The Atlantic, non tutto il native vien per nuocere

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Nell’aprile del 2105 il magazine The Atlantic decise di rinnovare la grafica del proprio sito web puntando su una homepage con una struttura composta da semplici riquadri di foto+titolo, efficace anche se fruita da mobile, da navigare sia nella tradizionale modalità verticale che in quella orizzontale.

Un anno dopo, il giornale torna a far parlare di sé tra gli addetti ai lavori del comparto media per tre ragioni: in primo luogo, per la decisione di realizzare (in collaborazione con l’agenzia Wieden Kennedy) una campagna pubblicitaria con l’obiettivo di allargare il pubblico di lettori; in seconda istanza, per il progetto A&Q (la redazione ha individuato una 15ina di domande legate a problemi di ordine pubblico, dalle armi al clima, dalla gravidanza giovanile all’immigrazione clandestina, attorno alle quali sviluppare approfondimenti, chiedendo ai lettori di suggerire altre questioni sulle quali riflettere); infine per ciò che concerne la propria offerta di native advertising.

Secondo le parole rilasciate a digiday.com da Hayley Romer, vice presidente di The Atlantic, la cosiddetta pubblicità nativa punta a rappresentare quest’anno il 75% dei guadagni del giornale con un incremento stimato del 15% rispetto alle cifre del 2015, frutto anche di un consolidamento del team marketing che si occupa dei contenuti sponsorizzati – Atlantic Re:think – che può oggi contare su 32 persone.

Sembrano insomma lontani i tempi dei primi esperimenti del giornale in ottica native adv quando il contenuto sponsorizzato con oggetto Scientology diede il là ad aspre critiche da parte dei lettori tanto da spingere la direzione a pubblicare una lettera di scuse agli utenti nella quale fare ammenda per quanto accaduto (ammettendo un errore di valutazione della policy che all’epoca non prevedeva una così netta distinzione tra il contenuto pubblicitario e quello prettamente informativo). Dopo quello “scivolone” la testata decise di lavorare assiduamente per ripristinare la propria credibilità accettando di impegnarsi esclusivamente in progetti in grado di rappresentare valore per i lettori. Questo approccio “audience first” ha portato il giornale a focalizzare le risorse disponibili al fine di identificare i contenuti capaci di attirare l’attenzione degli utenti e, quindi, di avere un impatto concreto per gli inserzionisti (di fatto con il nuovo design i contenuti sponsorizzati sono diminuiti anche se risultano più corposi).

Uno degli esempi di successo in tal senso è l’articolo realizzato in occasione dei cento anni di Boeing che, con testi accompagnati di numerose gallerie fotografiche, ripercorre la storia dell’industria aerospaziale. Dal punto di vista grafico si tratta di qualcosa di completamente differente dal materiale informativo, immediatamente riconoscibile quale contenuto sponsorizzato. Contenuto che ha fatto registrare un buon livello di engagment arrivando a totalizzare oltre 7000 condivisioni su Facebook.

Con il diffondersi dei software ad blocker capaci di bloccare i messaggi pubblicitari rendendoli di fatto invisibili agli utenti, sono molte le realtà editoriali che considerano il native advertising – anche in virtù della sua perfetta compatibilità con il mobile – una delle (poche) armi a disposizione delle testate per far fronte al calo delle entrate registrato negli ultimi anni.

Ecco perché The Atlantic prosegue le fasi di test e sviluppo in modo da mettere a punto forme di native advertising capaci di funzionare quali leve di coinvolgimento degli utenti non solo in termini di interazione con il contenuto – click e condivisioni risultano difficili da ottenere per materiale etichettato come pubblicitario – quanto piuttosto in merito al tempo “speso” con il contenuto.

Lasso di tempo che Polar – piattaforma specializzata nella distribuzione contenuti legati al native adv – ha stimato aggirarsi, in media, in 2 minuti e 41 secondi. Intervallo di tempo che The Atlantic – a detta della stessa redazione di Washington – ha praticamente raddoppiato surclassando realtà molto quotate per quel che riguarda il native advertising quali BuzzFeed e Mashable.

