Il Los Angeles Times e il mobile first design

Img: digiday.com

Lo scorso 6 maggio la versione online del Los Angeles Times ha cambiato pelle. Non si è trattato di un semplice aggiustamento grafico (l’ultimo sostanzioso restyling risaliva al 2009) quanto di un vero e proprio cambiamento di prospettiva. Il nuovo spazio del quotidiano del gruppo Tribune & Co., infatti, ha deciso di scommettere sul mobile, ripensando il proprio spazio web per fare in modo che le informazioni veicolate possano essere fruite in maniera semplice e completa da ogni piattaforma, con un particolare riguardo per coloro i quali si informano tramite smartphone e tablet.
Se ad oggi questi utenti non rappresentano ancora la maggioranza dei lettori, è pur vero che la percentuale di chi consuma news da dispositivi mobili è in crescita costante. Che il mobile first rappresenti il passo successivo al digital first già adottato da alcune testate giornalistiche? Sicuramente si tratta di una scelta lungimirante che però comporta un quasi totale ripensamento dell’esperienza informativa. In realtà, nel caso del latimes.com, non si tratta di un cambiamento radicale quanto dell’inizio di un percorso di sviluppo che mette al centro la dinamicità dei nuovi device (sempre in evoluzione) piuttosto che la maturità forse ormai acquisita del classico personal computer.

In questo senso, esemplificativo del nuovo approccio della testata, è la possibilità di navigazione “visuale” (basta cliccare, in alto a sinistra, su “Visual Browse”) dei contenuti pensata appositamente per dispositivi in mobilità: i titoli quasi spariscono lasciando spazio alle immagini che sintetizzano i diversi contenuti navigabili – sullo stile di Flipboard – sia scorrendo la pagina che spostandosi orizzontalmente tra i contenuti.

Anche la scelta di optare per un menu laterale sempre visibile e che, cliccata una voce, mostra le relative sottosezioni, rende l’accesso alle notizie molto veloce e intuitivo. Da segnalare anche la sintesi (alle volte disponibile anche in più versioni) di ogni articolo che consente la condivisione – su Twitter o Facebook – davvero rapidissima: non si tratta della banale ripetizione del titolo, quanto piuttosto di un sunto di pochi caratteri che rappresenta una valida alternativa agli improbabili status con link lunghissimi che contengono simboli non di uso comune, che alle volte vengono proposti in alcuni siti informativi.

Altri due aspetti di sicuro interesse sono: l’unico scroll che non presenta più un solo articolo anche ma anche tanti altri contenuti (in sostanza non esiste più la paginetta contenente una sola notizia) in un unico flusso informativo e, in secondo luogo, “Neighborhoods”, la voce che, dalla sezione “Local” della homepage, permette di visualizzare una mappa dei diversi quartieri di Los Angeles cliccando i quali è possibile scegliere una particolare comunità non solo per leggerne le notizie correlate (dalle breaking news alle recensioni dei ristoranti, un’opportunità per lettori e inserzionisti) ma anche per verificare lo status della zona selezionata sulla base di 3 parametri (2 legati al crimine e 1 al ranking delle scuole) identificati come unità di misura.

Per i primi tre giorni dalla messa online, il sito è stato visibile completamente e senza limiti (anche il Los Angeles Times adotta la formula del paywall) di modo che chiunque potesse visionare le novità del giornale. Questa sorta di anteprima “trasversale” è stata possibile grazie alla sponsorizzazione della compagnia aerea Etihad Airways.

I pareri sulla nuova versione del Los Angeles Times sono piuttosto contrastanti (molte le critiche soprattutto per la parte dedicata ai commenti, non visibilissima di lato a metà articolo che non permette di scrivere avendo la notizia sotto gli occhi e che, quindi, pare disincentivare l’interazione piuttosto che promuoverla) ma la scommessa del puntare sul mobile non sembra del tutto azzardata. Resta da capire se nel breve questa sia la scelta più azzeccata.

Il sito, secondo gli ultimi dati di ComScore, a marzo ha incrementato il proprio numero di visitatori online del 30% rispetto allo stesso mese dello scorso anno ma la redazione cartacea continua a soffrire e si prospettano nuovi tagli al personale dopo i licenziamenti della scorsa estate.

