizzarsi su istruzione e formazione, colonne portanti della realtà inglese che nel 1957 acquistò l’autorevole giornale economico-finanziario.

In un articolo pubblicato pochi giorni fa, Jonh Fallon, chief executive di Pearson, raccontando il passaggio di consegne (e, in qualche modo, difendendo la scelta fatta), descrive l’attuale momento come un periodo di crisi dei media: la dirompente diffusione delle nuove tecnologie e, in particolare, le crescite esplosive di mobile e social media, rappresentano sfide molto impegnative per la produzione e la vendita del giornalismo. In virtù di ciò, nonostante la readership oggi registrata sia per il Financial Times la più elevata di sempre (e i lettori siano disposti a pagare come mai per essere informati), dopo attente analisi e riflessioni, il gruppo Pearson ha ceduto FT per dare l’opportunità alla redazione di far parte di una realtà giornalistica digitale globale, focalizzata al 100% sull’editoria.

Non sono un esperto di alta finanza ma il messaggio, tra le righe, mi pare un modo elegante per indicare i media tradizionali, benché capaci di reinventarsi e crescere sottoforma digitale, quali strutture ancora fragili e inadatte a garantire guadagni crescenti. Insomma, non così accattivanti per chi, operando in altri settori, voglia investire del denaro (a conferma di ciò, pare che anche l’Economist, altra testata in orbita Pearson, sia sul mercato).

Il valore pagato da Nikkei per FT è di 1,3 miliardi di dollari, 5 volte la somma versata nel 2013 da Bezos per acquistare il Washington Post. Se non c’è alcun dubbio sul fatto che la cifra sia davvero notevole, è altrettanto vero che le parole di Naotoshi Okoda, presidente e amministratore del quotidiano Nikkei, sembrano comunque confermare i limiti della stampa: “Siamo giornali. L’affare [con Pearson] non punta a incrementare i profitti. Lo abbiamo fatto perché vogliamo crescere l’influenza del [nostro?] giornalismo”.

Il futuro di FT (e, generale, del “Quarto Potere”) insomma, resta ancora tutto da decifrare.

Audience engagement, il giornale oltre le news

Img: themediabriefing.com

Lo sviluppo del mondo giornalismo si evince anche dalle mansioni che, con lo sviluppo degli strumenti digitali, entrano a far parte delle redazioni. Se, per esempio, sino a non molti anni fa non tutte le testate potevano contare su una figura dedicata esclusivamente ai social media, oggi, i gruppi editoriali più innovativi propongono addirittura profili lavorativi più “evoluti” che si occupano di audience engagement, di come cioè coinvolgere – in misura sempre maggiore – il proprio bacino di lettori. In una bella intervista rilasciata al NeimanLab, Renée Kaplan, a un mese dall’insediamento, ha risposto ad alcune domande sul proprio ruolo in qualità di responsabile audience engagement del prestigioso Financial Times (giornale che, lo ricordo, basa il proprio modello di business sul paywall). L’obiettivo dell’operato del team da lei diretto (data analyst, SEO specialist e social media producer) è quello, in prima istanza, di conoscere il pubblico di lettori di FT – quali articoli preferiscono? In quali formati? Quando e come fruiscono delle notizie? – per riuscire così ad adattare al meglio i contenuti a disposizione, ottenendone il massimo in termini di traffico e di condivisioni. Altro scopo, di certo non secondario, è quello di ottimizzare i contenuti differenziandoli a seconda dello strumento utilizzato per diffonderli. L’esempio citato in questo senso è il materiale relativo al recente “scandalo Fifa”: il team di Kaplan, ai “classici” articoli testuali con molti dettagli su quanto stava accadendo, ha affiancato la realizzazione di materiale grafico sul tema specificatamente pensato per essere diffuso e condiviso nei canali social.

I termini chiave di chi si occupa di audience engagement sono distribution e organic reach, parametri questi che misurano l’effetto dei contenuti della redazione, il loro impatto giornalistico, dentro e fuori gli spazi del giornale.