BuzzFeed e Dove: non laviamocene le mani

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Circa due mesi fa, in un mio post, analizzai le policy di BuzzFeed. Al di là di quanto stabilito dal vademecum per chi lavora o collabora con la redazione, ho apprezzato soprattutto la volontà di condividere con il proprio pubblico i punti salienti entro i quali si sviluppa il lavoro della testata. Una trasparenza che, a mio avviso, avrebbe potuto avvicinare i lettori rendendoli in qualche modo partecipi del modello editoriale. Tra i punti più rilevanti indicati da BuzzFeed c’è la volontà di non eliminare alcun contributo: nel caso in cui qualche informazione pubblicata non sia corretta o sia diventata obsoleta, l’articolo verrà aggiornato e corretto inserendo delle note a spiegazione delle modifiche effettuate.
Qualcosa però, nelle ultime settimane, non ha funzionato esattamente come previsto dalle policy. In particolare, ha suscitato il mio interesse il “caso Dove” che qui sintetizzo: Arabelle Sicardi scrive un articolo circa una delle ultime iniziative legate alla campagna pubblicitaria Dove. Il brand di Unilever ha infatti realizzato un video che riprende alcune donne che, nei pressi di una stazione, dovendo scegliere tra l’ingresso beautiful e quello average appositamente preparati da Dove, tendenzialmente scelgono il secondo. La finalità del progetto prosegue sulla falsa riga di quanto precedentemente realizzato dal brand che punta, attraverso pubblicità emozionali, a rendere maggiormente consapevoli le donne della loro bellezza (benché questa non segua i canoni dello showbiz). Il post, in realtà, risulta piuttosto duro nei confronti di Dove: viene criticata la scelta di semplificare eccessivamente la realtà suddividendola solo tra due parametri (o sei bella o sei nella media) e, soprattutto, viene imputato al brand di proporre sul mercato prodotti contro la cellulite o per una pelle più bianca con i quali “correggere” le imperfezioni alla faccia del messaggio #choosebeautiful.
Il punto però non è (solo) quello legato alla percezione dell’iniziativa Dove da parte delle consumatrici. L’aspetto interessante della vicenda è il fatto che BuzzFeed decide di cancellare l’articolo – in contrasto alle direttive che invitano gli editor a una scrittura che “presenti” piuttosto che “dica” sulla base di personali valutazioni – venendo meno alle policy che la testata stessa aveva deciso di condividere.
L’articolo è poi reso nuovamente disponibile online e Ben Smith, caporedattore di BuzzFeed, fa ammenda su Twitter pubblicando la lettera da lui inviata a tutto lo staff nella quale si scusa per l’esagerata reazione e sottolinea come l’iniziale scelta di eliminare gli articoli (una situazione analoga a quella del post su Dove pochi giorni prima era emersa con il gioco da tavolo Monopoli) non sia stata dettata dalle pressioni degli inserzionisti (come provocamente ipotizzato da The Gawker). Qualche dubbio infatti può legittimamente nascere. Perché, in fondo, una cifra importante del business di BuzzFeeed proviene dalla realizzazione/diffusione di contenuti sponsorizzati e Unilever, si sa, è tra i marchi che più investino in pubblicità. Secondo quanto comunicato dalla redazione, il marchio di Dove, Axe e molti prodotti, non investe su BuzzFeed dall’ottobre 2013 anche se gli articoli sponsorizzati, frutto della collaborazione tra il brand e la testata, sono ancora online. Al di là del caso specifico, mi chiedo: quanto il native advertising legato alle redazioni finisce con l’influire sullo spirito critico di una testata nei confronti degli inserzionisti?

ps: Arabelle Sicardi, dopo la cancellazione del post, ha rassegnato le dimissioni da BuzzFeed