Slate lancia Slate Plus, l’alternativa freemium al paywall

Img: wikimedia.org

Nella puntata dello scorso 28 aprile di Eta Beta, programma radiofonico condotto da Massimo Cerofolini e dedicato nell’occasione ai cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo, ho avuto modo di citare la pratica del paywall tramite la quale i quotidiani online hanno iniziato a proporre i propri contenuti (per chi non lo conoscesse, si tratta di un monte articoli al mese, di solito compreso nella sua forma più soft tra 10 e 20 pezzi gratuitamente fruibili, superato il quale le notizie per essere lette necessitano di una forma di abbonamento). Non si tratta dell’unico approccio adottato ma sicuramente di quello che, nonostante i detrattori non lo vedano come soluzione valida a lungo termine, sta contribuendo ad arginare le perdite del comparto editoria.

Un’iniziativa di sicuro interesse in questo senso è quella proposta dal magazine statunitense Slate. I contenuti del sito restano free per tutti ma ai lettori è anche offerta l’opportunità di sottoscrivere l’abbonamentp a Slate Plus.

Slate Plus is an all-access pass for readers who support our journalism and want a closer connection to it. For $5 a month or $50 a year, a richer Slate experience awaits you.

Diventando membri di S+ si possono leggere le notizie tutte in una pagina, i propri commenti vengono pubblicati a margine dell’articolo senza apparire in un pop-up, si possono ascoltare dei podcast esclusivi (o senza interruzioni pubblicitarie), vedere video del dietro le quinte del lavoro della redazione o partecipare a chat private con alcune delle firme più prestigiose, acquistare con lo sconto del 30% il merchandise ufficiale.

David Plotz, presentando l’iniziativa, ha sottolineato più volte come S+ non sia una modalità freemium tramite la quale chiedere soldi ai lettori in cambio di articoli informativi quanto piuttosto un tentativo di proporre delle opportunità extra ai lettori rispetto a quanto proposto a incondizionatamente a tutti.

L’articolo, in data odierna, è stato commentato 1368 volte. Scorrendo fra i commenti un confronto su tutti mi è parso interessante: un utente (aka Krocnyc) esprimendo un suo giudizio sull’abbonamento si chiede perché debba pagare per avere i bonus previsti da S+; gli risponde Jennifer Lai, moderatrice Slate che cita l’esempio di coloro i quali acquistano i DVD edizione speciale (con extra quali il commento del regista o le scene tagliate) pur potendo risparmiare con la semplice proposta “DVD solo film”. La conversazione continua con l’utente che lapidario chiede: “Esiste ancora qualcuno che compra DVD? Per i contenuti extra?”

La risposta circa il vero intento di S+ a mio modo di vedere arriva poche righe più in basso quando Jennifer Lai indica come duplice scopo del nuovo membership program prima di tutto quello di cercare di focalizzarsi maggiormente sull’aspetto conversazionale delle notizie tra utenti e tra lettori e giornalisti (livechat, videochat, maggior spazio ai commenti, etc.) e, dall’altro lato, quello di supportare il giornalismo che Slate incarna.

Al di là dei primi giudizi, sarà interessante vedere come i lettori di Slate reagiranno alla proposta della redazione. Sinceramente, i benefit offerti non mi sembrano giustificare il costo mensile di 5 dollari, ma  è anche vero che se qualcosa mi gratifica (e la lettura di articoli interessanti sicuramente può essere annoverata tra ciò che mi appaga), sono ben disposto a dimostrare il mio apprezzamento a prescindere dai bonus.

E se invece che “Join S+” fosse stato proposto un più semplice “Support Us”?

L’importanza crescente dei nativi digitali del giornalismo

Img: pbs.org

Da alcuni giorni è disponibile State of the News Media 2014, l’annuale report del Pew Research Center che analizza il panorama informativo statunitense.
Delle tante osservazioni interessanti che i documenti presentano, la mia attenzione si è focalizzata soprattutto sui cosiddetti nativi digitali del giornalismo americano, le redazioni cioè nate nella Rete che nel corso degli anni hanno saputo ritagliarsi un ruolo sempre più importante nell’ecosistema editoriale a stelle e strisce. Un comparto, quello delle realtà informative online, in crescita nonostante la crisi della stampa: non solo BuzzFeed, Huffington Post, ProPublica, Politico, il panorama statunitense offre ai lettori una miriade di spazi diversi su web ai quali rivolgersi per leggere notizie. La cospicua “migrazione” di grandi firme dal giornalismo “tradizionale” legato alla carta a quello pensato e realizzato unicamente su web – due su tutte, Bill Keller lascia New York Times per l’iniziativa nonprofit The Marshall Project, Jim Roberts dal NYT passa a Mashable – contribuisce a suggellare l’importanza ormai acquisita dell’universo delle news online, non più considerato alla stregua di un “campionato di seconda divisone”.

