De Correspondent, la proposta olandese per un nuovo giornalismo

Img: gigaom.com

In questi giorni ho avuto modo di conoscere un progetto giornalistico che mi ha davvero colpito per la propria originalità. Si tratta di De Correspondent, start-up olandese che, nata lo scorso settembre (la campagna di comunicazione è in realtà partita alcuni mesi prima, a marzo), è riuscita a raccogliere, grazie alle donazioni di circa 19.000 utenti, la considerevole cifra di 1.7 milioni di dollari.

Di cosa si tratta? Di una piattaforma giornalistica online che punta sull’analisi approfondita di storie che normalmente non trovano spazio – o ne trovano poco – nel mainstream.
Forse la definizione sembra un po’ fumosa ma sta di fatto che il team guidato da Rob Wijnberg (classe ’82!)– che conta su 11 professionisti full-time tra giornalisti, fotografi e grafici, e una 15ina di corrispondenti – può già contare su oltre 20.000 abbonati.

Scorrendo le informazioni riportate nel sito, appare chiaro come la sfida di De Correspondent sia decisamente impegnativa. Al centro dell’iniziativa vi è, infatti, il superamento del concetto di “notizia” come attualmente viene concepito dalle redazioni tradizionali.
La start-up con sede ad Amsterdam, nella sua attività punta alla realizzazioni di “pezzi” che scavino in profondità un determinato argomento senza l’ansia del dover coprire per forza di cose le breaking news. La rilevanza di un fatto, quindi, supera la sua attualità: un modo alternativo di fare giornalismo basato sul fact-checking, capace di trascendere le divisioni con le quali solitamente vengono organizzate le notizie (carattere nazionale, internazionale, di politica, di economia, eccetera), con reportage curati direttamente dalla redazione, e sull’autonomia di giudizio che deriva dalla semplice considerazione che i giornalisti non sono automi ma professionisti con una propria sensibilità che non deve quindi portare a nascondere la sorpresa, le speranze, i timori e gli entusiasmi che derivano dalle loro inchieste, dai loro contributi. Un recupero del lato umano sottolineato anche dall’invito alla partecipazione attiva dei lettori chiamati e a contribuire sui diversi temi trattati dalla redazione non solo economicamente ma in virtù della propria esperienza.

Un progetto for-profit ma il cui modello di business si basa su contenuti da vendere ai lettori non agli advertiser. Abbonamenti e donazioni che saranno la base degli ulteriori sviluppi della piattaforma la cui innovazione sarà finanziata da, almeno, il 20% dei guadagni della testata. De Corrispondent non si avvale della pubblicità e, anche per questo motivo, nella scelta degli argomenti da trattare, previene la necessità di dover, ad esempio, analizzare ciò che un determinato target potrebbe trovare interessante. Come sostegno, chiede 60 euro anno ai propri lettori. E’, a tutti gli effetti, un digital medium e quindi è fruibile su desktop, tablet, smartphone e anche via app. Consente la condivisione di articoli anche ai non iscritti ma con delle precise limitazioni.

Un’iniziativa sicuramente da seguire, un’alternativa all’idea stessa di giornale che in qualche modo, facendo propria la lezione del The Dish di Sullivan, punta sullo sviluppo di una community attorno alle notizie e al superamento del “palinsesto” canonico delle news. Complimenti e in bocca al lupo!

Da free al paywall. E dal paywall all’all-access subscription

Img: jxpaton.wordpress.com

Lo scorso martedì 19 novembre, in uno degli appuntamenti su Second Life di Gate42 (progetto che, per chi non lo conoscesse ancora, invito a seguire, un ringraziamento a @imparafacile per avermi ospitato), ho avuto modo presentare il mio libro parlando dei cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo.
Una delle questioni venuta a galla, inevitabilmente, è stata quella legata all’advertising su web e alla sostenibilità del mondo dell’informazione in Rete.

Proprio su questo (delicato) versante, da segnalare una novità firmata John Paton, CEO di Digital First Media, colosso statunitense che gestisce più di 800 attività online/digitali (soprattutto legate a redazioni a carattere locale) in 18 stati americani in grado di far registrare oltre 61 milioni di utenti mese.
In un blog, l’ex direttore del Guardian e di El Pais, spiega le scelte operate presentandole alla forza lavoro della realtà che è chiamato a dirigere ma, chiaramente, pubblicandole su web senza alcun vincolo, le rende note anche a tutti noi “semplici” utenti.