Citizen Chris: da Facebook a The New Republic

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Chris Hughes è uno dei fondatori di Facebook e, proprio per questo, nonostante la giovane età (è del 1983) è già multimilionario. Nell’estate del 2012 acquista lo storico magazine The New Republic con l’intento di rilanciare il giornale nelle sue diverse versioni (carta, sito e app) perché – come riportato in un suo scritto ai lettori del gennaio 2013 – una società democratica necessita di un serio e florido comparto media per generare nuove idee e offrire innovativi approcci ai fatti di ogni giorno. L’obiettivo è quello di creare una digital-media company verticalmente integrata capace di attirare lettori e, quindi, inserzionisti. E per fare ciò non bada a spese: nuovo ufficio, nuovo team di giornalisti, sito web completamente ridisegnato e, più tardi, un grande party per festeggiare i 100 anni della rivista (con ospiti, tra gli altri, Bill Clinton e Wynton Marsalis). All’atto della firma per rilevare la quota di maggioranza del giornale ecco il primo colpo di teatro: a capo del magazine, al posto di Richard Just – uomo chiave nel convincere Hughes ad investire nel giornale – arriva, secondo i bene informati all’insaputa di tutti, la (auto)nomina a direttore dello stesso Chris. Carica che di lì a pochi mesi cederà a Franklin Foer, richiamato al giornale dopo che lo aveva lasciato nel 2010.
Gli avvicendamenti non portano i risultati sperati, le divisioni interne si acuiscono (pare che alcuni diverbi tra Hughes e giornalisti dello staff siano nati a causa di articoli dai toni particolarmente critici nei confronti del mondo della Silicon Valley che egli stesso, almeno in parte, rappresenta), arriva un nuovo cambio al vertice: via Foer, arriva Gabriel Snyder.
La strategia del giornale agli occhi del personale (ma anche di molti tra gli addetti ai lavori) non sembra più così azzeccata, in molti lasciano la redazione accusando la proprietà di aver inferto il colpo letale al New Republic portando avanti il progetto di trasformare il magazine in una sorta di azienda tecnologica, in una start-up. La lotta intestina tra il mondo dell’informazione focalizzato sulle modalità per incrementare il traffico web e quello riconducibile a un giornalismo narrativo e critico nei confronti dell’establishment pare insanabile.
Nella lettera alla direzione con la quale venti giornalisti rassegnano le dimissioni, sintesi del malcontento della redazione, si sottolinea come The New Republic non sia importante esclusivamente in virtù della storia del brand; non si tratta, in altre parole, di (mero) business ma di una causa, non di un prodotto ma di una voce.
In una recente intervista rilasciata al Washington Post, Hughes, commentando quanto accaduto, si è detto dispiaciuto ma ancora desideroso di continuare a lavorare per la realizzazione di un progetto di giornalismo sostenibile, in grado cioè di preservare contemporaneamente i conti in attivo e l’istituzione che The New Republic rappresenta.

Nonostante la dedizione e la voglia di continuare a “lottare”, il numero di febbraio, per la prima volta da un secolo a questa parte, non sarà però in edicola.

Our success is not guaranteed, but I think it’s critical to try.

L’innovazione del giornalismo secondo il New York Times

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Da un mese a questa parte uno dei documenti più discussi tra coloro che occupano di media è l’Innovation Report del New York Times, un pdf di 97 pagine che traccia lo status attuale del famoso quotidiano statunitense identificando le nuove sfide che il giornale dovrà affrontare sin da subito per rispondere alla sempre più agguerrita concorrenza su web.

Se l’obiettivo della testata resta sempre quello di produrre il miglior giornalismo, sin dalle prime righe appare chiaro come il Times necessiti di una nuova strategia, un moderno atteggiamento che possa far fronte alla diminuzione del bacino di lettori (non solo del sito ma anche della app) fatta registrare i primi mesi del 2014.

Il successo del paywall offre la stabilità economica necessaria per continuare a rinnovare il giornale proseguendo la ricerca di un nuovo equilibrio lontano dalla tradizione carto-centrica sulle cui basi la testata ha costruito i suoi più rilevanti successi. Si tratta di una transizione che, adottando l’approccio del digital first porta, ad esempio, ad utilizzare per il giornale a stampa i migliori contenuti digitale, non viceversa.