Un mondo fatto di molte realtà “giovani” (il report analizza i 30 più grandi siti informativi all digital e altre 438 piccole redazioni del web), nate negli ultimi 10 anni, che si occupano di notizie locali o iperlocali, che puntano sull’inchiesta, che spesso devono far fronte a bilanci in rosso – se crescono gli investimenti nel comparto informativo digitale ciò non significa che l’industria delle news online abbia trovato la formula per monetizzare questo crescente interesse verso le notizie – e che, con il loro approccio innovativo alla Rete, stanno tentando di adattarsi a un panorama in rapida e costante evoluzione.

Adottando modalità differenti di raccontare e proporre le news rispetto a quelle dei media classici, molto più focalizzate su formati e strumenti in grado di sfruttare appieno le peculiarità della Rete, i siti informativi nativi digitali riescono a coinvolgere maggiormente i lettori che spesso, da semplici cittadini, diventano “volontari” in grado di supportare le redazioni con testimonianze dirette su ciò che succede loro. Forse anche per questo motivo, i siti informativi digitali risultano più accattivanti per il pubblico giovane generalmente poco incline al formato giornale.

Al di là del successo imprenditoriale di alcuni “esperimenti”, le realtà nate nella Rete svolgono una funzione sociale non di poco conto andando a riempire e a ampliare l’orizzonte che nella stampa cartacea (soprattutto per quel che riguarda i magazine), invece, si sta via via riducendo. Non solo dal punto di vista strettamente legato al numero e alla tipologia di notizie proposte ma anche da quello delle professionalità che nell’editoria lavorano: se nelle newsroom tradizionali continuano i tagli al personale, per ciò che concerne le redazioni online, almeno per quelle di maggior successo (delle 438 piccole realtà analizzate, più della metà sono formate da uno staff full-time di 3 persone o meno), si assistente invece a una notevole crescita. Solo due anni fa il team di BuzzFeed era formato da una mezza dozzina di persone, oggi può contare su 170 professionisti. Analogo discorso per Vice Media che solo nell’ultimo anno ha allargato il proprio staff a 48 new entry. O per Quarz, testata nata nel 2012 ma che può già contare su una rete di reporter a Londra, Bangkok e Hong Kong. E se l’HuffPost punta ad ampliare ancora il bacino delle proprie edizioni facendo salire da 11 a 14 i Paesi nei quali essere presente, Business Insider è attualmente alla ricerca di altre 25 nuove figure per il allargare la propria squadra.

Difficile prevedere gli sviluppi di ciò che sta accadendo. Di certo, l’industria dell’editoria “tradizionale” che aveva inizialmente snobbato la Rete deve oggi affontare una duplice sfida tutt’altro che semplice: da un lato il calo dei lettori e dei guadagni derivanti dalla pubblicità, dall’altro concorrenti digitali sempre più agguerriti.

Il Washington Post apre ai quotidiani locali, l’influenza di Bezos inizia a farsi sentire

Img: washingtonpost.com

Da quando Jeff Bezos ha acquistato il Washington Post ho con curiosità aspettato la prima rilevante decisione per comprendere il suo approccio alla guida di una così prestigiosa testata. In settimana qualcosa in questo senso pare essersi mosso.

Il pubblico di lettori del Washington Post è piuttosto omogeneo, almeno in termini di ubicazione geografica. A differenza del “rivale” New York Times che può contare su una notevole fetta di acquirenti del quotidiano fuori dalla “Grande Mela”, il WP resta fortemente ancorato, in termini di vendite, alla Capitale degli Stati Uniti. Tale aspetto, almeno per quel che concerne le copie a stampa, è diventato ancora più palese dopo il 2009 quando i vertici, per ovviare alla crisi, decisero di chiudere le redazioni del giornale a New York, Chicago e Los Angeles. L’avvento del digitale, nonostante gli sforzi per rendere la testata più forte sia a livello nazionale che internazionale, non è ancora riuscito nell’impresa di allargare il bacino di riferimento.

Proprio su questo versante il “Bezos pensiero” sembra essersi concretizzato in un primo importante cambio di prospettiva. In base alle dichiarazioni rilasciate al Financial Times da Steve Hills, presidente del WP, una delle primissime indicazioni del fondatore di Amazon, è stata quella di esplorare diverse soluzioni puntando sul successo digitale a lungo termine. La questione, come sottolinea lo stesso Hills, non è affatto di poco conto. Se nella precedente gestione il traguardo era legato alla realizzazione di guadagni nei 2/3 anni successivi, il cambio di rotta in atto, considerando un lasso temporale più ampio, consente – almeno potenzialmente – di valutare molte più opportunità.

