L’ascesa di TikTok sulla scia di Snapchat

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L’applicazione del momento, la più chiacchierata, è senza alcun dubbio TikTok.
Lanciata nel 2017 – anno nel quale acquisisce Musical.ly – la social-video-app made in China sta riscontrando un notevole successo soprattutto tra i giovanissimi. Ad oggi è presente in 150 Paesi, è tradotta in 75 lingue ed è diventata una delle piattaforme preferite per esprimersi creando e condividendo contenuti direttamente dal proprio smartphone (in Italia l’arrivo della app è datato novembre 2018). Lo strumento di editing è infatti davvero semplice e consente a chiunque, con immediatezza, di dare sfogo alla propria creatività (creatività stimolata dalle cosiddette challenge, sfide interattive che invitano la community ad esprimersi, ecco un esempio nostrano firmato Condé Nast).

L’ascesa di TikTok per molti versi ricorda quella di Snapchat. Benché, come più di qualcuno ha fatto notare, sia forse da considerare Vine il vero precursore di TikTok, molto probabilmente la social-video-app si appresta a diventare uno dei canali utilizzati dai candidati alle presidenziali USA per strizzare l’occhio all’elettorato più giovane, esattamente come fece dal 2015 Snapchat (anche se, è bene sottolinearlo, ad oggi gran parte del pubblico di riferimento di TikTok non è in età per il voto).
Non è un caso, quindi, che il Washingtong Post, una delle testate più propense alla sperimentazione, lo scorso maggio abbia lanciato il proprio profilo nella app per raccontare con stile personalissimo  la politica e, in generale, la quotidianità della redazione (la bio del profilo racconta già molto dell’approccio del giornale: newspapers are like ipads but on paper).

I follower, in pochi mesi, hanno già superato i 300mila facendo registrare otlre 15milioni di like.

A differenza del Discover di Snapchat, però, il lato informativo su TikTok è al momento davvero residuale. I contenuti sono pensati per intrattenere il giovane pubblico – con lo stile che richiama quello delle sitcom per teenager – più che per fornirgli le chiavi di lettura del mondo. Sono ideati per trasmettere l’autorevolezza del WaPo umanizzandolo, rendendolo meno austero – grazie alla musica che accompagna gran parte dei clip – e al contempo più trasparente, più che per strappare nell’immediato nuovi lettori.

In un’interessante intervista a Dave Jorgenson, a “capo” per il Washington Post del progetto TikTok ha raccontato come per lui (28enne) siano stati necessari 2 mesi di studio della piattaforma per capirne le peculiarità, il linguaggio, le aspettative degli utenti e l’uso che questi ne fanno.
Ha spiegato poi come in media siano necessarie quattro ore per produrre un contenuto destinato alla social-video-app, considerando anche i 30 minuti post pubblicazione dedicati dal team TikTok WaPo all’interazione con gli utenti mediante la risposta ai loro commenti.

Quali saranno gli sviluppi di TikTok difficile dirlo. La notizia della sperimentazione in Brasile di Reels, la risposta di Instagram ai video-mixati della app cinese è però misura del successo del “formato” TikTok ed ennesima conferma dell’interesse di Zuckerberg per le nuov(issim)e generazioni di utenti.

Le storie più che le notizie salveranno il giornalismo?

Alcune settimane orsono, il Washington Post ha lanciato Storyline, una nuova iniziativa editoriale che propone su web il giornalismo narrativo alla Truman Capote.
In estrema sintesi, si tratta di raccontare storie (spesso legate ad un singolo individuo) attraverso le quali semplificare temi complessi. Non necessariamente fatti legati alle breaking news, le analisi approfondiscono una questione di pubblico interesse con frasi semplici, tono accessibile e precise spiegazioni di tutti i concetti espressi. Pezzi che sin dal titolo si pongono come obiettivo quello di trovare la risposta a una precisa domanda, superando lo sterile dibattito della politica e della finanza e preferendo concentrarsi – anche grazie a materiale multimediale e tabelle di dati – sull’impatto di una determinata questione nella vita di tutti i giorni delle persone. Storie che non si esauriscono nella pubblicazione dell’articolo ma che, nel corso delle settimane, seguono gli sviluppi della vicenda segnalata.

Il progetto, annunciato lo scorso gennaio, ha avuto il via ufficiale a fine luglio sotto l’egida di Jim Tankersley, giornalista economico del giornale. Proseguendo la strada già intrapresa dal New York Times con The Upshot e da ESPN con Five Thirthy Eight, è stato dallo stesso Tankersley così presentato:

“We care about policy as experienced by people across America. About the problems in people’s lives that demand a shift from government policymakers and about the way policies from Washington are shifting how people live.”

