Il medium è i (propri) messaggi: la lezione del Financial Times

Whic FT reader are you?

Img: ft.com

Da alcune settimane l’autorevole Financial Times ha adottato una nuova veste per il quotidiano cartaceo e per il proprio spazio online. In occasione del restyling, il NeimanLab ha pubblicato una lunga intervista a Gillian Tett, U.S. managing editor del FT, dalla quale emerge come la caratteristica primaria dell’approccio adottato dal giornale economico-finanziario inglese sia la flessibilità.
In sintesi, oggi non è più sufficiente limitarsi a proporre la testata come digital-first e/o digitally focused, ma il giornale entra davvero nell’era digitale nel momento in cui riesce a far fronte alle diverse esigenze degli utenti.
Se è vero che l’evoluzione dalla stampa al digitale coinvolge molti lettori (ma non ancora tutti, per cui al momento non si può ancora prescindere dal quotidiano cartaceo), è altrettanto vero che nell’arco della giornata uno stesso utente si informa utilizzando differenti strumenti. L’unità di misura della stampa, il lettore, è oggi una realtà decisamente complessa: è il singolo individuo infatti, nel proprio consumo di notizie, ad essere sfaccettato.
La mattina, ad esempio, tra una riunione e l’altra, l’utente desidera essere aggiornato con tempestività e sintesi sulle breaking news, notizie da scorrere facilmente con lo smartphone (proprio sulla base di questa necessità sono declinate le opzioni fastFT e FT Antenna del Financial Times). La sera, invece, al termine di una giornata lavorativa, avendo maggior tempo a disposizione, può voler optare per le cosiddette “big page”, articoli lunghi e dettagliati che presentano il contesto nel quale gli avvenimenti principali si sviluppano.

Il digitale, in altre parole, accompagna l’evoluzione del giornale che – come dimostra l’esempio del FT – sta iniziando a proporsi come un’entità camaleontica in grado di adattare linguaggio e contenuti in base alle richieste dagli utenti. La celebre espressione di McLuhan: “il medium è il messaggio” forse andrebbe aggiornata con una versione 2.0 del tipo “il medium è… i (propri) messaggi”.

La flessibilità va intesa però come punto di arrivo non di partenza. A precederla, due “leve” alla base anche degli sviluppi del FT: la capacità di analizzare i dati a disposizione per individuare le esigenze del proprio bacino di lettori; e quella di innovare, creando nuovi strumenti (in questo senso da seguire gli sviluppo della collaborazione sui wearable device, gli strumenti che si indossano, tra FT e Samsung Gear) in grado di migliorare la fruizione delle notizie.

Magazine sempre più “quotidiani”: il caso The New Yorker

Img: newyorker.com

Nel mio seguire gli sviluppi dell’informazione online, quasi involontariamente, finisco per concentrarmi spesso sui quotidiani a discapito dei magazine, quelli che forse hanno sentito ancora di più il passaggio dalla carta stampata al digitale.
Ecco perché quando ho letto del restyling del famoso The New Yorker dello scorso luglio ho voluto approfondire la nuova strategia della nota rivista fondata da Harold Ross.
Il cambio di veste grafica, incentrato sul concetto di user experience, ha reso la fruizione dei contenuti molto più accattivante: indipendentemente dallo strumento utilizzato, i lettori hanno ora a disposizione uno spazio nel quale testi, immagini e video si alternano in maniera semplice, pulita e ordinata.
Per fare in modo che quanti più utenti potessero scoprire le novità, il magazine ha deciso di aprire il proprio archivio dando l’opportunità a chiunque di leggere ogni singolo articolo pubblicato dal 2007 (la testata ha invitato gli utenti a stilare la propria classifica, in molti hanno iniziato a proporre la propria lista di articoli preferiti condividendoli nei social network). L’operazione, della durata di 3 mesi e frutto della sponsorizzazione di alcuni brand come Haagen-Dazs che collaborano da tempo con la rivista, anticiperà entrata in vigore del paywall, il sistema in uso in molti giornali che consente agli utenti non registrati di leggere solo un determinato numero di articoli al mese. Ne seguirà lo sviluppo Charl Porter, che proprio dell’implementazione di un sistema analogo si era occupato al Financial Times, la sua precedente realtà lavorativa prima di entrare a Condé Nast.
L’apertura degli archivi a tutti gli utenti non è solo un tentativo di rilanciare il settimanale quanto piuttosto una scelta strategica per ricavare dati dalla cui analisi capire quali siano le preferenze dei lettori per calibrare così al meglio il paywall che dall’autunno sarà adottato dalla rivista.
Non è ancora chiaro se il paywall sarà esteso a tutti i contenuti e a tutte le sezioni del sito ma, sicuramente, rappresenta un passo in avanti rispetto alla strategia adottata dalla redazione che, sino a non molto tempo fa, per decidere quale pezzo pubblicare, ad ogni numero cartaceo riuniva i giornalisti attorno a un tavolo per scegliere gli articoli da caricare nel sito e quelli da invece riservare alla sola stampa tradizionale.