Non è un caso quindi che, dal prossimo maggio, il giornale abbia deciso di offrire gratuitamente l’accesso digitale ai contenuti di sito e app, agli abbonati di sei quotidiani locali degli Stati Uniti, dal Dallas Morning Star al Minneapolis Star Tribune. In questo modo si stima che il pubblico di riferimento della testata possa crescere notevolmente anche perchè non è escluso che a breve il giornale possa adottare lo stesso approccio stringendo collaborazioni con i più noti servizi premium, da Spotify alle televisioni a pagamento.

Forse c’era davvero bisogno di un affermato professionista del digitale non legato all’editoria per allargare l’orizzonte della stampa.

In bocca al lupo signor Bezos, io faccio il tifo per lei!

Il futuro incerto di Libération specchio dell’attuale momento dell’editoria?

Img: theguardian.com

Pensando al giornalismo online la mia mente rimanda subito, quasi inconsciamente, all’esperienza statunitense. Non necessariamente perché sia la migliore ma forse perché gli USA – come ha scritto Danilo Taino sul Corriere della Sera – rappresentano “forse il Paese più avanzato e sofisticato in termini di utilizzo dell’informazione digitale”.
Quando riesco, però, tento di aggiornarmi anche sulle redazioni a noi più vicine (sia in senso geografico che di prossimità delle dinamiche legate al sistema informativo). In questi giorni, per esempio, mi sono appassionato alle vicende legate a Libération, lo storico giornale francese (co)fondato, nel 1973, dal filosofo Jean-Paul Sartre.
Anche l’editoria francese, come quella nostrana, sta attraverso un momento molto difficile: il calo di lettori dei quotidiani a stampa e la contrazione degli investimenti pubblicitari minano la sopravvivenza dei giornali.
Gli azionisti di Libération, per arginare il passivo in continua crescita della testata, decidono di operare cambi radicali nella gestione del quotidiano. Due su tutti: trasformare la prestigiosa sede in un centro culturale trasferendo gli uffici in un’altra zona di Parigi; cambiare l’approccio del giornale alle notizie avvicinandolo maggiormente alle dinamiche tipiche dei social media nel tentativo di individuare una piattaforma multimediale remunerativa (un BuzzFeed in salsa francese?).
I giornalisti non ci stanno e a distanza di meno di una settimana dall’annuncio proclamano uno sciopero di 24 ore. Il giorno che precede la protesta la redazione opta per una prima pagina di impatto: “Noi siamo il giornale. Non un ristorante, non un social network, non uno studio TV, non un bar, non un incubatore di startup”. Anche nelle pagine interne i giornalisti non usano giri di parole per esprimere le loro preoccupazioni per un progetto che minaccia di ridurre la testata a un “mero” brand.
La sfida pare infatti giocarsi non tanto sul piano di tagli, pensionamenti e decurtazioni di salario – proposte certo non ben digerite dallo staff – quanto sul piano predisposto dalla dirigenza per Libération, poco incline, secondo i lavoratori, alla linea editoriale di qualità che ha da sempre caratterizzato la testata.
Passano i giorni e lo scontro, fattosi sempre più aspro, culmina nelle dimissioni del (giovane) direttore del giornale Nicolas Demorand che, indicato dai giornalisti come parte del problema, si vede negare la pubblicazione di un proprio articolo sui cambiamenti pronosticati per la testata. All’insubordinazione dei giornalisti di Libération, Demorand risponde non solo gettando la spugna ma rilasciando un’intervista al “rivale” Le Monde nella quale dichiara di aver tentato invano di portare al passo con i tempi un giornale ancorato al formato a stampa.

Libération nel corso degli anni ha ammorbidito la propria posizione, mitigando le idee inizialmente radicate nel pensiero politicamente vicino a quella che in Italia chiameremmo l’estrema sinistra. Resta un giornale a vocazione anti-establishment che pare tuttavia non avere l’appeal necessario per attirare i giovani (che preferiscono informarsi online attraverso altre testate).
Se, come sottolineato da Natalie Nougayrède, editor-in-chief di Le Monde, mai come oggi si ha bisogno di giornalismo di qualità, quali le scelte più idonee per rendere l’informazione (anche nettamente schierata) sostenibile? Rien ne va plus?

Zite volta pagina. Grazie a Flipboard.