Interessante notare come Kaplan e colleghi lavorino spalla a spalla con gli uffici editoriali ma non siano direttamente collegati ai desk di chi invece è deputato alla sfera dell’advertising. Chiaro che l’obiettivo trasversale a tutti i reparti è quello di far in modo che quante più persone visitino il sito, ci trascorrano quanto più tempo possibile e ci tornino quanto più spesso, ma non ci sono traguardi commerciali da raggiungere per chi lavora sul lato engagement.

Si tratta piuttosto di identificare le strategie migliori – e in questo, impossibile prescindere da una approfondita analisi – per sfruttare al meglio il materiale a disposizione. Per soddisfare gli abbonati e per attirarne di nuovi.

Perché le notizie, da sole, non bastano più.
E i giornali non sono più semplici redazioni.

The Sun: il sole splende sulla carta ma non su web

sun+

Img: thesun.co.uk

Il Sun è il quotidiano-tabloid più venduto in Inghilterra. Tra gli addetti ai lavori c’è però chi è pronto a scommettere che questo suo primato sia quanto mai in bilico.
Se il ridimensionamento in termini di copie cartacee vendute è un male comune a quasi tutte le testate, il tasso di decrescita del Sun pare essere più elevato rispetto a quello dei giornali concorrenti. Secondo l’Audit Bureau of Circulations, infatti, il numero di copie al mese vendute dalla testata è passato dagli oltre 3 milioni di copie dell’agosto 2010 ai 1,8 milioni del febbraio 2015.
I problemi per il giornale del gruppo Murdoch, però, non sembrano essere esclusivamente quelli della stampa. Nel 2013 il Sun decise di adottare il paywall e, sulla base dei dati comunicati dalla stessa redazione, a dicembre dello scorso anno gli abbonatia Sun+ erano 225.000. Difficile giudicare tale cifra, ma in virtù del fatto che il più acerrimo concorrente della testata, il Daily Mail, continua a perseguire la strategia della gratuità dei contenuti in Rete (e forse proprio in virtù di tale scelta è il quotidiano online più letto al mondo), è lecito pensare che le ultime riunioni della direzione del giornale sull’approccio online della testata non siano state entusiastiche.
Anche perché l’appeal del Sun nei confronti degli inserzionisti è dato proprio dal vasto pubblico di lettori e se questo viene meno gli investimenti pubblicitari potrebbero essere dirottati altrove.
In questo contesto si inserisce la decisione del giornale – trapelata dal Guardian – che, a partire dal prossimo luglio, aumenterà il numero di articoli fruibili gratuitamente, fuori dall’orbita del paywall. L’obiettivo è quello di sfruttare le condivisioni degli articoli nei social network per attirare nuovi lettori con la speranza che possano trasformarsi in nuovi abbonati. Il progetto inizierà da “general news” e “sport”, due delle sezioni più gettonate dagli utenti. In particolare quest’ultima è strategica per il Sun che da tre anni paga milioni di sterline per garantirsi l’esclusiva dei videoclip con i goal della Premier Leauge, la “serie A” inglese.
Mike Darcey, CEO di News UK, in una nota allo staff, ha presentato l’iniziativa di apertura oltre il paywall come un (nuovo) inizio dell’evoluzione del Sun per continuare ad adattarsi alle esigenze di lettori e inserzionisti nel tentativo di identificare il modello distributivo più adatto.
Sarà sicuramente interessante valutare nei prossimi mesi l’impatto che l’esperimento avrà sul numero di lettori unici e su quello degli abbonati alla testata. Se sull’incremento del numero di utenti del giornale online non ci sono infatti molti dubbi, si apre però la sfida per individuare i pezzi con la più alta predisposizione alla condivisione in grado, contemporaneamente, di salvaguardare gli abbonamenti già sottoscritti.

E’ tempo di paywall (anche) per Time Inc.