In un messaggio ai lettori pubblicato nel sito, si spiega come il sito web punti a diventare nel corso del tempo un’entità sempre più indipendente dal cartaceo: le 15 storie inedite pubblicate ogni giorno online cresceranno di numero e si affiancheranno a nuove rubriche quali il Daily Cultural Comment, per raccontare in maniera migliore i fatti del mondo e dar modo anche ai lettori del cartaceo di avere a disposizione contenuti diversi e multimediali (podcast, video, grafici interattivi e slide show). Ad oggi il 60/70% degli articoli online sono frutto del lavoro di freelance, l’obiettivo a lungo termine è quello di diminuire tale quota sfruttando al meglio lo staff “interno” a disposizione.

Una sfida non da poco quella del New Yorker e degli altri periodici: produrre continuamente nuovi contenuti capaci di incontrare i favori del pubblico (trasformandosi, almeno in parte, in quotidiani) mantenendo inalterate identità e autorevolezza.

Il Washington Post apre ai quotidiani locali, l’influenza di Bezos inizia a farsi sentire

Img: washingtonpost.com

Da quando Jeff Bezos ha acquistato il Washington Post ho con curiosità aspettato la prima rilevante decisione per comprendere il suo approccio alla guida di una così prestigiosa testata. In settimana qualcosa in questo senso pare essersi mosso.

Il pubblico di lettori del Washington Post è piuttosto omogeneo, almeno in termini di ubicazione geografica. A differenza del “rivale” New York Times che può contare su una notevole fetta di acquirenti del quotidiano fuori dalla “Grande Mela”, il WP resta fortemente ancorato, in termini di vendite, alla Capitale degli Stati Uniti. Tale aspetto, almeno per quel che concerne le copie a stampa, è diventato ancora più palese dopo il 2009 quando i vertici, per ovviare alla crisi, decisero di chiudere le redazioni del giornale a New York, Chicago e Los Angeles. L’avvento del digitale, nonostante gli sforzi per rendere la testata più forte sia a livello nazionale che internazionale, non è ancora riuscito nell’impresa di allargare il bacino di riferimento.

Proprio su questo versante il “Bezos pensiero” sembra essersi concretizzato in un primo importante cambio di prospettiva. In base alle dichiarazioni rilasciate al Financial Times da Steve Hills, presidente del WP, una delle primissime indicazioni del fondatore di Amazon, è stata quella di esplorare diverse soluzioni puntando sul successo digitale a lungo termine. La questione, come sottolinea lo stesso Hills, non è affatto di poco conto. Se nella precedente gestione il traguardo era legato alla realizzazione di guadagni nei 2/3 anni successivi, il cambio di rotta in atto, considerando un lasso temporale più ampio, consente – almeno potenzialmente – di valutare molte più opportunità.