Da un po’ di tempo seguo quello spaccato di quotidianità giornalistica online. Ho potuto così seguire il percorso adottato dal gruppo in merito alla gestione dei contenuti.
Come molte altre realtà legate al mondo dell’informazione, Digital First Media, per 22 suoi quotidiani online prima fruibili in maniera gratuita, successivamente opta per il Paywall. Una scelta dettata dalla necessità di sperimentare più che della consapevolezza di adottare una soluzione valida a lungo periodo. Una modalità per tentare di rendere più stretto il rapporto con i lettori, chiedendo loro di sottoscrivere un abbonamento. I risultati però non sono per nulla soddisfacenti, le cifre, in termini di guadagni, troppo basse. Il gruppo decide così di passare a un Paywall 2.0, una evoluzione di quanto utilizzato in prima istanza strutturata sulla base delle best pratice del settore.
Contemporaneamente avvia in 75 quotidiani un esperimento alternativo al concetto di “pagamento”. Con la collaborazione di Google, nella sezione multimediale Media Center, ogni 10 immagini mostra all’utente un sondaggio al quale è chiamato a rispondere per proseguire la navigazione all’interno del sito. I risultati di quest’ultima iniziativa sono incoraggianti per cui i vertici del gruppo decidono di concentrarsi sullo sviluppo di un Paywall 3.0 che riesca a combinare le due soluzioni in qualcosa di più dinamico, capace di garantire introiti senza ridimensionare troppo il traffico.

A meno di un anno di distanza però, Digital First Media cambia di nuovo rotta. Il guadagni del gruppo sono in crescita (rispetto al 2009, il digital adv è cresciuto, nel 2012, dell’89%) ma la soluzione del paywall, nelle sue diverse versioni, non convince appieno.
L’esperimento con Google, dopo un inizio promettente, perde di efficacia e quindi, un po’ a sorpresa, il gruppo decide di superare, almeno in parte, la strategia del paywall puntando sull’All-Access print-digital subscription: i lettori non registrati alla testata potranno leggere solo alcuni articoli al mese, gli utenti abbonati, invece, avranno accesso all’edizione cartacea, a quella digitale e ai contenuti su mobile.

Stimolante sfida, non resta che restare sintonizzati nel blog di John Paton per conoscere il bilancio di questo nuovo approccio adottato da Digital First Media.

Quando la stampa scopre l’ecommerce

Img: wwd.com

Alcuni giorni fa mi è stato chiesto di commentare la partnership tra Harper’s Bazaar, storico magazine di moda e stile del gruppo Hearst, con l’italiana Yoox (UPDATE: l’intervista è stata pubblicata nel numero di dicembre di AdV). Ho in questo modo potuto approfondire gli aspetti legati al rapporto tra stampa ed ecommerce che, focalizzando la mia attenzione prevalentemente al mondo dei quotidiani, avevo forse tralasciato.

In questi ultimi anni molti sono i gruppi editoriali che hanno deciso di puntare sul commercio elettronico. Condé Nast, tanto per citare un altro esempio, ha investito in due marketplace: Farfetch, spazio che unisce boutique indipendenti e Vestiaire Collective, community dedicata alla vendita online di abiti e accessori di lusso usati.

In ordine di tempo, una delle prime strette collaborazioni tra chi scrive contenuti e chi vende beni su web, è stata quella di Vogue che, per la settimana della moda di New York del settembre 2012, offrì alle proprie lettrici la possibilità di acquistare, attraverso il luxury retailer Moda Operandi, i capi di abbigliamento presentati nelle passerelle.

Altro caso degno di nota è quello di Elle che lo scorso anno ha iniziato a sperimentare il social e-commerce. La redazione presentava alcuni capi “must” della stagione in arrivo, gli utenti potevano interagire con in contenuti scegliendo tra “Love”, “Want”, “Own” o, più sotto, “Buy”.

