Poetry, gli scorci poetici di Chang-dong

I film coreani mi affascinano anche (e forse soprattutto) perché non riesco mai a capirli appieno, c’è sempre qualcosa, qualche particolare, qualche messaggio, che sfugge alla mia comprensione. Non tutto ai miei occhi appare avere un senso e questa mancanza di logicità a tutto tondo mi appaga.
Fatta questa premessa, appena ho saputo della proiezione di Poetry al tradizionale cinema all’aperto estivo, non ho saputo resistere.
Il film – opera di Lee Chang-dong premiata a Cannes – ha come protagonista Mija, un’anziana signora che, divisa tra un lavoro part time come badante e la cura del nipote, riscopre una delle sue passioni giovanili, la poesia, iscrivendosi a un corso per provetti poeti.
La vita tranquilla della signora viene però sconvolta da due avvenimenti improvvisi che ne scuotono le giornate e che riesce ad affrontare proprio grazie al proprio nuovo hobby. Anche se inizialmente non trova un metodo per riportare su carta i propri sentimenti, le proprie emozioni (forse troppo a lungo sopite), Mija alla fine risulta in grado di dar voce a quello che molti, parlando della pellicola, hanno chiamato l’invisibile (non voglio svelare troppo circa la trama e i suoi risvolti).
La particolarità del film che più ho apprezzato è stata quella relativa al completo rovesciamento delle parti tra nonna e nipote rispetto alle mie aspettative: la prima molto è più “ingenuamente pura” la cui vita è dettata da continui gesti d’amore e di apprezzamento (nei confronti degli altri, della natura, della vita in generale), il secondo invece, burbero, e menefreghista, sospeso tra la tv, il computer e i propri amici, pare capace di apprezzare solo ciò che è immediato e l’effimero.
Per la protagonista del film non si può che provare simpatia e al contempo tenerezza: una donna fragile, sola ad affrontare una vita difficile, gli acciacchi dell’età che avanza e che si trova ad accudire un nipote con il quale non riesce ad instaurare un dialogo. E che proprio grazie alla poesia riscopre la riflessione e quel “non dare mai per scontato” che le permette di accettare e superare le avversità quasi i versi siano un modo di vedere e assaporare la vita nonostante il dolore che essa spesso può procurare. Un film semplice ma che anche grazie all’ottima interpretazione di Yu Junghee e alla delicata regia di Chang-dong regala emozionanti scorci… di poesia.

In viaggio. In quella poesia chiamata mondo.

Questo blog non ha un seguito così elevato. Ma l’idea di dare spazio a progetti interessanti legati al web e alla comunicazione resta comunque una delle sue prerogative. Ecco perchè nel momento in cui ho conosciuto Viagginversi mi è venuto quasi spontaneo porre alcune domande a Valeria Gentile,
i testi e le foto dietro la bella iniziativa itinerante che invito tutti a scoprire (e magari anche a supportare).

Come e da cosa nasce Viagginversi?

Viagginversi nasce da un pensiero libero su una spiaggia vuota di fine settembre 2010. E’ un progetto che unisce tutte le mie più grandi passioni: il viaggio, la poesia, il reportage, la fotografia, l’antropologia. Viagginversi, reportage itinerante sulle tracce dei nuovi poeti, vuole essere contemporaneamente sito internet con racconto a puntate, libro con illustrazioni, mostra fotografica itinerante, spettacolo teatrale, cd con letture e musiche dal mondo. E’ un progetto completamente autofinanziato e i primi tre capitoli (Libano, Giappone e Cina) sono consultabili gratuitamente sul sito. Sono partita da sola, affidandomi spesso a strepitose amicizie che negli anni ho nutrito miracolosamente un po’ ovunque nel mondo.

Viaggi e poesia: cosa unisce questi due mondi?

Ogni poesia è un viaggio. Un viaggio lento, impegnato, attraverso i meandri delle metafore e nelle viscere del nostro inconscio. Nello stesso tempo, ogni viaggio è una poesia. Perché è un movimento tortuoso e faticoso che parte da un punto conosciuto (la casa, la parola) e arriva agli estremi più lontani delle nostre esistenze possibili (la meta, l’espressione).

