Un anno di Daily Dish con Andrew Sullivan

Img: dish.andrewsullivan.com

Fine anno significa inevitabilmente anche tempo di bilanci, di valutazioni sulla base delle quali stilare buoni propositi e obiettivi per il futuro.

Uno dei progetti più interessanti dal punto di vista giornalistico dello scorso anno [citato nella versione digitale di News(paper) Revolution] è stato sicuramente The Daily Dish di Andrew Sullivan.

Il noto blogger, lasciato il Daily Beast, con una redazione di una mezza dozzina di persone, ha iniziato un nuovo progetto – il The Dish, appunto – completamente finanziato dai lettori (tramite donazioni o abbonamenti), senza pubblicità, sponsorizzazioni né finanziamenti da parte di terzi.

Una sfida difficile quanto intrigante, con un traguardo ben definito: arrivare, e magari superare, quota 900.000 dollari di entrate in un anno, l’editorial budget della precedente collaborazione al The Beast.

Com’è andata? Come reso noto dallo stesso Sullivan, la cifra agognata non è stata raggiunta, anche se davvero per poco (gli introiti da abbonamenti del 2013 si sono fermati a 851.000 dollari). L’iniziativa, tuttavia, per molti versi si può ritenere un successo.

Come già in parte accennato, il “sistema Dish” si regge su abbonamenti annuali (19,99 dollari) e mensili (1,99 dollari). Ogni utente non registrato ha un bonus di 5 click per leggere per intero gli articoli del blog, usufruito il quale scatta il blocco del paywall.

Gli abbonati annuali del 2013 sono stati 34.000, dei quali 9.000 hanno già deciso di rinnovare anche per il nuovo anno. 28.000 invece gli utenti che, raggiunto il limite di lettura gratis, non hanno deciso di abbonarsi, dimostrazione di come ci siano margini di crescita nel bacino di lettori del blog.

Nel grafico che sintetizza l’andamento delle revenue mensili del blog da notare come, dopo leggero ribasso dei mesi estivi, ottobre abbia segnato un notevole balzo in virtù della crisi del debito degli Stati Uniti che, proprio in autunno, ha innescato un acceso un dibattito al Congresso in grado di stimolare l’interesse degli utenti alle considerazioni della redazione su quanto stava avvenendo sulla scena politica.

Un’ultima considerazione. Nel suo messaggio di fine anno Sullivan scrive:

[…] we’ll finally have a solid basis for a ongoing, entirely-online blogazine with no sponsored content and (so far) no advertizing […]

L’utilizzo dell’espressione “so far” preannuncia probabilmente qualche novità nella testata. Il modello attualmente alla base del The Daily Dish potrebbe infatti declinarsi a breve in due versioni: da una parte, la fruizione gratuita per tutti gli utenti con i contenuti affiancati dalla pubblicità, dall’altra l’edizione libera dall’adv per gli abbonati.

Il primo anno si concluso molto bene, ripetersi e mantenere in piedi il progetto redendo solida la base di lettori non sarà certo facile (se dai 34.000 abbonati togliamo i 9.000 che hanno già rinnovato e immagininamo che i 25.000 restanti siano utenti interessati al supporto annuale con il blog, questi rappresentano circa 500.000 dollari, più della metà degli incassi dell’anno, non dovessero continuare a supportare la testata, sarebbe un bel problema!).

Con la speranza che il progetto continui ad avere un seguito, non posso che augurare ad Andrew e al suo staff un 2014 ricco di (nuove) soddisfazioni.