Non è un caso quindi che, dal prossimo maggio, il giornale abbia deciso di offrire gratuitamente l’accesso digitale ai contenuti di sito e app, agli abbonati di sei quotidiani locali degli Stati Uniti, dal Dallas Morning Star al Minneapolis Star Tribune. In questo modo si stima che il pubblico di riferimento della testata possa crescere notevolmente anche perchè non è escluso che a breve il giornale possa adottare lo stesso approccio stringendo collaborazioni con i più noti servizi premium, da Spotify alle televisioni a pagamento.

Forse c’era davvero bisogno di un affermato professionista del digitale non legato all’editoria per allargare l’orizzonte della stampa.

In bocca al lupo signor Bezos, io faccio il tifo per lei!

Quando la stampa scopre l’ecommerce

Img: wwd.com

Alcuni giorni fa mi è stato chiesto di commentare la partnership tra Harper’s Bazaar, storico magazine di moda e stile del gruppo Hearst, con l’italiana Yoox (UPDATE: l’intervista è stata pubblicata nel numero di dicembre di AdV). Ho in questo modo potuto approfondire gli aspetti legati al rapporto tra stampa ed ecommerce che, focalizzando la mia attenzione prevalentemente al mondo dei quotidiani, avevo forse tralasciato.

In questi ultimi anni molti sono i gruppi editoriali che hanno deciso di puntare sul commercio elettronico. Condé Nast, tanto per citare un altro esempio, ha investito in due marketplace: Farfetch, spazio che unisce boutique indipendenti e Vestiaire Collective, community dedicata alla vendita online di abiti e accessori di lusso usati.

In ordine di tempo, una delle prime strette collaborazioni tra chi scrive contenuti e chi vende beni su web, è stata quella di Vogue che, per la settimana della moda di New York del settembre 2012, offrì alle proprie lettrici la possibilità di acquistare, attraverso il luxury retailer Moda Operandi, i capi di abbigliamento presentati nelle passerelle.

Altro caso degno di nota è quello di Elle che lo scorso anno ha iniziato a sperimentare il social e-commerce. La redazione presentava alcuni capi “must” della stagione in arrivo, gli utenti potevano interagire con in contenuti scegliendo tra “Love”, “Want”, “Own” o, più sotto, “Buy”.

In realtà, scandagliando la Rete ho trovato anche qualcosa di relativo ai quotidiani. L’autorevole Washington Street Journal ha, infatti, da alcuni giorni lanciato un proprio canale ecommerce. Si chiama The Shops, un sito di vendita online di prodotti di lusso sponsorizzato da Capital One (e dalla sua carta di credito). Tutto torna. O quasi. Perché poi, in fondo alla pagina, un riquadro magenta sottolinea come il sito operi in maniera indipendente dalla redazione del quotidiano finanziario.

L’editoria in crisi sperimenta nuove soluzioni – che alle volte si allontanano dal core business delle news – alla ricerca di modelli economici alternativi.
Se per la stampa l’ecommerce possa rappresentare una interessante fonte di reddito forse è troppo presto per dirlo. In ogni caso, da lettore, mi auguro che ciò avvenga in maniera trasparente salvaguardando la distinzione tra contenuto informativo e pubblicitario.

New York Times Company, crescono i profitti. Ma non grazie all’adv.

nyt_3rdquarter_13Ultimamente ho focalizzato la mia attenzione su alcune redazioni locali statunitensi e sul loro approccio alla crisi della stampa. Con questo post, invece, torno ad occuparmi di uno dei colossi del giornalismo a stelle e strisce. Sono infatti stati resi noti i dati relativi al terzo quarter del 2013 di The New York Times Company. Le cifre pubblicate permettono di avere un’idea sullo stato di salute di una delle aziende più importanti al mondo nel panorama dei media.
Il primo dato è quello che, rispetto allo stesso periodo del 2012, i profitti sono in aumento: dagli 8.9 si è passati quest’anno ai 12.9 milioni di dollari, una crescita che, al netto della svalutazione, dell’ammortamento e di alcune liquidazioni di fine rapporto, è stimata attorno al 35%.
Nel terzo quarter del 2013 il totale delle entrate è aumentato del 1.8%, 4.8% se considerata la sola distribuzione. Da notare come, proprio per quel che concerne la diffusione dei giornali, i guadagni crescano sia per il comparto digitale sia per quello della stampa classica nonostante quest’ultima registri un calo delle vendite. La diminuzione del numero di copie cartacee acquistate è stato infatti bilanciata da un aumento del prezzo del quotidiano.

