Trending e Paper, due novità di Facebook che strizzano l’occhio alle news

Ormai più di un mesetto fa, in un mio post, avevo sottolineato come i recenti cambiamenti introdotti, avvicinassero Facebook sempre più all’idea di un information network.
Le notizie di questi giorni sembrano confermare che una delle strade intraprese da Mark Zuckerberg & Co. (in particolare da Chris Cox e dal suo team) vada proprio nella direzione di rafforzare lo spazio dedicato alle news.

Il social network sta infatti testando il redesign della sezione Trending e pare stia per lanciare Paper, una news reader app sulla falsa riga di Flipboard.

Su entrambi i progetti le informazioni che trapelano non sono molte. Per quel che riguarda la sezione “Trending”, a differenza di quanto avviene su Twitter, i temi più chiacchierati del momento non vengono visualizzati come semplici hashtag/parole chiave, ma sono accompagnati da informazioni che li contestualizzano. Associati ai trend topic sono proposte, infatti, descrizioni che spiegano nel dettaglio, seppur in maniera sintetica, i motivi che portano a tanto interesse (in sostanza, dei lanci di agenzia). Altra grande peculiarità è quella che, in virtù dei propri algoritmi, Facebook è in grado di mostrare topic affini ai gusti dell’utente, personalizzando le informazioni da visualizzare in base agli interessi di chi naviga tra i contenuti.

Img: TechCrunch.com

Il progetto Paper è ancora avvolto nel mistero, non ci sono dettagli sulla sua declinazione (app stand-alone come l’acquisizione di Push Pop Press forse potrebbe presagire, o applicativo interno a Facebook?). Molto probabilmente sarà qualcosa simile a Flipboard e Zite, un’applicazione mobile capace cioè di organizzare status e notizie di blog e testate giornalistiche sottoforma di magazine elettronico da sfogliare.

Forse, almeno inizialmente, Paper non brillerà per originalità, ma potrebbe aiutare – come del resto il redesign della sezione Trending – il social network ad aumentare l’engagement in termini di interazioni, visualizzazioni e tempo speso.
Musica per le orecchie degli inserzionisti.

La nuova veste del New York Times, tra interattività e native adv

img: from AdAge.com

Lo scorso 8 gennaio, il New York Times ha iniziato a proporre la nuova veste grafica. Obiettivo primario – come sintetizzato nel minisite del lancio – è quello di rendere l’esperienza di lettura più profonda e coinvolgente, offrendo ai lettori un’interfaccia in grado di rispondere con maggiore tempestività e semplicità ai bisogni informativi.

Le sei novità più sostanziose sono:

1. Gli articoli non sono più spezzati in diverse pagine, la lettura può proseguire con il solo scroll senza più la necessità di cliccare “Continua”. Le foto degli articoli, inoltre, possono essere ingrandite per poi tornare alla lettura.

2. L’area dedicata ai commenti è stata espansa e la si può navigare parallelamente all’articolo di modo da rendere gli interventi degli utenti di più facile comprensione;

3. La navigazione tra contenuti ora può avvenire anche in maniera orizzontale grazie a un box a lato dell’articolo e a una barra in alto che consente di scoprire gli altri contributi della sezione;

4. Il sito, nella parte alta, avvisa l’utente circa la pubblicazione delle breaking news;

5. Il tasto per la condivisione è, in alto, sempre visibile. Non è legato ai contenuti ma fa parte della cornice del sito entro la quale ogni articolo viene caricato. Lo stesso dicasi per le sezioni, raggruppate in un unico menu laterale.

6. Maggiore spazio ai suggerimenti che rimandano ad articoli correlati su una particolare tematica, e a quelli più condivisi.

Alle scelte legate al design sia affianca l’utilizzo da parte della testata del native advertising. Avevo già trattato l’argomento, ora anche il NYT ha deciso di proporre agli inserzionisti la pubblicazione di contenuti sponsorizzati.

