Il Financial Times è uno dei quotidiani che ha meglio saputo affrontare la sfida del digitale. Lo testimoniano anche gli ultimi dati diffusi dalla testata che vedono, nel 2014, un incremento dei profitti: +10% annuo nella circolazione del giornale su carta e online, e un +21% negli abbonamenti (il cui 70% è rappresentato da digital subscriptions). Il FT è stato tra i primi a vagliare su web l’approccio basato sul cosiddetto paywall. Semplificando, tale strategia consente a chiunque di leggere 3 articoli gratis al mese, superati i quali, per proseguire nella fruizione del materiale della testata, si richiede la sottoscrizione di un abbonamento. Un metodo che, in un mondo – quello della Rete – nel quale ancora oggi la gratuità del contenuti è assai diffusa, a molti è inizialmente sembrato azzardato ma che, in virtù della qualità dei pezzi del giornale e della sua rilevanza nel panorama economico-finanziario, si è dimostrato di successo (le 720.000 “copie” tra carta e web del 2014, pur non essendo un numero altissimo, rappresentano il record per la testata).
Nonostante i buoni risultati, il FT ha però deciso di modificare la propria strategia. Da marzo, infatti, il paywall è proposto in una versione aggiornata: non più 3 articoli al mese gratis ma, un mese di accesso senza limiti alle risorse del quotidiano alla cifra simbolica di 1 dollaro. Terminato il mese di “prova”, all’utente sarà proposto l’abbonamento annuale che, nella sua versione base, ammonta a 335 dollari. Questo cambio, secondo John Ridding, CEO di FT, dovrebbe portare ad un ulteriore aumento degli abbonamenti che si stima possa essere compreso tra l’11 e il 29%.
Alla base della scelta della testata – per certi versi inaspettata, per l’intero comparto media online, il paywall di FT ha rappresentato una delle poche certezze – vi sono dei cambiamenti nelle proposte che il giornale riserva agli inserzionisti. Se è vero che la maggior parte degli introiti del quotidiano derivano dagli abbonamenti, FT sta tentando di individuare nuove opportunità legate alla pubblicità.
In virtù del fatto che, come spiegato da Jon Slade, responsabile del comparto digital advertising del FT, i lettori online della testata restano nel sito mediamente sei volte di più che in qualsiasi altro spazio di notizie economico-finanziarie, i vertici di FT hanno iniziato a proporre agli inserzionisti una metrica alternativa (o, quantomeno, complementare) a impression e click. Si tratta del cost-per-hour (CPH), quello che potrebbe presto diventare uno dei nuovi standard del mercato pubblicitario online.
Se, come dimostrato da Chartbeat – partner FT nello sviluppo del progetto per la parte di analisi del comportamento degli utenti – più un individuo è esposto a un messaggio pubblicitario, più alta è la sua propensione all’interazione – sia in termini di brand recall (letteralmente, richiamo di marca) che più genericamente di engagement – riuscire a far tesoro del “tempo speso” dai lettori all’interno del sito potrebbe rappresentare per la testata un (nuovo) punto di svolta.
FT sembra quindi aver deciso di puntare sulla cosiddetta economia dell’attenzione. La sfida, tutt’altro che semplice, è quella di riuscire a catturare il lettore facendolo rimanere il più a lungo possibile all’interno dei “confini” del giornale.
Strategia che sembra diametralmente opposta a quella in uso negli spazi che, facendo massiccio ricorso a classifiche e gallerie fotografiche, costruiscono i propri contenuti per una lettura veloce e una rapida condivisione.
Quale modello avrà la meglio?