[recensione] Stop agli incantatori del web, di Elena Schiaffino

Img: bookrepublic.it

Il 2013 che sta per finire è stato un anno di notevoli cambiamenti e di nuove sfide da affrontare. Dal punto di vista lavorativo, ad esempio, dallo scorso aprile, sono passato dal lavorare (semplifichiamo) in una web agency al collaborare in pianta stabile direttamente con un’azienda. Se è vero che continuo ad occuparmi di comunicazione e marketing su web e social media, non posso certo liquidare come “banale” la mia nuova mansione e le relative modifiche al modo di pormi nei confronti della Rete che da qualche mese sto sperimentando. Il “salto” da agenzia ad azienda, almeno per il sottoscritto, ha comportato una notevole modifica della prospettiva e dell’approccio all’online. Una della differenze più evidenti è stata il passaggio da una realtà che offre servizi a una che invece è chiamata a valutare i partner esistenti e ad individuarne di nuovi per progetti specifici.
Calarsi nel nuovo ruolo, dall’altra parte della scrivania, non è stato immediato.
Per anni la mia visione del web è stata, diciamo così, limitata a un solo emisfero, mancava una visione di insieme che potesse in qualche modo rendere più chiaro il panorama nel suo complesso. Venivo interpellato per rispondere ad esigenze ben precise (diffondere un video piuttosto che creare passaparola attorno a un prodotto o un’iniziativa) ma non potevo approfondire le valutazioni che avevano portato alla scelta di utilizzare gli strumenti messi a disposizione e, soprattutto, non avevo modo di misurare l’efficacia in termini di ritorno di una determinata “campagna” andando al di là dei parametri che si è soliti utilizzare online per valutare le performance nel breve periodo.

Questo preambolo spiega forse il motivo per cui, quando mi è capitato sotto mano Stop agli incantatori del web di Elena Schiaffino, il libro abbia subito attirato la mia curiosità. Il testo è una guida pratica per aiutare chiunque sia alla ricerca di professionalità in grado di supportare la propria presenza in Rete. Partendo dalla definizione di web agency e digital company, il saggio offre utili consigli per scegliere con oculatezza il fornitore web più idoneo alle proprie necessità e ai propri obiettivi, mettendo in guardia dai tranelli da evitare.

Nonostante il testo sia del dicembre 2012, risulta ancora un più che valido punto di partenza per essere più consapevoli di ciò che si è chiamati ad affrontare e, quindi, per vagliare al meglio le diverse opzioni.

Come ricorda l’autrice, infatti, se è vero che ormai è (quasi) impensabile non essere online, è altrettanto vero che ormai l’epoca pionieristica del web è terminata e, di conseguenza, oggi esistono molti più strumenti per valutare i potenziali partner e scegliere – come recita il sottotitolo del libro – “i professionisti giusti per un progetto digital di successo”.

Sono convinto che ci sia ancora molto da fare nell’ambito della educazione/formazione al “mezzo Internet”, soprattutto lato cliente. Un libro semplice e chiaro (curato anche dal punto di vista grafico) come quello della Schiaffino, di certo contribuisce a rendere il web più credibile.

News Corp scommette sul social journalism di Storyful

Img: CNN.com

Ho scoperto Storyful circa un anno fa. Stavo ultimando lo studio sul rinnovamento del mondo dell’informazione che poi ha portato a News(paper) Revolution e, concentrato sul “fenomeno” del citizen journalism (anche se personalmente preferisco l’espressione open journalism), ero alla ricerca di qualche nuovo progetto capace di ben interpretare esigenze e ruolo del rinnovato panorama informativo. Storyful attirò subito la mia attenzione proprio per l’originalità del proprio approccio alle sfide della Rete.

[…] società con sede a Dublino composta da un team di professionisti che 24 ore su 24 monitorano i web (e in particolare i social media) catturando immagini e contenuti degli utenti da poi vendere alle testate di tutto il mondo. Ecco “manifesto” presente nel sito ufficiale: «Storyful is the first news agency of the social media age. We separate the news from the noise. Storyful gives journalists and media professionals the power to discover, validate and deliver the most compelling content on the social web. Storyful helps newsrooms and publishers create newswires designed to meet the needs of their target audiences. Our goal is to create a sustainable model for a new form of social and collaborative journalism». Come funziona? In estrema sintesi, individuato un contenuto “dal basso”, lo staff ne approfondisce i dettagli mettendo poi in caso tra loro in contatto utente – ad esempio un ragazzo con i propri scatti diffusi tramite Twitter è diventato testimone degli scontri di Tripoli – e testata giornalistica.

Non nascondo quindi che, leggendo dell’acquisizione di Storyful da parte del colosso News Corp di Rupert Murdoch (per 25 milioni di dollari) abbia provato un certo orgoglio per aver “scovato” una realtà che nel giro di un anno dalla mia citazione, ha saputo attirare le attenzioni di uno dei maggiori gruppi editoriali.