In realtà, scandagliando la Rete ho trovato anche qualcosa di relativo ai quotidiani. L’autorevole Washington Street Journal ha, infatti, da alcuni giorni lanciato un proprio canale ecommerce. Si chiama The Shops, un sito di vendita online di prodotti di lusso sponsorizzato da Capital One (e dalla sua carta di credito). Tutto torna. O quasi. Perché poi, in fondo alla pagina, un riquadro magenta sottolinea come il sito operi in maniera indipendente dalla redazione del quotidiano finanziario.

L’editoria in crisi sperimenta nuove soluzioni – che alle volte si allontanano dal core business delle news – alla ricerca di modelli economici alternativi.
Se per la stampa l’ecommerce possa rappresentare una interessante fonte di reddito forse è troppo presto per dirlo. In ogni caso, da lettore, mi auguro che ciò avvenga in maniera trasparente salvaguardando la distinzione tra contenuto informativo e pubblicitario.

New York Times Company, crescono i profitti. Ma non grazie all’adv.

nyt_3rdquarter_13Ultimamente ho focalizzato la mia attenzione su alcune redazioni locali statunitensi e sul loro approccio alla crisi della stampa. Con questo post, invece, torno ad occuparmi di uno dei colossi del giornalismo a stelle e strisce. Sono infatti stati resi noti i dati relativi al terzo quarter del 2013 di The New York Times Company. Le cifre pubblicate permettono di avere un’idea sullo stato di salute di una delle aziende più importanti al mondo nel panorama dei media.
Il primo dato è quello che, rispetto allo stesso periodo del 2012, i profitti sono in aumento: dagli 8.9 si è passati quest’anno ai 12.9 milioni di dollari, una crescita che, al netto della svalutazione, dell’ammortamento e di alcune liquidazioni di fine rapporto, è stimata attorno al 35%.
Nel terzo quarter del 2013 il totale delle entrate è aumentato del 1.8%, 4.8% se considerata la sola distribuzione. Da notare come, proprio per quel che concerne la diffusione dei giornali, i guadagni crescano sia per il comparto digitale sia per quello della stampa classica nonostante quest’ultima registri un calo delle vendite. La diminuzione del numero di copie cartacee acquistate è stato infatti bilanciata da un aumento del prezzo del quotidiano.

I guadagni provenienti degli abbonamenti digitali ammontano, nel terzo quarter del 2013, a 37.7 milioni di dollari, +29% rispetto allo stesso periodo del 2012. Se l’analisi si allarga ai primi nove mesi del 2013, la percentuale rispetto allo scorso anno sale al 42.4.

Il numero delle iscrizioni digitali continua ad aumentare attestandosi, per quel che concerne New York Times e Herald Tribune, a circa 727.000, il 29% in più rispetto al medesimo periodo del 2012.

Nell’insieme di cifre in progresso è però da notare la frenata degli introiti derivanti dalla pubblicità. Se il -1.6% dei guadagni da adv cartaceo era quantomeno prevedibile, il -3.4% dell’adv online rispetto al 2012 fa sicuramente riflettere. I guadagni da adv digitali, rispetto al totale delle revenue pubblicitarie del gruppo, scendono a 23.8% rispetto al 24.1% dello scorso anno. In realtà è da inizio anno che le entrate pubblicitarie sembrano soffrire: considerando i primi nove mesi del 2013 rispetto a quelli del 2012, l’adv digitale registra un -7.3%, quello a stampa un -3.2%.

In sostanza, da quanto emerge, il The New York Times Company si dimostra ancora una volta un gruppo solido e in salute. Con il progressivo abbassamento dei costi in atto e la parallela crescita dei profitti, il colosso statunitense sta affrontando al meglio le sfide che le testate giornalistiche sono chiamate oggi ad affrontare.

Il fatto che gli introiti pubblicitari, digitali o a stampa, non riescano a tornare a crescere, risulta, in estrema sintesi, un “monito” per tutte le testate: ad oggi, preferibile puntare sui contenuti (e, in generale, sulle iniziative volte a migliorare il rapporto con i lettori) piuttosto che sulla pubblicità che questi possono veicolare.