La prima campagna, online per i prossimi tre mesi, vede protagonista Dell. A supporto della classica tabellare, è stata creata una sezione apposita che viene richiamata da un riquadro blu nella homepage nel quale campeggia la scritta “Paid Post”. Il click rimanda a paidpost.nytimes.com, un minisite che pubblica gli articoli sponsorizzati (“PAID FOR AND POSTED BY DELL” recita il titolo della pagina). Il primo post, Will millennials ever completely shun the office?, secondo quanto riportato da AdAge.com, sarebbe stato scritto da un freelance che collabora con la testata sulla base di un tema non legato in maniera diretta ai prodotti del colosso americano dell’hardware – quello appunto della cosiddetta milleniam generation – proposto da un editor del NYT e avvallato da Dell. I commenti all’articolo sono disattivati e, in caso di condivisione del contributo via Twitter, un testo predefinito suggerisce come prima parte del messaggio: “Dell Paid Post – From NYTimes.com” (da notare come il post non sia stato diffuso dalla testata nei propri profili social media).

Scorrendo la Timeline che sintetizza i vari cambiamenti della presenza online del NYT, è facile capire come il giornale in Rete stia diventando qualcosa di sempre più ibrido, capace di innovarsi facendo proprie le scelte di maggior successo di blog (es. articoli correlati, scroll per proseguire la lettura) e applicazioni (il flip laterale che in un certo senso richiama il voltare pagina di quotidiano cartaceo), e testando nuovi approcci pubblicitari (native advertising) alla ricerca di soluzioni valide a lungo termine.

Un anno di Daily Dish con Andrew Sullivan

Img: dish.andrewsullivan.com

Fine anno significa inevitabilmente anche tempo di bilanci, di valutazioni sulla base delle quali stilare buoni propositi e obiettivi per il futuro.

Uno dei progetti più interessanti dal punto di vista giornalistico dello scorso anno [citato nella versione digitale di News(paper) Revolution] è stato sicuramente The Daily Dish di Andrew Sullivan.

Il noto blogger, lasciato il Daily Beast, con una redazione di una mezza dozzina di persone, ha iniziato un nuovo progetto – il The Dish, appunto – completamente finanziato dai lettori (tramite donazioni o abbonamenti), senza pubblicità, sponsorizzazioni né finanziamenti da parte di terzi.

Una sfida difficile quanto intrigante, con un traguardo ben definito: arrivare, e magari superare, quota 900.000 dollari di entrate in un anno, l’editorial budget della precedente collaborazione al The Beast.

Com’è andata? Come reso noto dallo stesso Sullivan, la cifra agognata non è stata raggiunta, anche se davvero per poco (gli introiti da abbonamenti del 2013 si sono fermati a 851.000 dollari). L’iniziativa, tuttavia, per molti versi si può ritenere un successo.

Come già in parte accennato, il “sistema Dish” si regge su abbonamenti annuali (19,99 dollari) e mensili (1,99 dollari). Ogni utente non registrato ha un bonus di 5 click per leggere per intero gli articoli del blog, usufruito il quale scatta il blocco del paywall.

Gli abbonati annuali del 2013 sono stati 34.000, dei quali 9.000 hanno già deciso di rinnovare anche per il nuovo anno. 28.000 invece gli utenti che, raggiunto il limite di lettura gratis, non hanno deciso di abbonarsi, dimostrazione di come ci siano margini di crescita nel bacino di lettori del blog.

Nel grafico che sintetizza l’andamento delle revenue mensili del blog da notare come, dopo leggero ribasso dei mesi estivi, ottobre abbia segnato un notevole balzo in virtù della crisi del debito degli Stati Uniti che, proprio in autunno, ha innescato un acceso un dibattito al Congresso in grado di stimolare l’interesse degli utenti alle considerazioni della redazione su quanto stava avvenendo sulla scena politica.