Che tipo di viaggiatrice sei?

Chi mi conosce ti direbbe che sono una viaggiatrice assorta, io ti direi istintiva. preferisco girare da sola e sentire sulla mia pelle ogni minimo dettaglio che quella terra può offrire, possibilmente senza programmare molto le tappe e le mete, andando a istinto, perdendomi anche, lasciandomi sorprendere dai percorsi della vita e incontrando persone locali sul mio tragitto.

Quali i libri sul tuo comodino in questo momento?

Scrivere è un tic di Francesco Piccolo, Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, Il bene ostinato di Paolo Rumiz, L’Odissea, Psicomagia di Alejandro Jodorowsky, il libro del poeta palestinese Husam Alsabe e uno sulla poesia satirica in Sardegna.

Quali gli sviluppi futuri del tuo progetto?

Il prossimo capitolo è dedicato alla Palestina, dove sarò dal 5 al 20 di agosto col supporto di un’associazione umanitaria, per la quale curerò la sezione poetico-letteraria del programma di cooperazione allo sviluppo. A metà ottobre Viagginversi farà una visita al quartiere San Lorenzo a Roma, con l’appuntamento “Music, Books & Food”, aperitivo culturale proposto da Ghigliottina.it e Soul Kitchen.
Essendo un progetto completamente autofinanziato è fondamentale il contributo di tutti: sul sito è possibile fare una donazione, ricaricando una postepay o con bonifico da Iban o tramite PayPal.

Tantissimi complimenti e, alla vigilia di una nuova tappa, in bocca al lupo e ovviamente buon viaggio, Valeria! Non ci resta che rimanere in trepidante attesa di scoprire, tramite parole e immagini, terre lontane verso le quali vorremmo – almeno personalmente – partire all’istante.

[update: Viagginversi è diventato un libro edito da Exorma Edizioni, nelle librerie dal 13 maggio 2015]

 

La storia di Facebook. Raccontata da Kirkpatrick.

Il libro Miliardari per caso (e poi il sucessivo film The Social Network) ha presentato al grande pubblico una determinata versione di Mark Zuckerberg.

Non ho la fortuna di conoscere personalmente Mark ma credo che i media non corso di questi anni abbiano probabilmente proposto la parte di Zuckerberg che più strizza l’occhio ai caratteri ticipi dei personaggi “da cinema”: astuto, spietato, smanioso di successo è stato dipinto un po’ come una simpatica canaglia, stravagante nei modi quanto determinato nel credere in un progetto che sta rivoluzionando l’idea stessa di web.

Ma ciò non mi bastava, volevo scavare più a fondo nella storia del fondatore di Facebook per capire cosa ci fosse alla base del progetto, quali fossero state le fasi salienti della sua ascesa e – se possibile – quali gli scenari futuri.

Pensavo la mia fosse un’esigenza esagerata ma fortunatamente, grazie a Luca Conti, ho avuto modo di conoscere (dal vivo, con tanto di autografo!) David Kirkpatrick che con il suo Facebook la storia – Mark Zuckerberg e la sfida di una generazione, ha raccontato la “vera” storia dietro il social network più famoso (qui un’anteprima del libro). Vera perchè basata su interviste, racconti, aneddoti verificati, tutti riportati con dovizia di particolari e sfumature che permettono davvero di capire come dietro Facebook non ci sia banalmente un’azienda e il suo amministratore delegato ma milioni di utenti uniti da una precisa visione del mondo.

Una lettura davvero appassionante che parte Harvard e arriva a Wall Street seguendo le tracce di un ragazzino che all’età di diciannove anni fonda una delle startup di maggior successo della storia. Le pagine scorrono e pian piano si delinea in maniera più nitida il progetto Facebbok e non si possono che apprezzare la caparbietà e la determinazione con le quali Mark ha rifiutato facili compromessi puntando inizialmente tutto sulla crescita a discapito del profitto.
Con un unico obiettivo: trasformare, semplificando, le interazioni sociali e in generale la comunicazione online.