La lunga genesi di Storyline è probabilmente dovuta in parte allo stato di crisi del giornale e i timori pre-Bezos della testata circa il lancio di nuove iniziative, in parte all’uscita di scena della redazione dal WaPo con direzione Vox.com di Ezra Klein, (giovane e brillante) giornalista che nel 2011 lanciò Wonkblog, il blog di maggior successo della testata, diventato punto di riferimento proprio per la sua capacità di affrontare in maniera diretta e con semplicità temi “caldi” per il grande pubblico americano quali l’assistenza sanitaria (suo è anche l’interessante esperimento Know More di cui ho scritto qui).

E se fosse proprio lo storytelling l’antidoto per contribuire a salvare il giornalismo?

In un mondo, quello delle Rete, nel quale sono moltissimi gli spazi che aggiornano su ciò che sta accadendo nel mondo, la vera differenza per gli utenti la fanno i siti che “formano” più che “informano”, che riescono cioè a sviscerare i fatti affrontandoli con semplicità, che consentono di “capire” oltre che di “conoscere”.
Il lancio di agenzia è certo utile, ma da solo non poi così costruttivo.

Il Washington Post apre ai quotidiani locali, l’influenza di Bezos inizia a farsi sentire

Img: washingtonpost.com

Da quando Jeff Bezos ha acquistato il Washington Post ho con curiosità aspettato la prima rilevante decisione per comprendere il suo approccio alla guida di una così prestigiosa testata. In settimana qualcosa in questo senso pare essersi mosso.

Il pubblico di lettori del Washington Post è piuttosto omogeneo, almeno in termini di ubicazione geografica. A differenza del “rivale” New York Times che può contare su una notevole fetta di acquirenti del quotidiano fuori dalla “Grande Mela”, il WP resta fortemente ancorato, in termini di vendite, alla Capitale degli Stati Uniti. Tale aspetto, almeno per quel che concerne le copie a stampa, è diventato ancora più palese dopo il 2009 quando i vertici, per ovviare alla crisi, decisero di chiudere le redazioni del giornale a New York, Chicago e Los Angeles. L’avvento del digitale, nonostante gli sforzi per rendere la testata più forte sia a livello nazionale che internazionale, non è ancora riuscito nell’impresa di allargare il bacino di riferimento.

Proprio su questo versante il “Bezos pensiero” sembra essersi concretizzato in un primo importante cambio di prospettiva. In base alle dichiarazioni rilasciate al Financial Times da Steve Hills, presidente del WP, una delle primissime indicazioni del fondatore di Amazon, è stata quella di esplorare diverse soluzioni puntando sul successo digitale a lungo termine. La questione, come sottolinea lo stesso Hills, non è affatto di poco conto. Se nella precedente gestione il traguardo era legato alla realizzazione di guadagni nei 2/3 anni successivi, il cambio di rotta in atto, considerando un lasso temporale più ampio, consente – almeno potenzialmente – di valutare molte più opportunità.

Non è un caso quindi che, dal prossimo maggio, il giornale abbia deciso di offrire gratuitamente l’accesso digitale ai contenuti di sito e app, agli abbonati di sei quotidiani locali degli Stati Uniti, dal Dallas Morning Star al Minneapolis Star Tribune. In questo modo si stima che il pubblico di riferimento della testata possa crescere notevolmente anche perchè non è escluso che a breve il giornale possa adottare lo stesso approccio stringendo collaborazioni con i più noti servizi premium, da Spotify alle televisioni a pagamento.

Forse c’era davvero bisogno di un affermato professionista del digitale non legato all’editoria per allargare l’orizzonte della stampa.

In bocca al lupo signor Bezos, io faccio il tifo per lei!

Know More, l’esperimento semiserio del Washington Post

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Img: http://knowmore.washingtonpost.com