Un’ultima considerazione. Nel suo messaggio di fine anno Sullivan scrive:

[…] we’ll finally have a solid basis for a ongoing, entirely-online blogazine with no sponsored content and (so far) no advertizing […]

L’utilizzo dell’espressione “so far” preannuncia probabilmente qualche novità nella testata. Il modello attualmente alla base del The Daily Dish potrebbe infatti declinarsi a breve in due versioni: da una parte, la fruizione gratuita per tutti gli utenti con i contenuti affiancati dalla pubblicità, dall’altra l’edizione libera dall’adv per gli abbonati.

Il primo anno si concluso molto bene, ripetersi e mantenere in piedi il progetto redendo solida la base di lettori non sarà certo facile (se dai 34.000 abbonati togliamo i 9.000 che hanno già rinnovato e immagininamo che i 25.000 restanti siano utenti interessati al supporto annuale con il blog, questi rappresentano circa 500.000 dollari, più della metà degli incassi dell’anno, non dovessero continuare a supportare la testata, sarebbe un bel problema!).

Con la speranza che il progetto continui ad avere un seguito, non posso che augurare ad Andrew e al suo staff un 2014 ricco di (nuove) soddisfazioni.

News Corp scommette sul social journalism di Storyful

Img: CNN.com

Ho scoperto Storyful circa un anno fa. Stavo ultimando lo studio sul rinnovamento del mondo dell’informazione che poi ha portato a News(paper) Revolution e, concentrato sul “fenomeno” del citizen journalism (anche se personalmente preferisco l’espressione open journalism), ero alla ricerca di qualche nuovo progetto capace di ben interpretare esigenze e ruolo del rinnovato panorama informativo. Storyful attirò subito la mia attenzione proprio per l’originalità del proprio approccio alle sfide della Rete.

[…] società con sede a Dublino composta da un team di professionisti che 24 ore su 24 monitorano i web (e in particolare i social media) catturando immagini e contenuti degli utenti da poi vendere alle testate di tutto il mondo. Ecco “manifesto” presente nel sito ufficiale: «Storyful is the first news agency of the social media age. We separate the news from the noise. Storyful gives journalists and media professionals the power to discover, validate and deliver the most compelling content on the social web. Storyful helps newsrooms and publishers create newswires designed to meet the needs of their target audiences. Our goal is to create a sustainable model for a new form of social and collaborative journalism». Come funziona? In estrema sintesi, individuato un contenuto “dal basso”, lo staff ne approfondisce i dettagli mettendo poi in caso tra loro in contatto utente – ad esempio un ragazzo con i propri scatti diffusi tramite Twitter è diventato testimone degli scontri di Tripoli – e testata giornalistica.

Non nascondo quindi che, leggendo dell’acquisizione di Storyful da parte del colosso News Corp di Rupert Murdoch (per 25 milioni di dollari) abbia provato un certo orgoglio per aver “scovato” una realtà che nel giro di un anno dalla mia citazione, ha saputo attirare le attenzioni di uno dei maggiori gruppi editoriali.

Ma cosa ha suscitato così tanto l’interesse della società del Wall Street Journal e del New York Post? Di certo le valutazioni che hanno portato all’acquisizione della start-up irlandese saranno state molte ma, a mio modo di vedere, due su tutte hanno fatto la differenza.

Storyful ha messo a punto una routine lavorativa che consente, seguendo i dettami del “buon giornalismo”, di verificare e commercializzare i cosiddetti user-generated content. La capacità di separare del brusio delle conversazioni online, materiali fotografici o video interessanti anche dal punto di vista giornalistico, rappresenta un valore aggiunto notevole. Vincere la sfida di proporre al pubblico delle breaking news – tramite i contributi di semplici cittadini testimoni diretti di ciò che è accaduto – prima delle altre testate, non può che essere un risultato al quale ambire.