Alcune parti mi hanno davvero lasciato a bocca aperta: gli inizi, poi Palo Alto, gli investitori, gli utenti che continuano a crescere, la privacy, l’advertising, la rivalità con Google, il rapporto con Microsoft, le prime critiche, i cambi di personale, tutta una serie di accadimenti che rendono lo stardinario successo di Facebook e del suo fondatore quasi astratti.

L’uomo, l’impresa, il successo recita il libro in copertina. Bello e avvincente complimenti davvero, lettura consigliatissima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le lezioni di Schweppes per migliorare l’appeal della propria voce

Uno dei miei sogni nel cassetto è quello di diventare un doppiatore. Ho sempre pensato che doppiare un film fosse, facendolo bene, in fondo come recitare. Solo, dietro un microfono. Certo dovrei seguire un po’ di lezioni di dizione, ad oggi forse mi potrei proporre solo per il ruolo di voce di Carl Carlson dei Simpons.
Ma fortunatamente ho trovato online qualcosa che può aiutarmi a fare un po’ di pratica. Si tratta dell’applicazione facebook Improve your Schweppes appeal. Una divertente serie di lezioni per migliorare il fascino della propria voce e attirare le persone come “api al miele”.
Accesa la webcam e attivato il microfono bisognerà dimostrare passione e tecnica per superare brillantemente i tre livelli (oltre il test iniziale) che portano al fatidico punteggio finale. Le prove sono più complicate di quanto sembrino all’apparenza. Per carità nulla di impossibile ma si vuole puntare ad una alta percentuale complessiva occorre porre molta attenzione a tono e ritmo della propria parlata.
Al countdown infatti dovremmo ripetere la frase il nostro “mentore” – Guy Gadbois – facendo in modo che la vostra voce segua quanto più possibile i grafici indicati.

La prima delle tre prove per quanto mi riguarda risulta la più ostica, quella che più pregiudica il mio risultato finale. Mi incarto sempre nella parte iniziale della frase e finisco per guadagnarmi un bel “deprimente” (non esattamente la sensualità del rumore dello stappo di una bottiglietta Schweppes).
Ma poi mi riprendo e nonostante tutto alla fine bene o male riesco comunque a diventare la secondo persona più Schweppesy del mondo. Almeno secondo il mio insegnate (mi pare quasi di dover doppiare Il discorso del re, ecco qui sotto il video introduttivo dell’iniziativa).

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=nFYyKyZ7Olo&w=440&h=390]

Un’applicazione simpatica con la quale giocare a sfidare i propri amici e scoprire in che misura la nostra voce possa essere considerata un’arma di seduzione. Personalmente al primo tentativo ho raggiunto quota 58%, vetta superata di pochissimo (59%) nonostante i successivi tentativi. E voi?

Articolo sponsorizzato

 

 

 

 

Spotify, un (nuovo) mondo di musica

E’ di pochi giorni fa la notizia dello sbarco di Spotify negli Stati Uniti grazie ad un accordo con le quattro grandi etichette Universal, Warner, EMI e Sony. L’informazione forse qui da noi non ha avuto molta rilevanza ma a mio modo di vedere è quanto mai degna di nota.

Cos’è Spotify? Il sito ufficiale lo annuncia come una libreria, all-the-music-all-the-time, di oltre 15 milioni di tracce utilizzabile da PC, Mac, da mobile senza bisogno di dowload o di spazio nell’HD (nella versione premium si può anche connettere all’impianto audio di casa attraverso la digital tv). Si tratta semplicemente di registarsi, creare un account e poi condividere liberamente – connettendo ad esempio Spotify con Facebook, qui si parla di un accordo da parecchi milioni di dollari, Sean Parker ex di Napster e Facebook non a caso è board member della società – la propria musica preferita.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=CvYX_P_c__8&w=440&h=390]

Con Spotify si possono creare playlist, creare top list, librerie, comprare musica, accedere al proprio account (e quindi alla propria musica) da qualsiasi computer connesso alla Rete, scoprire nuovi artisti. L’aspetto social è notevolmente spinto: con un click è possibile condividere con i propri amici le nostre tracce (il servizio consente anche l’import dei nostri contatti su facebook) scoprendo anche chi poi ha deciso di ascoltare la nostra playlist.