Img: inside.flipboard.com

Proprio alla vigilia di quella che potrebbe essere l’ultima presentazione pubblica di News(paper) Revolutionmartedì 11 marzo, ore 18 Libreria Trame a Bologna – quanto da me scritto (sia nella versione cartacea che in quella digitale) necessita di un nuovo aggiornamento. Come dico spesso, l’intento di #nepare è quello di tentare di individuare i “binari” entro i quali la comunicazione (giornalistica) online si muove, ma una volta di più, la Rete e i suoi strumenti dimostrano come sia impossibile imbrigliarli fermandone la continua evoluzione.
La notizia alle quale faccio riferimento è l’acquisto di Zite da parte di Flipboard. Per chi non conoscesse i due servizi, si tratta di applicazioni tramite le quali creare personal social magazine. In estrema sintesi, anche se con approcci differenti, il sistema alla base dei due applicativi aggrega in maniera automatica il materiale informativo a nostra “misura” utilizzando come fonti blog, social network e redazioni giornalistiche, impaginando le notizie come in un giornale, da sfogliare, personalizzare e condividere con il proprio network. Semplici e di grande aiuto per sopravvivere al quel mare magnum che è il web, le due app hanno rapidamente accresciuto il numero di utilizzatori attirando anche l’attenzione di inserzionisti e media tradizionali.
Nel 2011 la CNN decise di acquistare Zite (pare per una cifra intorno ai 20 milioni di dollari) grazie alla cui tecnologia, alcuni mesi dopo, lanciò CNN Trends, la lista degli articoli della redazione più chiacchierati online, supportata da link a fonti esterne al team del network Turner.
Lo scorso mercoledì 5 marzo però, quelle che sino a poco tempo fa erano considerate due applicazioni “rivali”, sono diventate una sola cosa: Flipboard ha infatti “strappato” Zite alla CNN. I termini economici non sono ancora stati resi noti ufficialmente (si è inizialmente parlato di 60 milioni di dollari ma sembra più probabile che non vi sia stato scambio di “denaro”: la CNN ha ceduto Zite ottenendo una partecipazione a Flipboard) ma pare che il contratto di vendita della app comprenda anche una stretta collaborazione tra Flipboard e CNN per creare digital magazine di alcuni degli show televisivi dell’emittente e per sfrutturare la partnership sul fronte pubblicitario. Se è certo che Mark Johnson, fondatore di Zite, non farà parte del team che da San Francisco si sposterà a Palo Alto, resta ancora da capire se il contratto di collaborazione con CNN preveda una qualche esclusiva e quale sia il futuro della app Zite.
Se Flipboard esce sicuramente rafforzato dall’operazione (a breve dovrà vedersela con quello che si preannuncia un agguerrito avversario, Paper di Facebook), quanto accaduto alla CNN mostra ancora una volta la difficoltà, per i cosiddetti “media tradizionali”, di sfruttare appieno i propri investimenti in strumenti digitali di valore che però non riescono ad integrarsi e a cambiare sino in fondo la routine produttiva delle news.
Come ha scritto nel blog di Zite, Mike Klaas, co-founder e CTO (vedi foto in alto), scopo della app (immaginato sin dal 2005 e concretizzatosi sei anni dopo) non è stato quello di filtrare le notizie facendo risparmiare tempo ai lettori. L’obiettivo primario era quello di capire gli utenti a tal punto da individuare gli articoli più compatibili con le loro esigenze informative. In quest’ottica, forse, la CNN è stata troppo sbrigativa nel depauperare ciò che aveva tra le mani.

Financial Times: record di copie, sempre più bassa la percentuale di ricavi adv

Img: cjr.org

Alcuni giorni orsono sono stati pubblicati i dati di esercizio relativi al 2013 del giornale economico-finanziario Financial Times. Gli specialisti del settore attendevano con molta curiosità i dati di FT Group perché il quotidiano inglese è stato tra i primi a sposare in maniera decisa il digitale. Non è un caso, quindi, che oggi oltre la metà dei ricavi del gruppo (per l’esattezza il 55%) derivi dal digitale e dai servizi offerti dalla testata, una cifra che registra un incremento del 31% rispetto al 2008. Viceversa, continuando il ragionamento in termini percentuali, i ricavi pubblicitari che cinque anni rappresentavano il 52% oggi si attestano al 37%. Questo, nonostante l’estensione a livello globale dell’innovazione FT Smart Match, la soluzione di contextual advertising in grado, grazie all’utilizzo della tecnologia chiamata Semantic Profiling, di offrire agli inserzionisti l’opportunità di associare i propri contenuti (articoli, white paper, video), in tempo reale e nel massimo della coerenza, ai nuovi articoli pubblicati su FT.com. Attraverso la tecnologia di Smartology cui la testata si è affidata, il nuovo pezzo pubblicato dalla redazione viene analizzato allo scopo di identificarne i concetti e le categorie di riferimento principali sulla base dei quali mostrare all’utente, in maniera automatica, i contenuti brandizzati più in sintonia con la notizia.