Ma cosa ha suscitato così tanto l’interesse della società del Wall Street Journal e del New York Post? Di certo le valutazioni che hanno portato all’acquisizione della start-up irlandese saranno state molte ma, a mio modo di vedere, due su tutte hanno fatto la differenza.

Storyful ha messo a punto una routine lavorativa che consente, seguendo i dettami del “buon giornalismo”, di verificare e commercializzare i cosiddetti user-generated content. La capacità di separare del brusio delle conversazioni online, materiali fotografici o video interessanti anche dal punto di vista giornalistico, rappresenta un valore aggiunto notevole. Vincere la sfida di proporre al pubblico delle breaking news – tramite i contributi di semplici cittadini testimoni diretti di ciò che è accaduto – prima delle altre testate, non può che essere un risultato al quale ambire.

L’abilità nell’uso dei social media e, in generale, la robusta presenza nell’ambito dei media digitali di Storyful, può tornare decisamente utile anche sul fronte dell’advertising sempre alla ricerca di valide soluzioni.

Delle tante dichiarazioni seguite all’acquisizione, mi ha colpito quella del CEO di News Corp, Robert Thomson, che ha sintetizzato i cambiamenti in atto come la trasformazione di un gruppo fondato su brand legati a giornali cartacei in quello che punta su piattaforme informative digitali.

La rivoluzione continua.

Facebook sempre più information network [parte 2]

Img: KhaleejTimes.com

I recenti cambiamenti del News Feed di Facebook continuano a fare discutere. Editori e esperti di social media marketing sono, anche in Italia, sul piede di guerra. Le novità dell’algoritmo, infatti, sembrano ridimensionare la visibilità ai contenuti e molti leggono in questo un tentativo nemmeno troppo velato da parte dell’azienda di Mark Zuckerberg di “imporre” investimenti pubblicitari (in base ad una ricerca pubblicata alcuni giorni fa da Ignite, su 689 post di 21 pagine, la reach per quel che concerne la visibilità organica, è diminuita in media del 44%).

Ad onor del vero, prima delle recenti modifiche apportate dal social network, le pagine Facebook funzionavo come dei canali pubblicitari gratuiti: gli status erano in grado di diffondersi in maniera abbastanza semplice e, in virtù di “like” e condivisioni, offrivano gratuitamente una notevole visibilità a prodotti ed iniziative.

Dopo la quotazione in borsa, era forse prevedibile che Facebook iniziasse a tentare di capitalizzare in maniera migliore il proprio bacino di utenti/marche, anche se, dalla lettura di parecchi articoli sull’argomento, è maturata in me l’idea che per l’azienda di Palo Alto in realtà si tratti di un vero e proprio cambio di rotta in virtù del quale l’aspetto economico legato agli investimenti pubblicitari – seppur importantissimo – non è questione a monte della nuova strategia.

Obbiettivo numero uno di Mark e soci è quello di diventare il miglior giornale personalizzato del mondo. Per questo motivo, Facebook ha iniziato a puntare sui “contenuti di qualità”. L’espressione sembra un po’ generica ma più passano i giorni più appare chiaro come il social network non voglia diventare una copia di alcuni tabloid online che vedono in BuzzFeed l’esempio di maggior successo in termini di viralità dei contenuti.

Addio alle (tanto amate) foto di gattini? Forse non del tutto, ma sicuramente le varie versioni di Grampy Cat dovrebbero apparire molto meno frequentemente tra gli status.

Le novità del News Feed sono state concepite – per stessa ammissione di Facebook – da sondaggi condotti tra utenti del social network i quali pare abbiano indicato come contenuti di valore, articoli piuttosto che i cosiddetti meme.

Le parole di Lars Backstorm responsabile dello sviluppo del News Feed intervistato da AllThingsD confermano questa inclinazione:

In the past, there were a lot of things that all fell into one bucket, and we would treat them all the same, even though they clearly weren’t. If you see a funny meme photo in your feed — sure, you get some value from that. But if you compare that to reading 1,000 words on AllThingsD, you would presumably get more value from that experience than the first one. And, in the past, we were treating them as the same.

L’ulteriore sviluppo, indicato nel proseguo dell’intervista, pare possa essere quello di verificare, da parte di Facebook, la fonte del contenuto per stabilire a priori la qualità o meno del contributo.