Spotify ha anche la possilibità, nella sezione “local music”, di caricare i brani della propria collezione di mp3 e, nella versione premium, di ascoltarli anche tramite smartphone (installata l’applicazione lo scambio dei local file tra cellulari via wifi è invece gratuito).

Semplificando, quindi, si tratta di un software – nato in Svezia e lanciato nel febbraio 2009 in Inghilterra – per l’ascolto di musica digitale in streaming peer-to-peer.

Cos’ha di nuovo? Per ascoltare non è necessario l’acquisto.

Il servizio si può usufruire secondo tre modalità: la free che permette di ascoltare delle tracce intervallate da interruzioni pubblicitarie (oggi ad invito) per un massimo di 10 ore mensili (e cinque ascolti per traccia), la unlimited che, previa abbonamento, permette di ascoltare musica illimitata su desktop, e premium anche consente di ascoltare la propria musica preferita anche su dispositivi mobili (5 e 10 dollari mensili i costi).

Il costo degli abbonamenti ad oggi è leggermente più alto rispetto ad iTunes ma la possibilità di accedere ad ogni traccia del vastissimo database di Spotify potrebbe attrarre molti utenti.

E in Italia? Ancora nulla (se non utilizzando espedienti, ai limiti del lecito, per “ingannare” il sistema), per il momento non ci resta che iscriverci a gruppi su facebook tipo We want SPOTIFY in Italy too.

Spotify potrà contribuire a salvare la musica dalla pirateria? I numeri sembrano incoraggianti, sono già 10 miliomi gli utenti registrati (anche se pare che l’aver ridotto da 20 a 10 le ore per mese le ore di libero ascolto abbia ridotto il numero di utilizzatori prima del grande sbarco in America) e molti solo coloro che hanno espresso elogi sul servizio (anche se ovviamente non convince tutti, ecco un articolo non proprio positivo circa il servizio by HBR).

Tra i primi, Billy Corgan ha così scritto su twitter (offrendo anche inviti a Spotify):

I support Spotify for the same reason I supported Napster back in the day! Visionary music models that encourge sharing and artist loyalty. As as artist I believe very deeply that when fans connect with the overall quality and intigrity in ALL our music we prosper, poseurs lose. Loyal fans means new opportunities, new ways of interacting, new partnership in technology and the arts. Freedom from music biz bs.”

L’impresa non è semplice. Ma… in music we trust!

 

 

 

 

 

 

 

Interno Rosso, una sitcom in casa Ducati

La scorsa settimana ha avuto il piacere di essere sul set di Interno Rosso, la fiction nata per il web dalla collaborazione tra Ducati e Tim. Un’emozione davvero grande: vuoi perchè la sede è proprio quella di Borgo Panigale, storica roccaforte Ducati (con tanto di museo che anche se di fretta sono riuscito a visitare), vuoi perchè mi sono sentito come dentro Boris, fianco a fianco ad attori, tecnici della luce, dell’audio, del regista, dello sceneggiatore, della ragazza del trucco. Vivendo non solo il momento sucessivo al ciak ma anche tutte quelle operazioni che poi consentono di far partire le riprese, dal buffet alla revisione sul set del copione (ho tentato di fare una cronaca su twitter della giornata utilizzando #internorosso ma sul set il cellulare non era permesso).

Dopo la pausa pranzo, prima dell’inizio delle riprese, ho strappato anche una piaccola intervista…

Mi chiamo Angelo Camba, sono il regista di Interno Rosso la sitcom a camera fissa fatta di sketch che ha per protagonisti due meccanici burloni, cognati, che lavorano nelle ufficine Ducati e che fanno dei pasticci tutto il giorno. Uno – Bob – sogna di essere uno dei meccanici della squadra corse e l’altro – Marco – lo riporta, invece, sempre con i piedi per terra.

Interno Rosso nasce all’interno di un programma di sponsorizzazione della Ducati da parte di Telecom ed ha l’obiettivo di raccontare in chiave ironica il mondo di casa Borgo Panigale. Nonostante il momento non brillantissimo del reparto corse, la casa motociclistica vuole comuque tenere alto l’umore dei propri fan.