Orange County Register, il giornale controcorrente

Aaron Kushner

Img: cjr.org

Il mondo dell’editoria non sta vivendo un periodo felice. I dati sugli introiti pubblicitari continuano a scendere, le redazioni sono alle prese con tagli del personale e drastiche riorganizzazioni.

In un clima così tetro, la notizia circa l’esperimento del quotidiano californiano Orange County Register sembra quasi un miraggio.
Il giornale, infatti, pare percorrere in senso contrario il declino della stampa. Sta assumendo personale, sta puntando forte sulla versione cartacea della quale ha aumentato la foliazione e, soprattutto, sta registrando una crescita dei ricavi.

Fondato nel 1905, il giornale ha attraverso alcuni momenti davvero difficili ma, da un anno a questa parte, la storia del quotidiano è cambiata completamente. La testata ha visto l’ingresso di due nuovi soci: Eric Spitz e Aaron Kushner. Quest’ultimo, nonostante la mancanza di esperienza nel campo giornalistico, sembra per ora aver vinto la propria scommessa.

Come? Puntando sui contenuti, non sul mezzo. E così, in un momento di crisi come quello attuale, per prima cosa Kushner ha voluto ampliare l’edizione cartacea (più pagine a colori) e il personale – fotografi e giornalisti – per coprire al meglio le notizie locali. Fede, scuola, cibo, cronaca e sport i focus principali, con un notevole spazio – nell’edizione del fine settimana – alle attività sportive femminili e maschili delle high school per avvicinare alla testata anche il pubblico più giovane. Anche l’offerta è stata semplificata: che sia carta o web, il giornale chiede ai propri lettori 1 dollaro al giorno (con un paywall online molto restrittivo).

L’ambizione è quella di poter offrire ai propri lettori un giornale che rappresenti lo strumento più adatto per essere informati e capire la comunità nelle quale si vive o lavora. Un quotidiano utile al proprio pubblico, dai contenuti rilevanti e originali (in un parallelismo televisivo, uno dei giornalisti della testata, Rob Curley, parlando della sfida di rendere unico il quotidiano, ha citato l’esempio dei Soprano, trasmessi solo da HBO e da nessun’altra parte).

Il modello del Orange County molto probabilmente non è così facilmente replicabile in altre redazioni, ma resta interessante da seguire nei suoi ulteriori sviluppi.
Perché in fondo, la considerazione di Kushner secondo la quale mai come oggi il pubblico di lettori è vasto, risulta inattaccabile. Tornare a concentrarsi sull’idea di servizio al cittadino, puntando sulla qualità dei contenuti appare una scelta più che condivisibile.

L’innovazione? A Boston è di casa

Img: 61Fresh.com

Il mercato dell’editoria sta vivendo un momento molto difficile. Il termine innovazione è ormai sulla bocca di quasi tutti gli addetti ai lavori, concentrati nel capire quale sia la strada più sicura sulla quale affrontare i cambiamenti in atto. Mettere in pratica processi che portino a risultati migliori è però molto complicato: in un contesto nel quale, a fronte di investimenti, l’obiettivo risulta ottenere effetti pressoché immediati, ragionare in termini di lungo periodo, vista la rapida evoluzione della Rete, è quasi impossibile.

Nonostante tutto, alcune testate, continuano a provare nuovi approcci al web. Non si tratta esclusivamente di redazioni arcinote, esiste un “sottobosco” di quotidiani a carattere locale che, come avvenne agli esordi di internet con il Chicago Tribune e il Nando Times (in Italia con l’Unione Sarda), per tentare di allargare il proprio pubblico di riferimento o per offrire un’alternativa al mainstream, continuano a proporre nuovi strumenti e nuove modalità di approccio all’informazione.

Uno dei casi di maggior successo in questo senso (successo misurato non esclusivamente in termini di parametri numerici quanto di capacità di rinnovare la propria identità adattandola agli sviluppi della Rete) è il Boston Globe. La testata – come citato anche in News(paper) Revolution – possiede due declinazioni: una, a pagamento, propria del giornale cartaceo, un’altra gratuitamente fruibile – Boston.com – molto più focalizzata sulle notizie locali e indirizzata a un pubblico più trasversale.