Il social network ha lanciato la proprio sfida, ora la palla passa a chi realizza i contenuti che, per avere successo su Facebook, dovrà indubbiamente adeguarsi alle nuove direttive di “the big F”.

Facebook sempre più information network [parte 1]

Facebook News Feed

Img: Newsroom.fb.com

Alcuni giorni fa, la Newsroom di Facebook ha diffuso la notizia circa l’ulteriore sviluppo del design del News Feed, l’algoritmo alla base della visualizzazione degli status.

Il social network di Mark Zuckerberg sta progressivamente spostando la propria attenzione verso i contenuti informativi avvicinandosi, per certi versi, al concetto di information network che Twitter ha fatto proprio sin dagli esordi.

La sfida – dichiarata pubblicamente – per gli sviluppatori dell’azienda di Palo Alto è quella di offrire il giusto contenuto, alle giuste persone nel momento giusto. Proprio in quest’ottica, l’evoluzione del News Feed punta ad assecondare l’esigenza degli utenti (particolarmente accentuata nell’utilizzo da mobile) di leggere le notizie più rilevanti.

In altre parole, più un contenuto sarà in grado di far interagire gli utenti con “mi piace”, commenti e condivisioni, più guadagnerà in visibilità. La novità, rispetto a quanto già accade, è la volontà di Facebook di puntare su contenuti di qualità a discapito, per esempio, dei meme, i tormentoni online capaci di diffondersi con notevole rapidità. Da quanto sinora emerso circa il rinnovato News Feed, il sistema sembrerebbe quindi premiare contenuti informativi esterni a Facebook piuttosto che, ad esempio, semplici contributi fotografici diffusi dagli utenti proprio grazie al social network.

Inoltre, se uno dei nostri amici commenterà una delle notizie ritenute rilevanti dall’algoritmo, questa sarà visibile anche nel nostro flusso di status: ciò, senza i recenti sviluppi, non sarebbe potuto accadere.

Per stimolare ancora di più l’interesse degli utenti di Facebook verso i contenuti informativi “di qualità”, il social network ha iniziato a testare anche un sistema che consente di mostrare articoli correlati a ciò che si sta leggendo e il cui contenuto si potrebbe quindi trovare utile.

Un’opportunità da non lasciarsi sfuggire per le redazioni online. In ottobre, dati Facebook, il cosiddetto referral traffic dal social network ai siti informativi è cresciuto in media di oltre il 170%, percentuale triplicata rispetto a quella dello scorso anno.

Facebook si appresta a diventare sempre più “media” e sempre meno “personale”?

UPDATE: leggi anche Facebook sempre più information network [parte 2]

De Correspondent, la proposta olandese per un nuovo giornalismo

Img: gigaom.com

In questi giorni ho avuto modo di conoscere un progetto giornalistico che mi ha davvero colpito per la propria originalità. Si tratta di De Correspondent, start-up olandese che, nata lo scorso settembre (la campagna di comunicazione è in realtà partita alcuni mesi prima, a marzo), è riuscita a raccogliere, grazie alle donazioni di circa 19.000 utenti, la considerevole cifra di 1.7 milioni di dollari.

Di cosa si tratta? Di una piattaforma giornalistica online che punta sull’analisi approfondita di storie che normalmente non trovano spazio – o ne trovano poco – nel mainstream.
Forse la definizione sembra un po’ fumosa ma sta di fatto che il team guidato da Rob Wijnberg (classe ’82!)– che conta su 11 professionisti full-time tra giornalisti, fotografi e grafici, e una 15ina di corrispondenti – può già contare su oltre 20.000 abbonati.

Scorrendo le informazioni riportate nel sito, appare chiaro come la sfida di De Correspondent sia decisamente impegnativa. Al centro dell’iniziativa vi è, infatti, il superamento del concetto di “notizia” come attualmente viene concepito dalle redazioni tradizionali.
La start-up con sede ad Amsterdam, nella sua attività punta alla realizzazioni di “pezzi” che scavino in profondità un determinato argomento senza l’ansia del dover coprire per forza di cose le breaking news. La rilevanza di un fatto, quindi, supera la sua attualità: un modo alternativo di fare giornalismo basato sul fact-checking, capace di trascendere le divisioni con le quali solitamente vengono organizzate le notizie (carattere nazionale, internazionale, di politica, di economia, eccetera), con reportage curati direttamente dalla redazione, e sull’autonomia di giudizio che deriva dalla semplice considerazione che i giornalisti non sono automi ma professionisti con una propria sensibilità che non deve quindi portare a nascondere la sorpresa, le speranze, i timori e gli entusiasmi che derivano dalle loro inchieste, dai loro contributi. Un recupero del lato umano sottolineato anche dall’invito alla partecipazione attiva dei lettori chiamati e a contribuire sui diversi temi trattati dalla redazione non solo economicamente ma in virtù della propria esperienza.