I video vengono pubblicati su tutti i canali social di Tim con una buona risposta di pubblico anche se non ancora di “massa” ma legata soprattutto agli appassionati di moto in generale e a ducatisti in particolare.

…e ho “rubato” anche un brevissima anteprima del nuovo episosio 8…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=dNjVr2M_zm0&w=440&h=390]

Un ringraziamento a tutto lo staff di professionisti (nonostante si rida spesso sul set, il lavoro è realizzato con estrema cura e dedizione) che ho incontrato, gentilissimo e disponibile anche quando forse sono stato un po’ di intrancio. E a Ducati e Tim per l’ospitalità.

Un grossissimo in bocca al lupo al progetto, non posso che attendere con trepidazione la messa online dei nuoi capitoli (un saluto anche ai miei compagni di ventura sportzoo e npmagazine).

 

The Fighter(s)…

Sono un appassionato di film che hanno nella sfida fisica il perno delle vicende attorno alle quali si muovono i protagonisti. Ecco perchè appena uscito il DVD di The Fighter – titoto distribuito dalla Eagle Pictures che mi sono inspiegabilmente perso al cinema – ho fatto di tutto per riuscire a vederlo quanto prima. Nel piccolo paesino di Lowell la celebrità è Richard “Dicky” Eklund (un bravissimo quanto trasformista nel fisico Christian Bale, non a caso premio Oscar), un atleta entrato nella storia non tanto per aver conquistato un titolo Welter New England ma per aver mandato al tappeto il mitico Sugar Ray Leonard (perdendo comunque l’incontro), uno dei pugili più forti di tutti i tempi.
All’ombra del fratellastro, cresce Micky “Irish” Ward il quale, dopo un inizio promettente, inanella quattro sconfitte consecutive e quindi decide di prendersi una pausa dalla boxe lavorando come operaio addetto al rifacimento dell’asfalto stradale.
Inizia per lui un periodo davvero difficile: agli insuccessi nello sport si aggiungono i non semplici rapporti con la madre-manager e con il fratello-allenatore incapace di liberarsi dalla dipendenza dal crack. Ma malgrado tutto, dopo un periodo di apatia, Micky decide di iniziare nuovamente ad allenarsi supportato da un nuovo team con il quale prende le distanze dalla famiglia. E pian piano, con il lavoro e la disciplina, i successi e le soddisfazioni tornano. Ma con loro si rivede anche il fratello, ricco di consigli ma prima della alle volte decisamente non professionale nei propri atteggiamenti dentro e fuori la palestra.
E così, quasi improvvisamente, tutti i principali personaggi si trovano a un bivio: quale strada scegliere, quale percorso intraprendere per affrontare con orgoglio le nuove sfide e per ambire a quel successo per il quale ci si è tanto impegnati?
Un bel film quello di David O. Russel (inizialmente il progetto era stato assegnato all’Aronofsky di The Wrestler) che, ispirandosi a una storia vera, racconta, in definitiva, le difficoltà del trovare i giusti compromessi che ci permettano di gestire al meglio ogni diverso ambito della nostra vita (tra salite e discese).
Belli anche i contenuti extra che permettono di scoprire i “veri” personaggi e i loro alter ego nel film, oltre che scoprire particolari informazioni circa gli attori (una su tutte: Mark Wahlberg per essere quanto più credibile si è fatto costruire un ring nel quale si è allenato per quattro anni) e le scelte sul set.

Altra riflessione sulla teoria dei mille veri fan…

In occasione del Social Business Forum, nella sessione pomeridiana, è continuato un interessantissimo confronto iniziato dalla riflessione di minimarketing che, alla vigilia dell’incontro, si chiedeva se non fosse ancora valida la teoria secondo la quale sono sufficienti 1.000 fan “veri” piuttosto che cifre enormi di utenti inerti-inutili-indifferenti e se quindi la metrica “delle masse di spettatori” non venisse in qualche modo superata negli ambienti sociali a rete (spero di aver colto nel segno, ecco comunque qui il link dal quale leggere per intero il post di Gianluca).