Di questi giorni è la notizia che, proprio lo spazio informativo Boston.com, dal prossimo anno, offrirà una maggiore flessibilità ai propri lettori. Non sono trapelate moltissime informazioni a proposito ma sulla base di quanto dichiarato da Jeff Moriarty – Vicepresidente del Boston Globe e General Manager di Boston.com – il sito proseguirà lo sviluppo della sua costruzione “responsive” anche in ottica utente. Nel 2011 il quotidiano di Boston è stato tra i primi a implementare un sito in grado di adattarsi al device utilizzato. Il giornale, in altre parole, fermo restando i contenuti, è in grado di modificare il proprio aspetto in base al supporto con il quale viene fruito. In questo modo, ad esempio, l’impaginazione è differente se l’utente visita lo spazio informativo da computer, da tablet o da smartphone.
Dal 2014 però la testata farà un ulteriore passo modellandosi anche in base alle modalità di utilizzo del lettore: se l’utente preferirà leggere piuttosto che sfruttare il materiale multimediale a disposizione, il sito sarà in grado di proporre un più alto numero di testi. In qualche modo, quindi, sarà il comportamento stesso dell’utente a configurare la griglia informativa del quotidiano. Un progetto ambizioso che, sulla scia di quanto sta accadendo su Facebook, punta alla personalizzazione, al superamento del giornale indifferenziato, uguale per tutti.

Altro progetto da seguire, sempre a firma Boston Globe, è 61Fresh. E’ uno spazio informativo capace di captare i tweet locali di Boston e dintorni che richiamano le notizie di uno dei 500 siti di notizie della capitale del Massachusetts. Alla base un algoritmo in grado di vagliare la popolarità e la freschezza delle news per riproporre le notizie più chiacchierate dell’area metropolitana.

Complimenti ai responsabili della testata, anche un periodo di crisi può in fondo rappresentare un’opportunità. Per mettersi in gioco e vagliare nuove opzioni.

Scrivi e vinci una copia di News(paper) Revolution

logo_nepare

L’editore mi ha fornito alcune copie di News(paper) Revolution in versione cartacea e ho pensato di distribuirle mediante un’iniziativa che vado a presentare.

(rullo di tamburi)

Nelle occasioni pubbliche spesso mi è capitato di sottolineare come il mio saggio voglia essere l’inizio di una conversazione, un punto di partenza per una riflessione sui cambiamenti in atto nel mondo dell’informazione e, più in generale, della comunicazione.

Ecco perché vorrei coinvolgere direttamente gli utenti per chiedere loro quale sia lo strumento utilizzato maggiormente per informarsi online.

Scrivi una email all’indirizzo indicato nella sezione @bout indicando una delle opzioni. Con un po’ di fortuna, sarai ricontatto per la conferma dell’assegnazione di una copia del saggio.

Quale strumento utilizzi in misura maggiore per informarti online?

Quotidiano solo online
Versione online di quotidiano cartaceo
Magazine online
Motore di ricerca (Google, GoogleNews…)
Applicazione “social magazine” (Zite, Flipboard…)
Facebook
Twitter
Google+
Blog

Un ringraziamento a chi deciderà di partecipare e a chi segnalerà l’iniziativa nei social network (su Twitter utilizzate l’hashtag #nepare, mi raccomando). In bocca al lupo!

 

[update: ho replicato il “sondaggio” nella colonna di destra per chi volesse esprimere una preferenza senza dover partecipare al contest scrivendo una email]

Know More, l’esperimento semiserio del Washington Post

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Img: http://knowmore.washingtonpost.com