Il nuovo modus operandi si basa su tre concetti fondamentali: discovery, promotion e connection. In sintesi: studiare come proporre e distribuire i contenuti, come attirare l’attenzione degli utenti, come creare relazioni durature e continuative con i lettori.

Lettori che in percentuali sempre più alte utilizzano tablet e smartphone per informarsi, e che arrivano alle notizie più dai social network che dalla hompege del sito (nonostante i vari restyling, solo 1/3 dei lettori visita la “prima pagina” su web del giornale).
L’audience va quindi cercata, l’edizione cartacea funge sono in pochissimi casi da traino per il sito online. I giovani lettori, in particolare, stanno abbandonando la navigazione a favore dei social media: “se qualcosa è importante, mi troverà”, lasciano siano le notizie a raggiungerli piuttosto che operarsi per trovare il contenuto a loro più adatto.

Focalizzarsi sui lettori è condizione necessaria ma non sufficiente, occorre infatti ripensare anche i contenti e alle modalità con le quali le notizie sono proposte. Ancora troppo spesso i giornalisti pensano che il proprio compito si esaurisca con la pubblicazione del pezzo. In realtà, come dimostra il successo Huffington Post (e l’attenzione posta dalla redazione alla fasi successive la messa online dell’articolo), la vita di un contributo inizia con la diffusione pubblica su web, non si esaurisce semplicemente con l’upload.

In generale, quindi, va ripensato il modo di proporre le news. Il traffico generato da una notizia scema drammaticamente dopo un solo giorno dalla pubblicazione. Occorre vagliare nuove soluzioni per allungare il “tempo di interesse” delle informazioni proposte, facendo in modo che gli articoli siano più utili, più rilevanti, più propensi alla condivisione da parte degli utenti.

Senza dimenticare gli aspetti legati alla personalizzazione delle notizie, sulla cui tecnologia molti sono i player (da Facebook Paper al Washington Post) che stanno investendo.

Che si tratti o meno della versione definitiva del documento presentato al management della New York Times Company, il testo raccoglie molti spunti interessanti che dimostrano come la sfida del web non sia ancora vinta appieno e non vi siano molte certezze nemmeno per un gruppo solido come quello del Times chiamato ogni giorno a rimettersi in gioco continuamente.

New York Times Company, crescono i profitti. Ma non grazie all’adv.

nyt_3rdquarter_13Ultimamente ho focalizzato la mia attenzione su alcune redazioni locali statunitensi e sul loro approccio alla crisi della stampa. Con questo post, invece, torno ad occuparmi di uno dei colossi del giornalismo a stelle e strisce. Sono infatti stati resi noti i dati relativi al terzo quarter del 2013 di The New York Times Company. Le cifre pubblicate permettono di avere un’idea sullo stato di salute di una delle aziende più importanti al mondo nel panorama dei media.
Il primo dato è quello che, rispetto allo stesso periodo del 2012, i profitti sono in aumento: dagli 8.9 si è passati quest’anno ai 12.9 milioni di dollari, una crescita che, al netto della svalutazione, dell’ammortamento e di alcune liquidazioni di fine rapporto, è stimata attorno al 35%.
Nel terzo quarter del 2013 il totale delle entrate è aumentato del 1.8%, 4.8% se considerata la sola distribuzione. Da notare come, proprio per quel che concerne la diffusione dei giornali, i guadagni crescano sia per il comparto digitale sia per quello della stampa classica nonostante quest’ultima registri un calo delle vendite. La diminuzione del numero di copie cartacee acquistate è stato infatti bilanciata da un aumento del prezzo del quotidiano.

I guadagni provenienti degli abbonamenti digitali ammontano, nel terzo quarter del 2013, a 37.7 milioni di dollari, +29% rispetto allo stesso periodo del 2012. Se l’analisi si allarga ai primi nove mesi del 2013, la percentuale rispetto allo scorso anno sale al 42.4.