Al Social Business Forum ero solo spettatore ma tenterò comunque di dare una mia risposta. E lo farò basandomi su due ricerche che ho recentemente letto che ben riassumono l’idea che in questi anni mi sono fatto.
Partiamo dal presupposto che avere 1000 fan tutti pronti a “fare qualcosa per noi” è indubbiamente un traguardo più che considerevole. Ma a mio modo di vedere per avere quella cifra di fan attivi occorre averne in realtà molto di più. Perchè? Perchè, banalmente, gli utenti non hanno tutti la stessa modalità di fruizione dei contenuti e perchè non tutti per dimostrare il loro interesse verso un contenuto interagiscono. E’ in qualche modo fisiologico che vi siano utenti attivi, meno attivi, per nulla attivi.

E qui mi viene in aiuto uno studio recentemente pubblicato dal WOMMA:

There is a 100/10/1 “rule of thumb” with socail services. 1% will create content, 10% will engage with it, and 100% will consume it” Fred Wilson

Ora, tralasciando per un attimo le percentuali, il concetto che mi sembra interessante è quello che la stragrande maggioranza di persone normalmente non partecipa attivamente alle conversazioni ma si limita a osservarle. Anche perchè ci sono strumenti – Twitter e Tumblr su tutti – che rendono possibile la fruizione dei contenuti senze necessità di log-in.
Quindi, in sostanza, se la teoria di sopra dovesse essere esatta, dati 1.000 fan che con un brand interagiscono, quelli totali dovrebbero essere 10.000 (una semplice proporzione: 100*1000/10).

Altra ricerca, stavolta decisamente più bizzarra ma che comunque può servire come spunto di riflessione. Una società chiamata Hitwise ha recentemente pubblicato uno studio in base al quale 1 fan di Facebook corrisponda a 20 visite addizionali al sito del brand:

The figure of 1 fan = 20 extra visits to a website uses a unique methodology that combines Hitwise data with data from social media experts Techlightenment. We took the top 100 retailers ranked in the Hitwise Shopping and Classifieds category and benchmarked visits to those website against the number of fans those brands had on their Facebook page. We then also looked at the propensity for people to search for those retail brands after a visit to Facebook using our Search Sequence tool…

Mi rendo conto di come la teoria, pur basata su “osservazioni empiriche” sia forse difficile da sostere ma anche in questo caso il punto focale mi pare un altro: e se anche i fan “latenti” (o almeno parte di essi) avessero una loro importanza strategica al di fuori del mondo social? Penso alla mia esperienza. Su facebook seguo pochi band e alcune celebrità. Una di queste è Kevin Spacey. In questa pagina, lo ammetto, sono all’apparenza forse “inutile” come direbbe Gianluca: non commento, non metto like, non faccio lo share. Ma leggo. E se qualcosa mi interessa – la partecipazione a un nuovo film o a una nuova opera teatrale – magari cerco di approfondire. E alle volte lo faccio fuori da facebook che mi serve solo come “spunto”.

I social media si basano su persone, su rapporti anche se virtuali. Ma come nella vita “reale” ognuno ha una propria inclinazione: chi sarà più propenso a proporre contenuti, chi a commentarli, chi a controbattere, chi semplicemente ad ascoltare. Anche perchè non si tratta di posizioni “assolute”: un “vero fan” dopo un disguido potrebbe oscurasi. O peggio smettere di essere fan. Così come un utente “passivo” potrebbe di colpo svegliarsi interagendo in maniera continuativa.

Concludo: il vero problema non è a mio parere il numero di fan (più alto il numero di fan, più alto il numero di “veri fan”, no?) che sicuramente non deve essere il solo e unico metro di giudizio. Occorre comprendere piuttosto quanto sia importante lavorare sul cosiddetto interaction rate e quanto possa essere proficuo impegnarsi perchè il rapporto utenti/utenti attivi sia sempre migliore. E’ lo scambio – a più livelli – che rende costruttive le conversazioni. La provocazione ci sta ma non mi scaglierei contro il miraggio dei milioni di fan. Brand come adidas, Vodafone, o Kia non possono accontentarsi di 1000 fan “veri”. Devono puntare a numeri ben più grandi mettendosi in gioco e utilizzando gli strumenti per fare in modo che tutti partecipino attivamente. Con un unico obiettivo: che tutti i consumatori diventino “veri fan”.