L’abilità nell’uso dei social media e, in generale, la robusta presenza nell’ambito dei media digitali di Storyful, può tornare decisamente utile anche sul fronte dell’advertising sempre alla ricerca di valide soluzioni.

Delle tante dichiarazioni seguite all’acquisizione, mi ha colpito quella del CEO di News Corp, Robert Thomson, che ha sintetizzato i cambiamenti in atto come la trasformazione di un gruppo fondato su brand legati a giornali cartacei in quello che punta su piattaforme informative digitali.

La rivoluzione continua.

L’innovazione? A Boston è di casa

Img: 61Fresh.com

Il mercato dell’editoria sta vivendo un momento molto difficile. Il termine innovazione è ormai sulla bocca di quasi tutti gli addetti ai lavori, concentrati nel capire quale sia la strada più sicura sulla quale affrontare i cambiamenti in atto. Mettere in pratica processi che portino a risultati migliori è però molto complicato: in un contesto nel quale, a fronte di investimenti, l’obiettivo risulta ottenere effetti pressoché immediati, ragionare in termini di lungo periodo, vista la rapida evoluzione della Rete, è quasi impossibile.

Nonostante tutto, alcune testate, continuano a provare nuovi approcci al web. Non si tratta esclusivamente di redazioni arcinote, esiste un “sottobosco” di quotidiani a carattere locale che, come avvenne agli esordi di internet con il Chicago Tribune e il Nando Times (in Italia con l’Unione Sarda), per tentare di allargare il proprio pubblico di riferimento o per offrire un’alternativa al mainstream, continuano a proporre nuovi strumenti e nuove modalità di approccio all’informazione.

Uno dei casi di maggior successo in questo senso (successo misurato non esclusivamente in termini di parametri numerici quanto di capacità di rinnovare la propria identità adattandola agli sviluppi della Rete) è il Boston Globe. La testata – come citato anche in News(paper) Revolution – possiede due declinazioni: una, a pagamento, propria del giornale cartaceo, un’altra gratuitamente fruibile – Boston.com – molto più focalizzata sulle notizie locali e indirizzata a un pubblico più trasversale.

Di questi giorni è la notizia che, proprio lo spazio informativo Boston.com, dal prossimo anno, offrirà una maggiore flessibilità ai propri lettori. Non sono trapelate moltissime informazioni a proposito ma sulla base di quanto dichiarato da Jeff Moriarty – Vicepresidente del Boston Globe e General Manager di Boston.com – il sito proseguirà lo sviluppo della sua costruzione “responsive” anche in ottica utente. Nel 2011 il quotidiano di Boston è stato tra i primi a implementare un sito in grado di adattarsi al device utilizzato. Il giornale, in altre parole, fermo restando i contenuti, è in grado di modificare il proprio aspetto in base al supporto con il quale viene fruito. In questo modo, ad esempio, l’impaginazione è differente se l’utente visita lo spazio informativo da computer, da tablet o da smartphone.
Dal 2014 però la testata farà un ulteriore passo modellandosi anche in base alle modalità di utilizzo del lettore: se l’utente preferirà leggere piuttosto che sfruttare il materiale multimediale a disposizione, il sito sarà in grado di proporre un più alto numero di testi. In qualche modo, quindi, sarà il comportamento stesso dell’utente a configurare la griglia informativa del quotidiano. Un progetto ambizioso che, sulla scia di quanto sta accadendo su Facebook, punta alla personalizzazione, al superamento del giornale indifferenziato, uguale per tutti.

Altro progetto da seguire, sempre a firma Boston Globe, è 61Fresh. E’ uno spazio informativo capace di captare i tweet locali di Boston e dintorni che richiamano le notizie di uno dei 500 siti di notizie della capitale del Massachusetts. Alla base un algoritmo in grado di vagliare la popolarità e la freschezza delle news per riproporre le notizie più chiacchierate dell’area metropolitana.