Il numero delle iscrizioni digitali continua ad aumentare attestandosi, per quel che concerne New York Times e Herald Tribune, a circa 727.000, il 29% in più rispetto al medesimo periodo del 2012.

Nell’insieme di cifre in progresso è però da notare la frenata degli introiti derivanti dalla pubblicità. Se il -1.6% dei guadagni da adv cartaceo era quantomeno prevedibile, il -3.4% dell’adv online rispetto al 2012 fa sicuramente riflettere. I guadagni da adv digitali, rispetto al totale delle revenue pubblicitarie del gruppo, scendono a 23.8% rispetto al 24.1% dello scorso anno. In realtà è da inizio anno che le entrate pubblicitarie sembrano soffrire: considerando i primi nove mesi del 2013 rispetto a quelli del 2012, l’adv digitale registra un -7.3%, quello a stampa un -3.2%.

In sostanza, da quanto emerge, il The New York Times Company si dimostra ancora una volta un gruppo solido e in salute. Con il progressivo abbassamento dei costi in atto e la parallela crescita dei profitti, il colosso statunitense sta affrontando al meglio le sfide che le testate giornalistiche sono chiamate oggi ad affrontare.

Il fatto che gli introiti pubblicitari, digitali o a stampa, non riescano a tornare a crescere, risulta, in estrema sintesi, un “monito” per tutte le testate: ad oggi, preferibile puntare sui contenuti (e, in generale, sulle iniziative volte a migliorare il rapporto con i lettori) piuttosto che sulla pubblicità che questi possono veicolare.

L’innovazione? A Boston è di casa

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Il mercato dell’editoria sta vivendo un momento molto difficile. Il termine innovazione è ormai sulla bocca di quasi tutti gli addetti ai lavori, concentrati nel capire quale sia la strada più sicura sulla quale affrontare i cambiamenti in atto. Mettere in pratica processi che portino a risultati migliori è però molto complicato: in un contesto nel quale, a fronte di investimenti, l’obiettivo risulta ottenere effetti pressoché immediati, ragionare in termini di lungo periodo, vista la rapida evoluzione della Rete, è quasi impossibile.

Nonostante tutto, alcune testate, continuano a provare nuovi approcci al web. Non si tratta esclusivamente di redazioni arcinote, esiste un “sottobosco” di quotidiani a carattere locale che, come avvenne agli esordi di internet con il Chicago Tribune e il Nando Times (in Italia con l’Unione Sarda), per tentare di allargare il proprio pubblico di riferimento o per offrire un’alternativa al mainstream, continuano a proporre nuovi strumenti e nuove modalità di approccio all’informazione.

Uno dei casi di maggior successo in questo senso (successo misurato non esclusivamente in termini di parametri numerici quanto di capacità di rinnovare la propria identità adattandola agli sviluppi della Rete) è il Boston Globe. La testata – come citato anche in News(paper) Revolution – possiede due declinazioni: una, a pagamento, propria del giornale cartaceo, un’altra gratuitamente fruibile – Boston.com – molto più focalizzata sulle notizie locali e indirizzata a un pubblico più trasversale.

Di questi giorni è la notizia che, proprio lo spazio informativo Boston.com, dal prossimo anno, offrirà una maggiore flessibilità ai propri lettori. Non sono trapelate moltissime informazioni a proposito ma sulla base di quanto dichiarato da Jeff Moriarty – Vicepresidente del Boston Globe e General Manager di Boston.com – il sito proseguirà lo sviluppo della sua costruzione “responsive” anche in ottica utente. Nel 2011 il quotidiano di Boston è stato tra i primi a implementare un sito in grado di adattarsi al device utilizzato. Il giornale, in altre parole, fermo restando i contenuti, è in grado di modificare il proprio aspetto in base al supporto con il quale viene fruito. In questo modo, ad esempio, l’impaginazione è differente se l’utente visita lo spazio informativo da computer, da tablet o da smartphone.
Dal 2014 però la testata farà un ulteriore passo modellandosi anche in base alle modalità di utilizzo del lettore: se l’utente preferirà leggere piuttosto che sfruttare il materiale multimediale a disposizione, il sito sarà in grado di proporre un più alto numero di testi. In qualche modo, quindi, sarà il comportamento stesso dell’utente a configurare la griglia informativa del quotidiano. Un progetto ambizioso che, sulla scia di quanto sta accadendo su Facebook, punta alla personalizzazione, al superamento del giornale indifferenziato, uguale per tutti.