Img: ew.com

Da alcuni giorni Time Inc. (spinoff di Time Warner), che raggruppa oltre 90 tra i più noti magazine – tra i quali, oltre alla rivista Time, Fortune, People, NME, Marie Claire UK – ha annunciato che Entertainment Weekly sarà il primo periodico del gruppo a utilizzare il paywall.

Gli utenti avranno accesso a 10 articoli gratuiti al mese fruiti i quali sarà richiesta la registrazione alla testata: il lettore dovrà indicare un indirizzo di posta elettronica e le proprie aree di interesse. Così facendo avrà diritto ad altri 5 articoli aggiuntivi al mese – per un totale quindi di 15 contributi ogni 30 giorni – terminati i quali, per continuare la lettura, sarà richiesta la sottoscrizione di un abbonamento. Le tipologie di abbonamento saranno: 1,99 dollari al mese, 20 dollari all’anno, 25 dollari all’anno per l’offerta combinata digitale e cartaceo.
Quello utilizzato da EW.com sarà un cosiddetto metered paywall, una forma non troppo rigida che consentirà di leggere in maniera gratuita, anche una volta raggiunta la quota massima stabilita, i pezzi ai quali si accede attraverso i social media (foto e video, invece, continueranno a restare fruibili gratuitamente per tutti gli utenti).

Interessante notare come, dalle parole del CEO di Time Inc., Joe Ripp, emerga quale scopo principale dell’adozione del paywall, la possibilità da parte del gruppo di comprendere meglio le preferenze degli utenti rendendo così più flessibile la redazione e più reattiva nel valutare bisogni e aspettative dei “consumatori”. Il paywall, inoltre, permetterà all’ufficio (centralizzato) di vendita di spazi pubblicitari di proporre agli inserzionisti operazioni mirate a specifici target consentendo alla testata, contemporaneamente, di sfruttare al meglio i propri contenuti premium (materiale riservato ai soli abbonati come, ad esempio, gli speciali sull’ultima stagione di Mad Men e sull’uscita di Jurassic World).

La sfida è quella di fare in modo che il paywall non vada a ridimensionare eccessivamente il pubblico di lettori del sito della rivista che, per il mese di aprile, si è attestato sui 19,9 milioni di utenti unici.

Sul finire del 2013, con Sport Illustrated, l’allora Time Warner testò una modalità che consentiva agli utenti di accedere sin da subito – e per 24 ore – ai contenuti dell’edizione cartacea in versione digitale visualizzando, prima di intraprendere la lettura, un video pubblicitario di 30 secondi.

L’esperimento non fece registrare risultati di particolare rilevanza, l’auspicio dei dirigenti di Time Inc. è che invece il paywall possa essere utilizzato con successo via via da tutte le testate del gruppo.

Se i dati dei primi quattro mesi del 2015 fanno registrare un incremento dei guadagni provenienti dal comparto digitale, continua per Time Inc. la flessione in termini revenues totali. Considerando la recente acquisizione di FanSided, il gruppo, per ripianare i propri debiti, ha la necessità di individuare quanto prima una strategia valida da adottare.

Non di sola pubblicità vive l’uomo. E nemmeno i giornali.