Il vero lusso è il tempo

Ho conosciuto Helen Nonini non molto tempo fa. E sono subito rimasto colpito dalla particolarità della sua persona (ecco una delle sue ultime videointerviste). Ecco perchè quando poi ho saputo che di lì a poco avrebbe pubblicato un libro – da lei scritto e “interpretato” – mi sono subito impegnato per recuperarne un copia.
Professione Problem Solver, questo il titolo dell’opera prima di Helen, racconta le avventure lavorative (e non) di H., un’affascinante quanto elengante donna chiamata ad assecondare in maniera pressochè immediata le richieste di aiuto più disparate (alle volte veri e propri capricci, dalla richiesta di cibi esotici al desiderio di partecipare a eventi esclusivi) che clienti da tutto il mondo le sottopongono via BlackBerry. Insomma la versione femminile del Winston Wolf di tarantiniana memoria. Un lavoro cinico, senza orari prestabili, sempre diverso, basato sulla dimestichezza con il web e la “cura” delle relazioni di persone che, ognuna a suo modo, possono rappresentare la giusta chiave per risolvere un problema.
La cosa divertente del libro è però il paradosso che si rivela scorrendo le pagine: il problem solver, persona votata alla risoluzione dei problemi altrui, riuscirà a trovare valide soluzioni anche per superare dubbi e difficoltà della propria vita?
Professione problem solver si legge tutto d’un fiato e, nella scrittura a mio parere restituisce appieno la schematicità, l’essere “minimal” e senza fronzoli tipici di un perfetto problem solver. Un testo che è anche lo specchio delle “stranezze” del nostro tempo legate soprattutto al mondo del lusso e alle sue manie, al continuo bisogno di “stupire” che lo alimenta dall’interno. E al perenne di bisogno di risparmiare tempo. Complimenti!

Le Gru, tra shopping e musica

Dopo il risultato delle elezioni amministrative e dei referendum in molti centri abitati si è (finalmente) tornati a discutere dello sviluppo del territorio e di come sia possibile armonizzare ambiente e urbanizzazione. Da questo punto di vista un esempio costruttivo arriva dalla provincia di Torino: shopville LE GRU. La realtà di Grugliasco non è solo un centro commerciale (con personal shopping, styling e gifting). E’ infatti uno spazio che comprende 180 esercizi commerciali (tra i quali anche un benzinaio!) e 24 fra bar, ristoranti e fast food ma è anche un’area polifunzionale utilizzata per eventi culturali e di intrattenimento. Iniziative a sfondo sociale, incontri con le scuole e gli enti locali, laboratori per bambini (Grulandia, il parco di divertimenti per i più piccoli con tanto di sale nelle quali festeggiare il proprio compleanno con gli amichetti) trovano così un unico spazio nel quale aggregare persone di diverse età e passioni.

L’area eventi è però nota agli appassionati di musica soprattutto per GruVillage, il palcoscenico che ogni estate vede esibirsi artisti internazionali.

Quest’anno, per gli amanti dell’indie e del rock, da non perdere l’unica data italiana dei Ok Go (quelli del video tormentone sui tapis roulant) mercoledì 20 giugno. Anche la data del concerto di Peter Hook, bassista e colonna prima dei Joy Division poi dei New Order (ma anche dei forse meno noti Revenge e Monaco) mi intraga molto. Da poco è uscito il disco del progetto The Light dal titolo 1102/2011 un EP di cover della band inglese e non nascondo mi piacerebbe molto ascoltare le riletture di brani quali Atmosphere, New Dawn Fades e Insight.

Tornando al centro Le Gru – dodato anche di propria stazione radio disponibile anche in streaming – forse l’unico aspetto per rendere lo shopping center ancora più accattivante potrebbe essere quello di impegnarsi sul fronte del risparmio energetico e sull’utilizzo di tecnologie a basso impatto ambientale – come, ad esempio, dei pannelli solari – per così sensibilizzare i consumatori e diventare ancora di più un punto di riferimento per la comunità.

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