Un progetto for-profit ma il cui modello di business si basa su contenuti da vendere ai lettori non agli advertiser. Abbonamenti e donazioni che saranno la base degli ulteriori sviluppi della piattaforma la cui innovazione sarà finanziata da, almeno, il 20% dei guadagni della testata. De Corrispondent non si avvale della pubblicità e, anche per questo motivo, nella scelta degli argomenti da trattare, previene la necessità di dover, ad esempio, analizzare ciò che un determinato target potrebbe trovare interessante. Come sostegno, chiede 60 euro anno ai propri lettori. E’, a tutti gli effetti, un digital medium e quindi è fruibile su desktop, tablet, smartphone e anche via app. Consente la condivisione di articoli anche ai non iscritti ma con delle precise limitazioni.

Un’iniziativa sicuramente da seguire, un’alternativa all’idea stessa di giornale che in qualche modo, facendo propria la lezione del The Dish di Sullivan, punta sullo sviluppo di una community attorno alle notizie e al superamento del “palinsesto” canonico delle news. Complimenti e in bocca al lupo!

Da free al paywall. E dal paywall all’all-access subscription

Img: jxpaton.wordpress.com

Lo scorso martedì 19 novembre, in uno degli appuntamenti su Second Life di Gate42 (progetto che, per chi non lo conoscesse ancora, invito a seguire, un ringraziamento a @imparafacile per avermi ospitato), ho avuto modo presentare il mio libro parlando dei cambiamenti in atto nel mondo del giornalismo.
Una delle questioni venuta a galla, inevitabilmente, è stata quella legata all’advertising su web e alla sostenibilità del mondo dell’informazione in Rete.

Proprio su questo (delicato) versante, da segnalare una novità firmata John Paton, CEO di Digital First Media, colosso statunitense che gestisce più di 800 attività online/digitali (soprattutto legate a redazioni a carattere locale) in 18 stati americani in grado di far registrare oltre 61 milioni di utenti mese.
In un blog, l’ex direttore del Guardian e di El Pais, spiega le scelte operate presentandole alla forza lavoro della realtà che è chiamato a dirigere ma, chiaramente, pubblicandole su web senza alcun vincolo, le rende note anche a tutti noi “semplici” utenti.

Da un po’ di tempo seguo quello spaccato di quotidianità giornalistica online. Ho potuto così seguire il percorso adottato dal gruppo in merito alla gestione dei contenuti.
Come molte altre realtà legate al mondo dell’informazione, Digital First Media, per 22 suoi quotidiani online prima fruibili in maniera gratuita, successivamente opta per il Paywall. Una scelta dettata dalla necessità di sperimentare più che della consapevolezza di adottare una soluzione valida a lungo periodo. Una modalità per tentare di rendere più stretto il rapporto con i lettori, chiedendo loro di sottoscrivere un abbonamento. I risultati però non sono per nulla soddisfacenti, le cifre, in termini di guadagni, troppo basse. Il gruppo decide così di passare a un Paywall 2.0, una evoluzione di quanto utilizzato in prima istanza strutturata sulla base delle best pratice del settore.
Contemporaneamente avvia in 75 quotidiani un esperimento alternativo al concetto di “pagamento”. Con la collaborazione di Google, nella sezione multimediale Media Center, ogni 10 immagini mostra all’utente un sondaggio al quale è chiamato a rispondere per proseguire la navigazione all’interno del sito. I risultati di quest’ultima iniziativa sono incoraggianti per cui i vertici del gruppo decidono di concentrarsi sullo sviluppo di un Paywall 3.0 che riesca a combinare le due soluzioni in qualcosa di più dinamico, capace di garantire introiti senza ridimensionare troppo il traffico.