Per paradossale possa sembrare, in virtù del rigido paywall (senza registrazione si può solo vedere la homepage senza poter leggere nessun articolo), il FT nel 2013 ha incrementato dell’8% il numero di copie pagate, facendo registrare 652.000 copie totali (online + stampa), numero record in 126 anni di storia. Dato questo che, se approfondito, mostra un nuovo calo della distribuzione cartacea (-20% rispetto all’anno precedente) compensato però da una crescita del 31% delle sottoscrizioni digitali che ormai rappresentano quasi i 2/3 degli lettori paganti del giornale.

All’ottimo risultato in termini di copie vendute ha sicuramente contribuito il canale mobile di FT che, in virtù della propria app svincolata da iTunes con oltre 5 milioni di utilizzatori e le rinnovate collaborazioni con Google Newsstand e Flipboard oggi porta alla testata il 45% del traffico e un quarto dei nuovi abbonamenti digitali.

Altra iniziativa di successo è stata FTfast, il sito di notizie 24 h su 24 tramite il quale la testata può offrire un’informazione più snella ma più puntuale, sempre aggiornata in relazione ai vari mercati del mondo.

Tanti numeri per sottolineare come la scelta di puntare sul digitale per il Financial Times al momento sia una sfida vinta. Certo, il giornale è un quotidiano economico-finanziario il cui bacino di lettori è forse più propenso a pagare per ottenere informazioni che possono risultare determinanti per il proprio lavoro. Ma immaginare per le testate un futuro nel quale i guadagni vengano in primis da contenuti di qualità – mediante abbonamenti – e non dalla pubblicità, lascia vivo un barlume di speranza per un comparto, quello dell’editoria, in forte crisi.

Con EveryBlock l’informazione iperlocale torna a sperare

Img: djangosites.org

Scrivendo News(paper) Revolution ho potuto constatare di persona la difficoltà di raccontare la Rete (e in particolar gli aspetti informativi del web), uno spazio comunicativo fluido e in perenne evoluzione. Emblematico rispetto alla complessità del mettere nero su bianco ciò che cambia molto (troppo?) velocemente, è il servizio di hyper local news, EveryBlock.

Nato nel 2007 da un’idea di Andrian Holovaty e poi lanciato ufficialmente nel gennaio 2008, per molti anni EveryBlock è stato uno degli esperimenti più interessanti del panorama giornalistico statunitense. Dando modo agli utenti di contribuire alla realizzazione di una community online del proprio quartiere, il servizio affiancava informazioni di pubblica utilità a notizie da forum, blog e quotidiani online inerenti alla propria area di residenza. Una sorta di geo-forum (così lo sintetizza Holovaty) il cui successo portò a coprire 19 città degli Stati Uniti (tra le quali New York e San Francisco) attirando così le attenzioni di MSNBC.com che lo acquisì nel 2009. Società nata, come indicata il dominio, dall’unione tra Microsoft (MSN) e Comcast (NBC) che però non ebbe lunga vita. NBC News, tuttavia, riuscì ad aggiudicarsi completamente il sito nel luglio 2012 e, benché Holovaty, un mese dopo lasciasse il progetto di cui era padre, non esitai a raccontare di EveryBlock nella versione cartacea del mio libro, segnalandolo quale uno dei più concreti esempi di giornalismo come servizio per i cittadini di una determinata area geografica.

News(paper) Revolution dal 24 gennaio 2013 è nelle librerie e nemmeno un mese dopo, il 7 febbraio, leggo che la NBC News, visto il bilancio, è costretta a rivedere il proprio portfolio digitale: morale, EveryBlock viene chiuso perché non considerato strategico per la crescita della società.
Inizio a lavorare alla versione ebook del libro – ampliata e aggiornata, uscirà a maggio – e, visto quanto accaduto, decido di sostituire la citazione ad EveryBlock con GuardianWitness, altro progetto molto interessante che vede la partecipazione, nel flusso informativo, di “semplici” cittadini.

Fine della storia?

No, perché ad inizio 2014 Comcast decide – un po’ a sorpresa – di investire nuovamente in EveryBlock che, lo scorso 23 gennaio, torna operativo a Chicago (un percorso analogo è stato seguito da Patch, esperimento di informazione iperlocale di AOL).