I guadagni provenienti degli abbonamenti digitali ammontano, nel terzo quarter del 2013, a 37.7 milioni di dollari, +29% rispetto allo stesso periodo del 2012. Se l’analisi si allarga ai primi nove mesi del 2013, la percentuale rispetto allo scorso anno sale al 42.4.

Il numero delle iscrizioni digitali continua ad aumentare attestandosi, per quel che concerne New York Times e Herald Tribune, a circa 727.000, il 29% in più rispetto al medesimo periodo del 2012.

Nell’insieme di cifre in progresso è però da notare la frenata degli introiti derivanti dalla pubblicità. Se il -1.6% dei guadagni da adv cartaceo era quantomeno prevedibile, il -3.4% dell’adv online rispetto al 2012 fa sicuramente riflettere. I guadagni da adv digitali, rispetto al totale delle revenue pubblicitarie del gruppo, scendono a 23.8% rispetto al 24.1% dello scorso anno. In realtà è da inizio anno che le entrate pubblicitarie sembrano soffrire: considerando i primi nove mesi del 2013 rispetto a quelli del 2012, l’adv digitale registra un -7.3%, quello a stampa un -3.2%.

In sostanza, da quanto emerge, il The New York Times Company si dimostra ancora una volta un gruppo solido e in salute. Con il progressivo abbassamento dei costi in atto e la parallela crescita dei profitti, il colosso statunitense sta affrontando al meglio le sfide che le testate giornalistiche sono chiamate oggi ad affrontare.

Il fatto che gli introiti pubblicitari, digitali o a stampa, non riescano a tornare a crescere, risulta, in estrema sintesi, un “monito” per tutte le testate: ad oggi, preferibile puntare sui contenuti (e, in generale, sulle iniziative volte a migliorare il rapporto con i lettori) piuttosto che sulla pubblicità che questi possono veicolare.

Orange County Register, il giornale controcorrente

Aaron Kushner

Img: cjr.org

Il mondo dell’editoria non sta vivendo un periodo felice. I dati sugli introiti pubblicitari continuano a scendere, le redazioni sono alle prese con tagli del personale e drastiche riorganizzazioni.

In un clima così tetro, la notizia circa l’esperimento del quotidiano californiano Orange County Register sembra quasi un miraggio.
Il giornale, infatti, pare percorrere in senso contrario il declino della stampa. Sta assumendo personale, sta puntando forte sulla versione cartacea della quale ha aumentato la foliazione e, soprattutto, sta registrando una crescita dei ricavi.

Fondato nel 1905, il giornale ha attraverso alcuni momenti davvero difficili ma, da un anno a questa parte, la storia del quotidiano è cambiata completamente. La testata ha visto l’ingresso di due nuovi soci: Eric Spitz e Aaron Kushner. Quest’ultimo, nonostante la mancanza di esperienza nel campo giornalistico, sembra per ora aver vinto la propria scommessa.

Come? Puntando sui contenuti, non sul mezzo. E così, in un momento di crisi come quello attuale, per prima cosa Kushner ha voluto ampliare l’edizione cartacea (più pagine a colori) e il personale – fotografi e giornalisti – per coprire al meglio le notizie locali. Fede, scuola, cibo, cronaca e sport i focus principali, con un notevole spazio – nell’edizione del fine settimana – alle attività sportive femminili e maschili delle high school per avvicinare alla testata anche il pubblico più giovane. Anche l’offerta è stata semplificata: che sia carta o web, il giornale chiede ai propri lettori 1 dollaro al giorno (con un paywall online molto restrittivo).