A meno di un anno di distanza però, Digital First Media cambia di nuovo rotta. Il guadagni del gruppo sono in crescita (rispetto al 2009, il digital adv è cresciuto, nel 2012, dell’89%) ma la soluzione del paywall, nelle sue diverse versioni, non convince appieno.
L’esperimento con Google, dopo un inizio promettente, perde di efficacia e quindi, un po’ a sorpresa, il gruppo decide di superare, almeno in parte, la strategia del paywall puntando sull’All-Access print-digital subscription: i lettori non registrati alla testata potranno leggere solo alcuni articoli al mese, gli utenti abbonati, invece, avranno accesso all’edizione cartacea, a quella digitale e ai contenuti su mobile.

Stimolante sfida, non resta che restare sintonizzati nel blog di John Paton per conoscere il bilancio di questo nuovo approccio adottato da Digital First Media.

Quando la stampa scopre l’ecommerce

Img: wwd.com

Alcuni giorni fa mi è stato chiesto di commentare la partnership tra Harper’s Bazaar, storico magazine di moda e stile del gruppo Hearst, con l’italiana Yoox (UPDATE: l’intervista è stata pubblicata nel numero di dicembre di AdV). Ho in questo modo potuto approfondire gli aspetti legati al rapporto tra stampa ed ecommerce che, focalizzando la mia attenzione prevalentemente al mondo dei quotidiani, avevo forse tralasciato.

In questi ultimi anni molti sono i gruppi editoriali che hanno deciso di puntare sul commercio elettronico. Condé Nast, tanto per citare un altro esempio, ha investito in due marketplace: Farfetch, spazio che unisce boutique indipendenti e Vestiaire Collective, community dedicata alla vendita online di abiti e accessori di lusso usati.

In ordine di tempo, una delle prime strette collaborazioni tra chi scrive contenuti e chi vende beni su web, è stata quella di Vogue che, per la settimana della moda di New York del settembre 2012, offrì alle proprie lettrici la possibilità di acquistare, attraverso il luxury retailer Moda Operandi, i capi di abbigliamento presentati nelle passerelle.

Altro caso degno di nota è quello di Elle che lo scorso anno ha iniziato a sperimentare il social e-commerce. La redazione presentava alcuni capi “must” della stagione in arrivo, gli utenti potevano interagire con in contenuti scegliendo tra “Love”, “Want”, “Own” o, più sotto, “Buy”.

In realtà, scandagliando la Rete ho trovato anche qualcosa di relativo ai quotidiani. L’autorevole Washington Street Journal ha, infatti, da alcuni giorni lanciato un proprio canale ecommerce. Si chiama The Shops, un sito di vendita online di prodotti di lusso sponsorizzato da Capital One (e dalla sua carta di credito). Tutto torna. O quasi. Perché poi, in fondo alla pagina, un riquadro magenta sottolinea come il sito operi in maniera indipendente dalla redazione del quotidiano finanziario.

L’editoria in crisi sperimenta nuove soluzioni – che alle volte si allontanano dal core business delle news – alla ricerca di modelli economici alternativi.
Se per la stampa l’ecommerce possa rappresentare una interessante fonte di reddito forse è troppo presto per dirlo. In ogni caso, da lettore, mi auguro che ciò avvenga in maniera trasparente salvaguardando la distinzione tra contenuto informativo e pubblicitario.

Promuovere gli ebook, il mio intervento su #nepare

Nella giornata di ieri ho avuto l’onore di partecipare, in qualità di relatore, al primo corso dedicato agli editori digitali promosso da Simplicissimus Book Farm. Un intervento, a chiusura della giornata di formazione dedicata agli ebook, che mi ha dato modo di raccontare alcune delle iniziative da me attivate nella Rete a supporto di News(paper) Revolution.

Una semplice carrellata di suggerimenti (non volevo certo infierire dopo ore e ore di attenzione massima) che mi sono sentito di condividere nella mia duplice veste di autore e di “stratega” della promozione online del libro. Immagino non sia una situazione usuale, ma in virtù della mia esperienza con web e social media, l’editore (Fausto Lupetti che ringrazio per avermi messo in contatto con gli organizzatori del corso), al momento del lancio del saggio, mi ha lasciato carta bianca offrendomi massima libertà di azione.