Happy ending? Non proprio, il finale resta aperto. Se infatti esiste sicuramente un pubblico interessato a ricevere informazioni sul luogo nel quale vive ed è inserito, ad oggi è altrettanto vero che i grandi investimenti si sono scontrati con guadagni pubblicitari non all’altezza delle aspettative.
Che si navighi a vista, tra l’altro, lo conferma anche Matt Summy, vicepresidente Comcast-Chicago region, quando a precisa domanda su quale possa essere la modalità per rendere un sito di notizie iperlocali redditizio, ha risposto: “Molto candidamente, al momento non lo sappiamo”.

Se i finanziamenti a sostegno di EveryBlock sono tornati, una qualche prospettiva interessante sicuramente ci sarà (in fondo Comcast Corporation non è solo notizie, è anche un provider, c’è tutto l’interesse da parte della società di vedere accrescere l’utilizzo del web da parte degli utenti).

Il progetto non è nato-rinato a Chicago per caso: la metropoli dell’Illinois è infatti nota per il suo approccio open data della gestione pubblico. Il nuovo EveryBlock si propone come piattaforma aperta a sviluppatori e cittadini che vogliano confrontarsi attorno alle notizie (comprese quelle la cui fonte è la Pubblica Amministrazione) del proprio vicinato.

Il futuro dell’informazione passa anche da EveryBlock, non resta che seguirne gli aggiornamenti.

Un primo giudizio sul nuovo look di Gazzetta.it

Da alcuni giorni è online la rinnovata versione de La Gazzetta dello Sport. Ho subito avuto molta curiosità circa il rinnovato design (in particolare della versione web) della “rosea”, sia in qualità di appassionato dell’evoluzione dei media in Rete, sia come lettore-tifoso della testata.

Ad una prima occhiata, la nuova impostazione mi ha ricordato subito la cornice entro la quale sono presentati gli articoli di USA TODAY.


Un po’ come per l’edizione del 2004 (visibile nella Gazzetta Timeline), il sito mostra in primo piano sulla sinistra il menu con i “quick link” alle diverse sezioni informative del sito (menu che, se si resta nel sito, mostra anche le notifiche circa nuovi articoli di una determinata sezione). Da notare come tale menu rimanga fisso anche allo scorrimento dei contenuti. I quali, si nota subito, lasciano molto più spazio alla multimedialità: foto e primi frame di video sono i veri protagonisti della homepage, i testi sono ridotti al minimo e si limitano ai titoli. Andando con il mouse sopra i contenuti, prima di cliccare per leggere l’articolo, ne vengono mostrati i “mi piace”.
Da quanto mi è parso di vedere, pare vi sia una sorta di struttura piramidale per l’organizzazione dei vari “pezzi”: una notizia principale con la foto più grande sotto la quale sono indicate altre 4 notizie ad essa correlate. A lato, lo spazio per l’aggiornamento Live, sotto le altre 2 notizie più rilevanti (con 2 link sotto le immagini, di cui solitamente la prima che rimanda ad un video).
Al primo, seguono altri due blocchi di news, uno a sviluppo orizzontale in due righe, l’altro a colonna (che in realtà può anche essere visualizzata come griglia). Bella l’idea, nell’angolo in alto a destra di indicare con un piccolo box l’argomento/la squadra di riferimento. Più che apprezzabile anche la scelta di informare circa l’autore e ultimo aggiornamento della news.
Allo scroll, trovano spazio le notizie degli altri sport, in una struttura pulita e ordinata con foto in rettangoli affiancate dai relativi  titoli che ricorda un po’ quella utilizzata dalle app con le quali si aggregano i contenuti informativi su smartphone e tablet.