L’ambizione è quella di poter offrire ai propri lettori un giornale che rappresenti lo strumento più adatto per essere informati e capire la comunità nelle quale si vive o lavora. Un quotidiano utile al proprio pubblico, dai contenuti rilevanti e originali (in un parallelismo televisivo, uno dei giornalisti della testata, Rob Curley, parlando della sfida di rendere unico il quotidiano, ha citato l’esempio dei Soprano, trasmessi solo da HBO e da nessun’altra parte).

Il modello del Orange County molto probabilmente non è così facilmente replicabile in altre redazioni, ma resta interessante da seguire nei suoi ulteriori sviluppi.
Perché in fondo, la considerazione di Kushner secondo la quale mai come oggi il pubblico di lettori è vasto, risulta inattaccabile. Tornare a concentrarsi sull’idea di servizio al cittadino, puntando sulla qualità dei contenuti appare una scelta più che condivisibile.

L’innovazione? A Boston è di casa

Img: 61Fresh.com

Il mercato dell’editoria sta vivendo un momento molto difficile. Il termine innovazione è ormai sulla bocca di quasi tutti gli addetti ai lavori, concentrati nel capire quale sia la strada più sicura sulla quale affrontare i cambiamenti in atto. Mettere in pratica processi che portino a risultati migliori è però molto complicato: in un contesto nel quale, a fronte di investimenti, l’obiettivo risulta ottenere effetti pressoché immediati, ragionare in termini di lungo periodo, vista la rapida evoluzione della Rete, è quasi impossibile.

Nonostante tutto, alcune testate, continuano a provare nuovi approcci al web. Non si tratta esclusivamente di redazioni arcinote, esiste un “sottobosco” di quotidiani a carattere locale che, come avvenne agli esordi di internet con il Chicago Tribune e il Nando Times (in Italia con l’Unione Sarda), per tentare di allargare il proprio pubblico di riferimento o per offrire un’alternativa al mainstream, continuano a proporre nuovi strumenti e nuove modalità di approccio all’informazione.

Uno dei casi di maggior successo in questo senso (successo misurato non esclusivamente in termini di parametri numerici quanto di capacità di rinnovare la propria identità adattandola agli sviluppi della Rete) è il Boston Globe. La testata – come citato anche in News(paper) Revolution – possiede due declinazioni: una, a pagamento, propria del giornale cartaceo, un’altra gratuitamente fruibile – Boston.com – molto più focalizzata sulle notizie locali e indirizzata a un pubblico più trasversale.

Di questi giorni è la notizia che, proprio lo spazio informativo Boston.com, dal prossimo anno, offrirà una maggiore flessibilità ai propri lettori. Non sono trapelate moltissime informazioni a proposito ma sulla base di quanto dichiarato da Jeff Moriarty – Vicepresidente del Boston Globe e General Manager di Boston.com – il sito proseguirà lo sviluppo della sua costruzione “responsive” anche in ottica utente. Nel 2011 il quotidiano di Boston è stato tra i primi a implementare un sito in grado di adattarsi al device utilizzato. Il giornale, in altre parole, fermo restando i contenuti, è in grado di modificare il proprio aspetto in base al supporto con il quale viene fruito. In questo modo, ad esempio, l’impaginazione è differente se l’utente visita lo spazio informativo da computer, da tablet o da smartphone.
Dal 2014 però la testata farà un ulteriore passo modellandosi anche in base alle modalità di utilizzo del lettore: se l’utente preferirà leggere piuttosto che sfruttare il materiale multimediale a disposizione, il sito sarà in grado di proporre un più alto numero di testi. In qualche modo, quindi, sarà il comportamento stesso dell’utente a configurare la griglia informativa del quotidiano. Un progetto ambizioso che, sulla scia di quanto sta accadendo su Facebook, punta alla personalizzazione, al superamento del giornale indifferenziato, uguale per tutti.