Quando gli investimenti pubblicitari sono di tasca propria e si utilizzano per “spingere” il frutto del proprio lavoro, di ore passate davanti alla schermo di un computer, la responsabilità insita nella sfida di utilizzare al meglio le poche risorse disponibili è ancora più sentita.

La promozione del libro continua (il prossimo 19 novembre presenterò il testo su Second Life) ma, dopo alcuni mesi dall’uscita, era forse tempo di stilare un primo bilancio. La presentazione, in questo senso, è stata una buona occasione per vagliare aspettative, difficoltà incontrare, miglioramenti apportati in corsa e nuove nozioni apprese.

Non si tratta di soluzioni tecniche che garantiscono il successo, ma di 6 semplici step che rappresentano l’approccio al web che mi sento di consigliare.

Ringraziando ancora una volta chi mi ha dato modo di parlare della mia esperienza (e, di riflesso, del mio libro), resto a disposizione per eventuali curiosità o suggerimenti.

[update: l’intervento di cui sopra è diventato un ebook, Web Marketing: questione di metodo]

New York Times Company, crescono i profitti. Ma non grazie all’adv.

nyt_3rdquarter_13Ultimamente ho focalizzato la mia attenzione su alcune redazioni locali statunitensi e sul loro approccio alla crisi della stampa. Con questo post, invece, torno ad occuparmi di uno dei colossi del giornalismo a stelle e strisce. Sono infatti stati resi noti i dati relativi al terzo quarter del 2013 di The New York Times Company. Le cifre pubblicate permettono di avere un’idea sullo stato di salute di una delle aziende più importanti al mondo nel panorama dei media.
Il primo dato è quello che, rispetto allo stesso periodo del 2012, i profitti sono in aumento: dagli 8.9 si è passati quest’anno ai 12.9 milioni di dollari, una crescita che, al netto della svalutazione, dell’ammortamento e di alcune liquidazioni di fine rapporto, è stimata attorno al 35%.
Nel terzo quarter del 2013 il totale delle entrate è aumentato del 1.8%, 4.8% se considerata la sola distribuzione. Da notare come, proprio per quel che concerne la diffusione dei giornali, i guadagni crescano sia per il comparto digitale sia per quello della stampa classica nonostante quest’ultima registri un calo delle vendite. La diminuzione del numero di copie cartacee acquistate è stato infatti bilanciata da un aumento del prezzo del quotidiano.

I guadagni provenienti degli abbonamenti digitali ammontano, nel terzo quarter del 2013, a 37.7 milioni di dollari, +29% rispetto allo stesso periodo del 2012. Se l’analisi si allarga ai primi nove mesi del 2013, la percentuale rispetto allo scorso anno sale al 42.4.

Il numero delle iscrizioni digitali continua ad aumentare attestandosi, per quel che concerne New York Times e Herald Tribune, a circa 727.000, il 29% in più rispetto al medesimo periodo del 2012.

Nell’insieme di cifre in progresso è però da notare la frenata degli introiti derivanti dalla pubblicità. Se il -1.6% dei guadagni da adv cartaceo era quantomeno prevedibile, il -3.4% dell’adv online rispetto al 2012 fa sicuramente riflettere. I guadagni da adv digitali, rispetto al totale delle revenue pubblicitarie del gruppo, scendono a 23.8% rispetto al 24.1% dello scorso anno. In realtà è da inizio anno che le entrate pubblicitarie sembrano soffrire: considerando i primi nove mesi del 2013 rispetto a quelli del 2012, l’adv digitale registra un -7.3%, quello a stampa un -3.2%.

In sostanza, da quanto emerge, il The New York Times Company si dimostra ancora una volta un gruppo solido e in salute. Con il progressivo abbassamento dei costi in atto e la parallela crescita dei profitti, il colosso statunitense sta affrontando al meglio le sfide che le testate giornalistiche sono chiamate oggi ad affrontare.

Il fatto che gli introiti pubblicitari, digitali o a stampa, non riescano a tornare a crescere, risulta, in estrema sintesi, un “monito” per tutte le testate: ad oggi, preferibile puntare sui contenuti (e, in generale, sulle iniziative volte a migliorare il rapporto con i lettori) piuttosto che sulla pubblicità che questi possono veicolare.