Design 2014 Gazzetta
Cliccando su un articolo, resta visibile in alto la barra (nera) del menu che presenta le diverse sezioni del sito e, appena si iniziare a scorrere l’articolo, compare anche la G per tornare alla homepage. Sotto, una sorta di slideshow delle notizie principali della sezione che si sta visitando.
Sopra il titolo compare il “tag” presente nella foto della home che risulta cliccabile ma che non in realtà non porta a nulla: mi sarebbe piaciuto avere la possibilità di essere rimandato a tutti gli ultimi articoli riferiti a quella particolare tematica.
Tra titolo e sottotitolo un’altra novità, questa volta in stile New York Times: la possibilità di navigare orizzontalmente tra i contenuti, “sfogliando” il giornale online in virtù di frecce per leggere l’articolo precedente (sinistra) o successivo (destra). In realtà, nel NYTimes, le frecce restano sempre presenti a metà delle schermo mentre sulla Gazzetta sono ancorate alla parte superiore dell’articolo “costringendo”, chi abbia finito di leggere il pezzo, a tornare in alto per proseguire “orizzontalmente” con la lettura di un nuovo articolo. Trovo la soluzione nel Times migliore, più ergonomica, anche perché, fatto uno scroll, le frecce laterali consentono, quando si passa sopra con il cursore senza cliccare, di leggere il titolo dell’articolo di destra/sinistra. Nella Gazzetta, posizionandosi sopra una delle frecce, il box “Articolo Successivo” non fornisce informazioni su quello che si andrà a leggere (questo un po’ di smarrimento nell’utente lo crea: in base a cosa scelgo l’opzione di destra o di sinistra se non ne conosco la destinazione?), finendo, tra l’altro, almeno con le mie impostazioni di schermo, con il sovrapporsi al titolo.
A lato dell’articolo, in corrispondenza della data del pezzo, un box verticale con la possibilità di condividere e interagire con la news. Il numero in alto non si capisce esattamente cosa rappresenti (immagino possa essere la somma di condivisioni, like e commenti; personalmente avrei optato per il sistema che mostra le operazioni di ogni singola opzione a disposizione piuttosto che un anonimo totale) ma più che apprezzabile l’idea che anche questa parte segua lo scroll del lettore sino al termine dell’articolo.

Finito l’articolo, spazio ai commenti. Forse, anche qui avrei “osato” un po’ di più magari utilizzando, come succede nei blog (compreso questo), una riga contributi correlati o le top news del momento. Avrei insomma offerto al lettore l’opportunità di navigare tra i contenuti senza spostare troppo il cursore: finito un pezzo, per leggerne un altro, ora bisogna salire nella parte alta dello schermo nello slideshow, tornare con lo scroll al titolo per poi cliccare sulle frecce o, in alternativa, cliccare la colonna sulla destra dedicata ad Approfondimenti, Più Letti, Più Commentati che però, per gli articoli più lunghi, per essere visualizzata richiede comunque almeno uno scroll (una soluzione alternativa potrebbe essere quella di invertire gli spazi: colonna laterale con commenti a fine articolo, approfondimenti e più letti/commentati a fine pezzo).

Nei prossimi giorni proseguirò la conoscenza del nuovo design della Gazzetta, il progetto (realizzato da Sketchin) mi sembra valido e sicuramente rappresenta una efficace e innovativa modalità per raccontare la passione che anima noi tifosi. Con la speranza, nel mio piccolo, di aver fornito dei suggerimenti costruttivi, non posso che fare contemporaneamente e complimenti e gli “in bocca al lupo” di rito per il restyling!

p.s.=un’ultima annotazione: nel sito realizzato ad hoc per il lancio della rinnovata Gazzetta, non riesco a vedere (proprio) il contenuto legato alla user experience (“formato video o mime type non supportato” il messaggio di errore), sob.

Tanti auguri News(paper) Revolution!

Che il tempo passi veloce è risaputo. Ma che sia già trascorso un anno dalla pubblicazione della versione cartacea di News(paper) Revolution (e dal relativo evento di presentazione a Milano) non mi sembra ancora vero.

Molte cose da quel 24 gennaio 2013 sono cambiate, sia a livello personale (lavorativo e non) sia per quel che concerne il mondo dell’informazione online.

Bando alla nostalgia, ecco le tre iniziative che ho pensato di mettere in piedi per festeggiare degnamente la ricorrenza:

1) da oggi 24 gennaio e per una settimana, digitando #nepare l’hashatag ufficiale del testo, nel form “Codice Speciale” che appare nel sito faustolupettieditore.it dopo aver inserito il libro nel carrello, si potrà acquistare il saggio nella sua versione cartacea scontato del 20% – 12 euro anziché 15 – e con 0 spese di spedizione;

2) per l’intera giornata di oggi 24 gennaio la seconda edizione del testo, quella digitale (riveduta, aggiornata e ampliata rispetto alla versione su carta) sarà disponibile su Amazon a metà prezzo (4,99 euro);

3) su Goodreads, per gli utenti registrati, sarà attivo per una settimana un giveaway partecipando al quale tentare di accaparrarsi una delle 3 copie del libro in palio.

Goodreads Book Giveaway

News(paper) revolution. L'informazione online al tempo dei so... by Umberto Lisiero

Enter to win


Ringraziando ancora una volta tutti coloro che hanno supportato il sottoscritto e, direttamente o indirettamente, il libro, prendo fiato ed emozionato spengo la prima candelina.

Buona lettura!