Altro progetto da seguire, sempre a firma Boston Globe, è 61Fresh. E’ uno spazio informativo capace di captare i tweet locali di Boston e dintorni che richiamano le notizie di uno dei 500 siti di notizie della capitale del Massachusetts. Alla base un algoritmo in grado di vagliare la popolarità e la freschezza delle news per riproporre le notizie più chiacchierate dell’area metropolitana.

Complimenti ai responsabili della testata, anche un periodo di crisi può in fondo rappresentare un’opportunità. Per mettersi in gioco e vagliare nuove opzioni.

I quotidiani locali nel web: il caso The Oregonian

Parlando di social media e comunicazione online ci si riferisce spesso quasi esclusivamente a grandi aziende. Il citare realtà di grosso calibro è quasi un atto involontario perché i brand più noti hanno maggiore visibilità, una presenza nelle Rete più strutturata e investimenti più rilevanti. In realtà, il mondo oltre le multinazionali, nella diversità di approccio alla sfida delle Rete, è altrettanto interessante.
Un esempio? Navigando in GoogleNews mi sono imbattuto nella storia del The Oregonian e ho deciso di approfondirla perché, in qualche modo, può essere considerata alternativa ai grandi gruppi editoriali statunitensi e più vicina al giornalismo dei quotidiani locali.

The Oregonian è il più antico quotidiano della West Cost: nato come settimanale nel 1850, è il giornale della città di Portland che, in termini di tiratura, occupa la 19esima posizione tra i newspaper degli Stati Uniti.
Non passa un periodo felicissimo tanto che, la scorsa estate, è stata comunicata la riorganizzazione dello staff e la scelta di ridurre a quattro le copie a stampa per focalizzare gli sforzi nell’informazione online. L’obiettivo dichiarato è quello di far diventare il gruppo editoriale una digital-first company.
Per adattarsi ai cambiamenti del pubblico di lettori e del mondo della pubblicità, la prima mossa è stata quella di puntare sullo sviluppo di OregonLive.com che, se mette in secondo piano la testata e il formato giornale, risulta probabilmente uno spazio più dinamico per informare i cittadini. In secondo luogo la direzione ha deciso di dare maggiore enfasi alle edizioni digitali del giornale pensate (e impaginate) per essere fruite da smartphone e tablet.
La problematica più difficile da affrontare per molte piccole-medie testate è il ridimensionamento della pubblicità: se, a livello generale, la pubblicità su Google e gli altri strumenti della Rete ha negli USA ormai sorpassato l’advertising a stampa, le cifre per quel che riguarda il comparto editoriale non sembrano seguire lo stesso trend. E così, all’implosione del mercato pubblicitario su carta, quasi mai corrisponde una solida crescita dell’adv online. Non resta, quindi, che tentare di ridurre i costi (sperando di non dover abbattere la scure sul personale).

Leggendo l’editoriale pubblicato da Peter Bhatia, vicepresidente dell’Oregonian Media Group, che presenta il cambio di rotta entrato del The Oregonian entrato nel vivo lo scorso primo ottobre, emergono alcuni spunti interessanti:

• se Internet enfatizza la velocità, c’è ancora spazio per redazioni che si occupino di inchieste, di approfondimenti, di verifica delle fonti;
• i giornalisti non si devono più preoccupare del posizionamento della notizie sul quotidiano, devono pensare in funzione del web non più della carta (spazio quindi, ad esempio, alla multimedialità);
• la sfida è, per i giornalisti come per chiunque si occupi di comunicazione nel web, quella dell’engagement dei lettori; e l’interattività dei mezzi digitali in questo senso offre notevoli opportunità;
• di fondamentale importanza l’analisi dei dati relativi al comportamento dei lettori che possono aiutare la redazione a focalizzare al meglio ciò interessa alla comunità.

Il viaggio intrapreso dal giornale di Portland e da tante altre testate a carattere locale è una gara ad ostacoli che comporta un radicale cambiamento culturale, una nuova prospettiva con ben poche certezze. Che investe le figure professionali come i semplici lettori. Ma che pare ormai inevitabile da affrontare, prenderne coscienza è un buon inizio.