Quando mi capita di parlare in pubblico di web e comunicazione [a proposito, per chi ancora non lo sapesse, domani presenterò News(paper) Revolution a La Fiera delle Parole], uno dei punti sui quali insisto maggiormente è quello relativo alla mia convinzione che, proprio in virtù del mare magnum che è il web, la funzione di “filtro” sia necessaria per non rischiare di perdere la bussola.
A tal proposito cito spesso l’esempio di Compendium, il progetto del New York Times in virtù del quale gli utenti possono organizzare una sorta di bacheca (Pinterest docet) con i contenuti della testata che reputano più interessanti, da condividere con amici e conoscenti (il primo filtro è il giornalista, il secondo, ancora più accurato, è il lettore).
E’ di questi giorni un’iniziativa analoga del Washington Post, forse più “scanzonata”, più semplice ma non per questo non degna di nota.
Lo spazio al quale faccio riferimento è Know More, una riproposizione in salsa blog (trae origine dal Wonkblog) di una bacheca virtuale nella quale però i contenuti sono per la stragrande maggioranza esterni alla testata. Foto, video, grafici sintetizzati con un titolo accattivante che, se cliccati, si aprono a tutto schermo mostrando ai lati due bottoni: No more e Know more. Se si sceglie l’opzione di sinistra (la prima) il contenuto scompare dalla bacheca, se si opta per la seconda si viene rimandati alla fonte dell’informazione. Chi sceglie cosa pubblicare? Una miniredazione composta, al momento, da Dylan Matthews e Ezra Klein. Quest’ultima, presentando l’iniziativa ha sottolineato come lo scopo sia quello di stimolare nei lettori l’approfondimento, un supporto agli articoli interessanti ma non costruiti abbastanza bene da essere trovati dal pubblico. L’aspetto singolare è che mentre solitamente le iniziative editoriali puntano a incrementare il tempo speso entro i propri “confini”, il successo di Know More si misurerà nel numero di utenti che sceglieranno di lasciare lo spazio per leggere altrove. Sintetico e audace, da seguire.

I quotidiani locali nel web: il caso The Oregonian

Parlando di social media e comunicazione online ci si riferisce spesso quasi esclusivamente a grandi aziende. Il citare realtà di grosso calibro è quasi un atto involontario perché i brand più noti hanno maggiore visibilità, una presenza nelle Rete più strutturata e investimenti più rilevanti. In realtà, il mondo oltre le multinazionali, nella diversità di approccio alla sfida delle Rete, è altrettanto interessante.
Un esempio? Navigando in GoogleNews mi sono imbattuto nella storia del The Oregonian e ho deciso di approfondirla perché, in qualche modo, può essere considerata alternativa ai grandi gruppi editoriali statunitensi e più vicina al giornalismo dei quotidiani locali.

The Oregonian è il più antico quotidiano della West Cost: nato come settimanale nel 1850, è il giornale della città di Portland che, in termini di tiratura, occupa la 19esima posizione tra i newspaper degli Stati Uniti.
Non passa un periodo felicissimo tanto che, la scorsa estate, è stata comunicata la riorganizzazione dello staff e la scelta di ridurre a quattro le copie a stampa per focalizzare gli sforzi nell’informazione online. L’obiettivo dichiarato è quello di far diventare il gruppo editoriale una digital-first company.
Per adattarsi ai cambiamenti del pubblico di lettori e del mondo della pubblicità, la prima mossa è stata quella di puntare sullo sviluppo di OregonLive.com che, se mette in secondo piano la testata e il formato giornale, risulta probabilmente uno spazio più dinamico per informare i cittadini. In secondo luogo la direzione ha deciso di dare maggiore enfasi alle edizioni digitali del giornale pensate (e impaginate) per essere fruite da smartphone e tablet.
La problematica più difficile da affrontare per molte piccole-medie testate è il ridimensionamento della pubblicità: se, a livello generale, la pubblicità su Google e gli altri strumenti della Rete ha negli USA ormai sorpassato l’advertising a stampa, le cifre per quel che riguarda il comparto editoriale non sembrano seguire lo stesso trend. E così, all’implosione del mercato pubblicitario su carta, quasi mai corrisponde una solida crescita dell’adv online. Non resta, quindi, che tentare di ridurre i costi (sperando di non dover abbattere la scure sul personale).

Leggendo l’editoriale pubblicato da Peter Bhatia, vicepresidente dell’Oregonian Media Group, che presenta il cambio di rotta entrato del The Oregonian entrato nel vivo lo scorso primo ottobre, emergono alcuni spunti interessanti:

• se Internet enfatizza la velocità, c’è ancora spazio per redazioni che si occupino di inchieste, di approfondimenti, di verifica delle fonti;
• i giornalisti non si devono più preoccupare del posizionamento della notizie sul quotidiano, devono pensare in funzione del web non più della carta (spazio quindi, ad esempio, alla multimedialità);
• la sfida è, per i giornalisti come per chiunque si occupi di comunicazione nel web, quella dell’engagement dei lettori; e l’interattività dei mezzi digitali in questo senso offre notevoli opportunità;
• di fondamentale importanza l’analisi dei dati relativi al comportamento dei lettori che possono aiutare la redazione a focalizzare al meglio ciò interessa alla comunità.