Img: nytco.com

Da alcune settimane la New York Times Company ha pubblicato il resoconto dei primi quattro mesi del 2015 che, per quel che riguarda i ricavi, ha fatto registrare una flessione forse inattesa.
La percentuale negativa (-1,6%) è frutto prevalentemente della (continua) discesa delle entrate pubblicitarie calate, rispetto al primo quarter dello scorso anno, del 5,8%.
Questo, nonostante l’aumento degli abbonamenti digital-only il cui valore rispetto al 2014 è salito del 14,4% che equivale a circa +20% in termini di nuovi utenti abbonati.
Se gli introiti della pubblicità digitale salgono del 24% rispetto al 2014 – arrivando a rappresentare il 28% delle revenue del gruppo – tale percentuale resta troppo risicata per far fronte al calo percentuale di 11 punti del saldo delle pubblicità a stampa.
Allora, che fare? Domanda alla quale risulta molto difficile dare una risposta.
L’applicazione mobile NYT Now che avrebbe dovuto, secondo le previsioni, avvicinare il pubblico giovane alla testata non si è rilevata, in termini numerici, così efficace. Tanto che nei giorni scorsi, con l’aggiornamento alla versione 2.0, l’applicazione ha di fatto abbandonato la richiesta di pagamento mensile (7,99 dollari mese) diventando gratuita e puntando su pubblicità e sponsorizzazione di contenuti (o della stessa app).
Ciò che pare trapelare da alcune delle ultime dichiarazioni di Mark Thompson – CEO di NYT Co. – è, in generale, un ripensamento delle strategie adottate dalle varie testate per attirare nuovi “clienti” (l’utilizzo della parola “customers” invece di “readers” risulta piuttosto significativo). Una delle soluzioni identificate è quella proporre una più variegata scelta tra le diverse tipologie di abbonamento digitale: una gamma di proposte differenti per prezzo e per contenuti potrebbe infatti contribuire ad allargare il bacino di lettori.
Come potenzialmente si appresta ad incrementare il numero di abbonati anche la collaborazione con il Financial Times in virtù della quale le due testate hanno da alcuni giorni inaugurato un nuovo Digital Access Program in grado di offrire l’accesso illimitato ai contenuti online dei due prestigiosi giornali per i clienti collegati ai network delle strutture alberghiere statunitensi.

Se da un lato continua la ricerca di formati di advertising più efficaci rispetto a quelli in uso, dall’altra parte notevoli sono gli sforzi per tentare di diminuire la dipendenza dei gruppi editoriali dalla pubblicità.
Forse, per i media, la sfida della “rivoluzione digitale” consiste proprio nel cambiamento di prospettiva che dalle esigenze degli inserzionisti porta a doversi confrontare in primis con le necessità e i comportamenti del proprio pubblico di riferimento. Che, da soggetto indefinito e passivo, diventa sempre più centro del mondo informativo.

L’informazione può prescindere da Facebook?

Img: dawn.com

Il rapporto tra il mondo dell’editoria e Facebook ha vissuto fasi alterne. Al grande entusiasmo delle principali testate per le applicazioni di Social Reading – adottate a partire dal 2009 per leggere, commentare, condividere gli articoli proprio attraverso il social network di Palo Alto – si è registrato un raffreddamento in virtù dei successivi cambiamenti nell’algoritmo della gestione del flusso di notizie (e dei conseguenti ridimensionamenti del traffico da Facebook) che hanno messo la parola fine a molti dei progetti di stretta collaborazione.

Dalla scorsa settimana, una notizia pubblicata dal New York Times, ha però riportato sotto i riflettori l’ambizione di Facebook di diventare il “miglior giornale personalizzato del mondo”. Pare infatti che il social network guidato da Zuckerberg, forte dei suoi 1,4 miliardi di utenti, abbia iniziato ad intavolare con una dozzina di media company (tre le quali BuzzFeed, National Geographic, il Guardian, l’Huffington Post, Quartz e lo stesso NYT) una serie di incontri per valutare la disponibilità delle testate a veicolare i contenuti direttamente nel social network piuttosto che utilizzare, come avviene ora, collegamenti esterni ai vari articoli.

L’obiettivo parrebbe quello di incrementare la soddisfazione del lettore in termini di user experience: superando l’ostacolo del rimando ai siti delle testate e, conseguentemente, il caricamento di nuove pagine, il rischio di spazientire l’utente, soprattutto se si tratta di un lettore che naviga su web da mobile, si ridimensionerebbe notevolmente. Ciò comporterebbe un aumento del tempo speso nel social network e, quindi, un incremento dell’esposizione ai messaggi pubblicitari veicolati attraverso Facebook.