Complimenti ai responsabili della testata, anche un periodo di crisi può in fondo rappresentare un’opportunità. Per mettersi in gioco e vagliare nuove opzioni.

Scrivi e vinci una copia di News(paper) Revolution

logo_nepare

L’editore mi ha fornito alcune copie di News(paper) Revolution in versione cartacea e ho pensato di distribuirle mediante un’iniziativa che vado a presentare.

(rullo di tamburi)

Nelle occasioni pubbliche spesso mi è capitato di sottolineare come il mio saggio voglia essere l’inizio di una conversazione, un punto di partenza per una riflessione sui cambiamenti in atto nel mondo dell’informazione e, più in generale, della comunicazione.

Ecco perché vorrei coinvolgere direttamente gli utenti per chiedere loro quale sia lo strumento utilizzato maggiormente per informarsi online.

Scrivi una email all’indirizzo indicato nella sezione @bout indicando una delle opzioni. Con un po’ di fortuna, sarai ricontatto per la conferma dell’assegnazione di una copia del saggio.

Quale strumento utilizzi in misura maggiore per informarti online?

Quotidiano solo online
Versione online di quotidiano cartaceo
Magazine online
Motore di ricerca (Google, GoogleNews…)
Applicazione “social magazine” (Zite, Flipboard…)
Facebook
Twitter
Google+
Blog

Un ringraziamento a chi deciderà di partecipare e a chi segnalerà l’iniziativa nei social network (su Twitter utilizzate l’hashtag #nepare, mi raccomando). In bocca al lupo!

 

[update: ho replicato il “sondaggio” nella colonna di destra per chi volesse esprimere una preferenza senza dover partecipare al contest scrivendo una email]

Know More, l’esperimento semiserio del Washington Post

knowmore_wapo

Img: http://knowmore.washingtonpost.com

Quando mi capita di parlare in pubblico di web e comunicazione [a proposito, per chi ancora non lo sapesse, domani presenterò News(paper) Revolution a La Fiera delle Parole], uno dei punti sui quali insisto maggiormente è quello relativo alla mia convinzione che, proprio in virtù del mare magnum che è il web, la funzione di “filtro” sia necessaria per non rischiare di perdere la bussola.
A tal proposito cito spesso l’esempio di Compendium, il progetto del New York Times in virtù del quale gli utenti possono organizzare una sorta di bacheca (Pinterest docet) con i contenuti della testata che reputano più interessanti, da condividere con amici e conoscenti (il primo filtro è il giornalista, il secondo, ancora più accurato, è il lettore).
E’ di questi giorni un’iniziativa analoga del Washington Post, forse più “scanzonata”, più semplice ma non per questo non degna di nota.
Lo spazio al quale faccio riferimento è Know More, una riproposizione in salsa blog (trae origine dal Wonkblog) di una bacheca virtuale nella quale però i contenuti sono per la stragrande maggioranza esterni alla testata. Foto, video, grafici sintetizzati con un titolo accattivante che, se cliccati, si aprono a tutto schermo mostrando ai lati due bottoni: No more e Know more. Se si sceglie l’opzione di sinistra (la prima) il contenuto scompare dalla bacheca, se si opta per la seconda si viene rimandati alla fonte dell’informazione. Chi sceglie cosa pubblicare? Una miniredazione composta, al momento, da Dylan Matthews e Ezra Klein. Quest’ultima, presentando l’iniziativa ha sottolineato come lo scopo sia quello di stimolare nei lettori l’approfondimento, un supporto agli articoli interessanti ma non costruiti abbastanza bene da essere trovati dal pubblico. L’aspetto singolare è che mentre solitamente le iniziative editoriali puntano a incrementare il tempo speso entro i propri “confini”, il successo di Know More si misurerà nel numero di utenti che sceglieranno di lasciare lo spazio per leggere altrove. Sintetico e audace, da seguire.