Il viaggio intrapreso dal giornale di Portland e da tante altre testate a carattere locale è una gara ad ostacoli che comporta un radicale cambiamento culturale, una nuova prospettiva con ben poche certezze. Che investe le figure professionali come i semplici lettori. Ma che pare ormai inevitabile da affrontare, prenderne coscienza è un buon inizio.

Dall’edicola ai tablet: i magazine su Next Issue

next issue

img from goodereder.com

Nel 2011, alla ricerca di modelli di business in grado di garantire un solido futuro al mondo dell’informazione giornalistica online, tre colossi dell’editoria americana (Gannet Company, The New York Company e The Washington Post Company) finanziarono il progetto ONGO, una sorta di aggregatore delle notizie di oltre 50 tra le più seguite testate statunitensi organizzate in 8 sezione tematiche. Nonostante le news fossero presentate senza pubblicità e l’abbonamento mensile fosse sceso rapidamente sino ad arrivare a 1.99 dollari, l’esperimento, dopo poco più di un anno, si concluse, bruciando così i 12 milioni di dollari di finanziamento iniziale.

Se il progetto ONGO non ha dato i frutti sperati, c’è un’altra realtà che invece sta raccogliendo consensi. Si chiama Next Issue, ha uffici a Palo Alto e New York e prima di Natale (il 15 dicembre 2013) renderà il proprio servizio disponibile anche oltre i confini USA, in Canada.

Di cosa si tratta? Next Issue è un’applicazione che permette la lettura di oltre 100 magazine. Frutto della partnership tra Condé Nast, Hearst corporation, Meredith, News Corporation e TimeInc., il sistema permette, previa abbonamento mensile, di avere accesso illimitato alle riviste in catalogo. Una sorta di Spotify dell’informazione periodica. L’utente, armato di iPad, tablet Android o pc/tablet Windows 8, può optare per due tipologie di abbonamento: con 9.9 dollari mese ha a disposizione 97 magazine (da Vanity Fair a Wired, da Fortune a PC Magazine), pagando 14.99 dollari ha accesso a 107 riviste, le mensili più alcune tra i più noti settimanali (Time, People, The New Yorker, Sports Illustrated…). Scegliendo tra le proprie riviste preferite l’utente avrà modo di sfogliarle appositamente impaginate per il supporto in uso, con la pubblicità, ma con la possibilità di visualizzare contenuti speciali quali video, interviste, animazioni grafiche.

Next Issue trattiene per sé il 40% lasciando la restante percentuale dei proventi ai gruppi editoriali.

La componente prezzo mi pare molto interessante: il costo mese richiesto all’utente non è bassissimo se paragonato alle cifre di un abbonamento annuale “su carta” a uno dei magazine che il servizio permette di leggere in versione digitale. Proprio per questo motivo per, diciamo così, ammortizzare la spesa, un utente dovrebbe sfogliare un bel po’ di riviste. Il sistema, infatti, si rivolgere ai lettori “avidi” di informazioni, quelli interessati a pochi e ultra selezionati periodici, probabilmente non sfrutterebbero al meglio il servizio e quindi a Next Issue potrebbero preferire per l’abbonamento alla singola rivista (Wired, per esempio, costa 5 dollari per 6 mesi di edizione cartacea e tablet). Trattandosi principalmente di mensili, poi, l’aggiornamento della bacheca con i propri magazine preferiti si rinnoverà solo ogni 30 giorni.

Il servizio merita di essere tenuto sotto la lente di ingrandimento, rappresenta un interessante esperimento per comprendere meglio le dinamiche del lettore digitale. Anche se, a ben vedere, Next Issue non è altro che un sistema di distribuzione di contenuti cartacei online che pare continuare a rivolgersi a una tipologia di lettore abituato ai tempi e ai modi della carta più che alla dinamicità delle Rete.