Altro progetto da seguire, sempre a firma Boston Globe, è 61Fresh. E’ uno spazio informativo capace di captare i tweet locali di Boston e dintorni che richiamano le notizie di uno dei 500 siti di notizie della capitale del Massachusetts. Alla base un algoritmo in grado di vagliare la popolarità e la freschezza delle news per riproporre le notizie più chiacchierate dell’area metropolitana.

Complimenti ai responsabili della testata, anche un periodo di crisi può in fondo rappresentare un’opportunità. Per mettersi in gioco e vagliare nuove opzioni.

Bezos acquista il Washington Post, il giornalismo torna a sperare

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La notizia dell’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos mi ha colto di sprovvista, ero in vacanza fuori Italia e non avevo modo, visto il saltellante wifi dell’albergo dove mi trovavo, di approfondire la questione. Così, una volta tornato a casa, ho cercato di rifarmi leggendo notizie e considerazioni su un’operazione, forse proprio per il clima vacanziero, passata un po’ in sordina nonostante si riferisca al giornale della capitale degli Stati Uniti, conosciuto anche oltreoceano per il Watergate che portò all’impeachment di Nixon.

Il punto di partenza è stata la lettera con la quale, al momento dell’acquisto, il fondatore di Amazon ha voluto rassicurare i dipendenti della testata. Un testo semplice, chiaro, che se da un lato ribadisce il valore del giornale come fulcro degli interessi dei lettori, dall’altra sottolinea come Internet stia trasformando l’intero comparto dell’informazione, accorciando il ciclo delle notizie, erodendo la forza numerica delle fonti di guadagno che sembravano consolidate e dando luogo a una nuova competizione editoriale. Nuove sfide, insomma, che a fronte delle attuali mancate certezze del mercato legato alla stampa, Bezos invita a superare inventando e sperimentando. Nel segno della tradizione dei Graham e mantenendo sempre al centro del progetto (lo ripete) i lettori e le loro esigenze.

Ma perché Bezos ha deciso di acquistare il WaPo? Quale il suo obiettivo?

Sottolineato che, secondo alcune stime, i 250 milioni di dollari versati da Bezos, rappresenterebbero meno dell’1% del capitale del fondatore di Amazon, i maligni individuano questioni di opportunità: la proprietà dello storico quotidiano potrebbe portare in dote contatti influenti della scena politica statunitense utili, forse, per agire indirettamente su questioni molto importanti quali, ad esempio, la tassazione sugli acquisti online.

In fondo, se è vero che Bezos è “ossessionato” dalla customer experience e dai programmi di lungo periodo, è altrettanto vero che il Washington Post, nella propria versione cartacea, nel 2012 abbia fatto registrare perdite per oltre 53 milioni di dollari. La sfida, insomma, appare decisamente impegnativa (lo stesso Bezos, nel novembre dello scorso anno, affermò di prevedere la scomparsa dei giornali di carta entro 20 anni).

Personalmente, però, sono tra coloro che intravedono benefici nell’ingresso nel mondo dell’editoria di una tale personalità. Bezos ha investito in dot company quali Twitter e Airbnb, ed è a capo di Amazon, realtà da anni nel business della creazione e distribuzione dei contenuti che ha fatto la sua fortuna soprattutto grazie all’infrastruttura tecnologica, uno degli aspetti del mondo del giornalismo che necessitano di profonda innovazione.

Con la speranza che Bezos possa portare nuova linfa – in termini di approccio, strategie e soluzioni – al mondo della stampa, in attesa delle prime scelte concrete, non mi resta che annotare quanto accaduto per un eventuale aggiornamento di News(paper) Revolution.