Quando mi capita di parlare in pubblico di web e comunicazione [a proposito, per chi ancora non lo sapesse, domani presenterò News(paper) Revolution a La Fiera delle Parole], uno dei punti sui quali insisto maggiormente è quello relativo alla mia convinzione che, proprio in virtù del mare magnum che è il web, la funzione di “filtro” sia necessaria per non rischiare di perdere la bussola.
A tal proposito cito spesso l’esempio di Compendium, il progetto del New York Times in virtù del quale gli utenti possono organizzare una sorta di bacheca (Pinterest docet) con i contenuti della testata che reputano più interessanti, da condividere con amici e conoscenti (il primo filtro è il giornalista, il secondo, ancora più accurato, è il lettore).
E’ di questi giorni un’iniziativa analoga del Washington Post, forse più “scanzonata”, più semplice ma non per questo non degna di nota.
Lo spazio al quale faccio riferimento è Know More, una riproposizione in salsa blog (trae origine dal Wonkblog) di una bacheca virtuale nella quale però i contenuti sono per la stragrande maggioranza esterni alla testata. Foto, video, grafici sintetizzati con un titolo accattivante che, se cliccati, si aprono a tutto schermo mostrando ai lati due bottoni: No more e Know more. Se si sceglie l’opzione di sinistra (la prima) il contenuto scompare dalla bacheca, se si opta per la seconda si viene rimandati alla fonte dell’informazione. Chi sceglie cosa pubblicare? Una miniredazione composta, al momento, da Dylan Matthews e Ezra Klein. Quest’ultima, presentando l’iniziativa ha sottolineato come lo scopo sia quello di stimolare nei lettori l’approfondimento, un supporto agli articoli interessanti ma non costruiti abbastanza bene da essere trovati dal pubblico. L’aspetto singolare è che mentre solitamente le iniziative editoriali puntano a incrementare il tempo speso entro i propri “confini”, il successo di Know More si misurerà nel numero di utenti che sceglieranno di lasciare lo spazio per leggere altrove. Sintetico e audace, da seguire.

Bezos acquista il Washington Post, il giornalismo torna a sperare

Photo: Billboard.com

La notizia dell’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos mi ha colto di sprovvista, ero in vacanza fuori Italia e non avevo modo, visto il saltellante wifi dell’albergo dove mi trovavo, di approfondire la questione. Così, una volta tornato a casa, ho cercato di rifarmi leggendo notizie e considerazioni su un’operazione, forse proprio per il clima vacanziero, passata un po’ in sordina nonostante si riferisca al giornale della capitale degli Stati Uniti, conosciuto anche oltreoceano per il Watergate che portò all’impeachment di Nixon.

Il punto di partenza è stata la lettera con la quale, al momento dell’acquisto, il fondatore di Amazon ha voluto rassicurare i dipendenti della testata. Un testo semplice, chiaro, che se da un lato ribadisce il valore del giornale come fulcro degli interessi dei lettori, dall’altra sottolinea come Internet stia trasformando l’intero comparto dell’informazione, accorciando il ciclo delle notizie, erodendo la forza numerica delle fonti di guadagno che sembravano consolidate e dando luogo a una nuova competizione editoriale. Nuove sfide, insomma, che a fronte delle attuali mancate certezze del mercato legato alla stampa, Bezos invita a superare inventando e sperimentando. Nel segno della tradizione dei Graham e mantenendo sempre al centro del progetto (lo ripete) i lettori e le loro esigenze.

Ma perché Bezos ha deciso di acquistare il WaPo? Quale il suo obiettivo?

Sottolineato che, secondo alcune stime, i 250 milioni di dollari versati da Bezos, rappresenterebbero meno dell’1% del capitale del fondatore di Amazon, i maligni individuano questioni di opportunità: la proprietà dello storico quotidiano potrebbe portare in dote contatti influenti della scena politica statunitense utili, forse, per agire indirettamente su questioni molto importanti quali, ad esempio, la tassazione sugli acquisti online.

In fondo, se è vero che Bezos è “ossessionato” dalla customer experience e dai programmi di lungo periodo, è altrettanto vero che il Washington Post, nella propria versione cartacea, nel 2012 abbia fatto registrare perdite per oltre 53 milioni di dollari. La sfida, insomma, appare decisamente impegnativa (lo stesso Bezos, nel novembre dello scorso anno, affermò di prevedere la scomparsa dei giornali di carta entro 20 anni).

Personalmente, però, sono tra coloro che intravedono benefici nell’ingresso nel mondo dell’editoria di una tale personalità. Bezos ha investito in dot company quali Twitter e Airbnb, ed è a capo di Amazon, realtà da anni nel business della creazione e distribuzione dei contenuti che ha fatto la sua fortuna soprattutto grazie all’infrastruttura tecnologica, uno degli aspetti del mondo del giornalismo che necessitano di profonda innovazione.

Con la speranza che Bezos possa portare nuova linfa – in termini di approccio, strategie e soluzioni – al mondo della stampa, in attesa delle prime scelte concrete, non mi resta che annotare quanto accaduto per un eventuale aggiornamento di News(paper) Revolution.