Al di là delle modalità legate alla pubblicità all’interno dei contenuti delle testate – pare che Zuckerberg e soci vogliano proporre agli editori una sorta di affiliazione: spazi pubblicitari gestiti da Facebook inseriti negli articoli e suddivisione degli introiti in base alle performance – resta da capire se le testate accetteranno di scambiare la visibilità dei loro pezzi cedendo però a Facebook i (preziosi) dati circa i profili dei lettori e il loro comportamento nei confronti del materiale informativo.

Leo Mirani, in un interessante articolo pubblicato da Quarz, ha sottolineato come l’offerta di contenuti a “spazi terzi” (quali, ad esempio, YouTube e Snapchat) attraverso i quali diffondere gli articoli, non sia per le redazioni una novità. Proprio per questo motivo, a suo dire, non bisogna temere l’iniziativa di Facebook (che, tra l’altro, non prefigura il social network come canale giornalistico esclusivo). Perché non si può insistere nel pensare che siano i lettori a visitare i siti delle varie testate: chi produce contenuti deve essere presente nei luoghi dove gli utenti sono soliti raccogliersi.

E sotto questo punto di vista, nel bene e nel male, prescindere da Facebook oggi non sembra possibile.

Citizen Chris: da Facebook a The New Republic

Img: nyt.com

Chris Hughes è uno dei fondatori di Facebook e, proprio per questo, nonostante la giovane età (è del 1983) è già multimilionario. Nell’estate del 2012 acquista lo storico magazine The New Republic con l’intento di rilanciare il giornale nelle sue diverse versioni (carta, sito e app) perché – come riportato in un suo scritto ai lettori del gennaio 2013 – una società democratica necessita di un serio e florido comparto media per generare nuove idee e offrire innovativi approcci ai fatti di ogni giorno. L’obiettivo è quello di creare una digital-media company verticalmente integrata capace di attirare lettori e, quindi, inserzionisti. E per fare ciò non bada a spese: nuovo ufficio, nuovo team di giornalisti, sito web completamente ridisegnato e, più tardi, un grande party per festeggiare i 100 anni della rivista (con ospiti, tra gli altri, Bill Clinton e Wynton Marsalis). All’atto della firma per rilevare la quota di maggioranza del giornale ecco il primo colpo di teatro: a capo del magazine, al posto di Richard Just – uomo chiave nel convincere Hughes ad investire nel giornale – arriva, secondo i bene informati all’insaputa di tutti, la (auto)nomina a direttore dello stesso Chris. Carica che di lì a pochi mesi cederà a Franklin Foer, richiamato al giornale dopo che lo aveva lasciato nel 2010.
Gli avvicendamenti non portano i risultati sperati, le divisioni interne si acuiscono (pare che alcuni diverbi tra Hughes e giornalisti dello staff siano nati a causa di articoli dai toni particolarmente critici nei confronti del mondo della Silicon Valley che egli stesso, almeno in parte, rappresenta), arriva un nuovo cambio al vertice: via Foer, arriva Gabriel Snyder.
La strategia del giornale agli occhi del personale (ma anche di molti tra gli addetti ai lavori) non sembra più così azzeccata, in molti lasciano la redazione accusando la proprietà di aver inferto il colpo letale al New Republic portando avanti il progetto di trasformare il magazine in una sorta di azienda tecnologica, in una start-up. La lotta intestina tra il mondo dell’informazione focalizzato sulle modalità per incrementare il traffico web e quello riconducibile a un giornalismo narrativo e critico nei confronti dell’establishment pare insanabile.
Nella lettera alla direzione con la quale venti giornalisti rassegnano le dimissioni, sintesi del malcontento della redazione, si sottolinea come The New Republic non sia importante esclusivamente in virtù della storia del brand; non si tratta, in altre parole, di (mero) business ma di una causa, non di un prodotto ma di una voce.
In una recente intervista rilasciata al Washington Post, Hughes, commentando quanto accaduto, si è detto dispiaciuto ma ancora desideroso di continuare a lavorare per la realizzazione di un progetto di giornalismo sostenibile, in grado cioè di preservare contemporaneamente i conti in attivo e l’istituzione che The New Republic rappresenta.

Nonostante la dedizione e la voglia di continuare a “lottare”, il numero di febbraio, per la prima volta da un secolo a questa parte, non sarà però in edicola.

Our success is not guaranteed, but I think it’s critical to try.

Google ed editori: c’eravamo tanto amati

Img: presstv.ir

La sfida tra editori e Google ha segnato nei giorni scorsi un nuovo avvenimento degno di nota: il gigante editoriale tedesco Alex Springer ha abbandonato, dopo solo due settimane di test, il blocco che limitava l’accesso ad alcune delle proprie pubblicazioni al motore di ricerca offrendo una free license per l’utilizzo dei contenuti di 4 siti del gruppo (welt.de, computerbild.de, sportbild.de e autobild.de).

L’irritazione degli editori (in Germania ma anche in Spagna, Francia e Italia solo per citare alcuni dei Paesi nei quali il problema ha dato adito ai dibattiti più accesi) è dovuta al fatto che l’azienda di Mountain View non si limita a riportare, nei risultati di una ricerca, i soli link agli articoli dei giornali ma presenta anche degli estratti dei contenuti. Secondo i detrattori, Google sfrutterebbe il materiale delle redazioni senza pagare alcunché alle testate ma anzi, guadagnando, anche grazie ad esso, in virtù degli annunci sponsorizzati del proprio circuito.
Gli editori, in alcuni stati, hanno perciò iniziato a riunirsi in consorzi (es. VG Media con oltre 200 editori tedeschi) chiedendo a gran voce che i propri rappresentanti politici si adoperino per tutelare il copyright dei loro contributi e per imporre a Google e altri aggregatori il pagamento di una fee (sintetizzata in Google Tax) per rendere pubblica la preview dei contenuti delle varie testate.

E’ interessante notare come la decisione di Springer che, sulla base del calo di traffico – sceso del 40% dal motore di ricerca e dell’80% da Google News – ha deciso di tornare ad adottare una posizione meno intransigente, susciti riflessioni opposte nei due schieramenti “in campo” (o forse, per meglio dire, “in rete”).
Se Mathias Doepfner, Chief Executive di Springer, sottolinea come quanto accaduto sia la prova più lampante della posizione dominante di Google nel mercato del search e quando sia stata discriminante la scelta del gruppo editoriale di provare a limitare il motore di ricerca (alcuni hanno notato come la marcia indietro del gruppo sia stata pressoché contemporanea all’annuncio dei dati che mostrano un utile ancora in discesa per il gruppo editoriale a causa, soprattutto, di incassi minori dalla pubblicità a stampa), dalla sede Google in Germania si fa notare come i numeri emersi dalla vicenda dimostrino quanto l’azienda californiana sia importante per il contributo fornito all’economia dell’informazione online.

Se è vero che Google guadagna dalla pubblicità veicolata attraverso l’indicizzazione di contenuti non propri nella SERP (il ragionamento che vale per le testate risulta valido, su scala minore, anche per i blog) è altrettanto vero che è proprio grazie al motore di ricerca o all’aggregatore di notizie Google News che i contenuti possono essere trovati dagli utenti, sempre più inclini a interrogare la Rete piuttosto che a visitare le homepage delle varie testate.

La questione, seppur delicata, sembra però una sorta di diversivo rispetto a una problematica ben più complessa: Google per il mondo dell’editoria pare essere più un’opportunità che una minaccia, ciò che continua a mancare è un modello (valido) di business che consenta alle testate di finanziarsi a prescindere dagli strumenti che gli utenti usano per trovare i contenuti informativi.

Un po’ come guardare il dito di chi indica il cielo.