Another Earth, Terra1 chiama Terra2

Tra i film dell’ultima edizione del festival di Locarno sono riuscito a vedere una pellicola statunitense sci-fi che consiglio di non perdere agli amanti del genere. Si intitola Another Earth (regia di Mike Cahill) e vede per protagonista una ragazza di nome Rhoda (una bellissima Brit Marling) che, studentessa di astrofisica, sogna di esplorare il cosmo.

Proprio dallo spazio, un puntino luminoso blu che un giorno appare nel cielo, cambierà la sua vita e quella di John Burroughs, un compositore di talento che proprio in virtù di quel piccolo nuovo astro vedrà di colpo mutare, come per Rhoda, il corso del proprio destino.

Passano gli anni e quello che in principio non era altro che una fioca luce azzurrognola si rivela in realà un pianeta identico, almeno all’apparenza, alla Terra, e in costante avvicinamento.
Scienziati di tutto il mondo cercano una spiegazione al fenomeno e quando, in diretta televisiva, dal SETI Institute si riesce, dopo vari tentativi, a imbastire una comunicazione con Terra2 – questo il nome dato a nuovo pianeta – la curiosità, non solo tra gli addetti al lavori, scatena le più fervide immaginazioni.

Nel frattempo, un magnate con l’hobby dello spazio, organizza un volo di ricognizione su Terra2 e mette in palio uno dei posti a bordo dello shuttle a chi riuscirà a convincerlo ad assegnargli un biglietto verso una destinazione che, nonostante i potenti strumenti di osservazione, resta ancora avvolta nel mistero.

Un film che forse non brilla per originalità (a tratti ricorda il 21 grammi di Inarritu) ma che risulta comunque di piacevole visione capace com’è di stimolare le fantasie legate alla scoperta di un mondo sconosciuto e le riflessioni sulla vita, la morte e il desiderio di ricominciare nonostante le avversità. Molto belle (quanto strane) le immagini di Terra2 vista da Terra1 e il finale “aperto” che lascia libero sfogo alla fantasia. Spaziale.

Poetry, gli scorci poetici di Chang-dong

I film coreani mi affascinano anche (e forse soprattutto) perché non riesco mai a capirli appieno, c’è sempre qualcosa, qualche particolare, qualche messaggio, che sfugge alla mia comprensione. Non tutto ai miei occhi appare avere un senso e questa mancanza di logicità a tutto tondo mi appaga.
Fatta questa premessa, appena ho saputo della proiezione di Poetry al tradizionale cinema all’aperto estivo, non ho saputo resistere.
Il film – opera di Lee Chang-dong premiata a Cannes – ha come protagonista Mija, un’anziana signora che, divisa tra un lavoro part time come badante e la cura del nipote, riscopre una delle sue passioni giovanili, la poesia, iscrivendosi a un corso per provetti poeti.
La vita tranquilla della signora viene però sconvolta da due avvenimenti improvvisi che ne scuotono le giornate e che riesce ad affrontare proprio grazie al proprio nuovo hobby. Anche se inizialmente non trova un metodo per riportare su carta i propri sentimenti, le proprie emozioni (forse troppo a lungo sopite), Mija alla fine risulta in grado di dar voce a quello che molti, parlando della pellicola, hanno chiamato l’invisibile (non voglio svelare troppo circa la trama e i suoi risvolti).
La particolarità del film che più ho apprezzato è stata quella relativa al completo rovesciamento delle parti tra nonna e nipote rispetto alle mie aspettative: la prima molto è più “ingenuamente pura” la cui vita è dettata da continui gesti d’amore e di apprezzamento (nei confronti degli altri, della natura, della vita in generale), il secondo invece, burbero, e menefreghista, sospeso tra la tv, il computer e i propri amici, pare capace di apprezzare solo ciò che è immediato e l’effimero.
Per la protagonista del film non si può che provare simpatia e al contempo tenerezza: una donna fragile, sola ad affrontare una vita difficile, gli acciacchi dell’età che avanza e che si trova ad accudire un nipote con il quale non riesce ad instaurare un dialogo. E che proprio grazie alla poesia riscopre la riflessione e quel “non dare mai per scontato” che le permette di accettare e superare le avversità quasi i versi siano un modo di vedere e assaporare la vita nonostante il dolore che essa spesso può procurare. Un film semplice ma che anche grazie all’ottima interpretazione di Yu Junghee e alla delicata regia di Chang-dong regala emozionanti scorci… di poesia.

La storia di Facebook. Raccontata da Kirkpatrick.

Il libro Miliardari per caso (e poi il sucessivo film The Social Network) ha presentato al grande pubblico una determinata versione di Mark Zuckerberg.

Non ho la fortuna di conoscere personalmente Mark ma credo che i media non corso di questi anni abbiano probabilmente proposto la parte di Zuckerberg che più strizza l’occhio ai caratteri ticipi dei personaggi “da cinema”: astuto, spietato, smanioso di successo è stato dipinto un po’ come una simpatica canaglia, stravagante nei modi quanto determinato nel credere in un progetto che sta rivoluzionando l’idea stessa di web.

Ma ciò non mi bastava, volevo scavare più a fondo nella storia del fondatore di Facebook per capire cosa ci fosse alla base del progetto, quali fossero state le fasi salienti della sua ascesa e – se possibile – quali gli scenari futuri.

Pensavo la mia fosse un’esigenza esagerata ma fortunatamente, grazie a Luca Conti, ho avuto modo di conoscere (dal vivo, con tanto di autografo!) David Kirkpatrick che con il suo Facebook la storia – Mark Zuckerberg e la sfida di una generazione, ha raccontato la “vera” storia dietro il social network più famoso (qui un’anteprima del libro). Vera perchè basata su interviste, racconti, aneddoti verificati, tutti riportati con dovizia di particolari e sfumature che permettono davvero di capire come dietro Facebook non ci sia banalmente un’azienda e il suo amministratore delegato ma milioni di utenti uniti da una precisa visione del mondo.

Una lettura davvero appassionante che parte Harvard e arriva a Wall Street seguendo le tracce di un ragazzino che all’età di diciannove anni fonda una delle startup di maggior successo della storia. Le pagine scorrono e pian piano si delinea in maniera più nitida il progetto Facebbok e non si possono che apprezzare la caparbietà e la determinazione con le quali Mark ha rifiutato facili compromessi puntando inizialmente tutto sulla crescita a discapito del profitto.
Con un unico obiettivo: trasformare, semplificando, le interazioni sociali e in generale la comunicazione online.

Alcune parti mi hanno davvero lasciato a bocca aperta: gli inizi, poi Palo Alto, gli investitori, gli utenti che continuano a crescere, la privacy, l’advertising, la rivalità con Google, il rapporto con Microsoft, le prime critiche, i cambi di personale, tutta una serie di accadimenti che rendono lo stardinario successo di Facebook e del suo fondatore quasi astratti.

L’uomo, l’impresa, il successo recita il libro in copertina. Bello e avvincente complimenti davvero, lettura consigliatissima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il vero lusso è il tempo

Ho conosciuto Helen Nonini non molto tempo fa. E sono subito rimasto colpito dalla particolarità della sua persona (ecco una delle sue ultime videointerviste). Ecco perchè quando poi ho saputo che di lì a poco avrebbe pubblicato un libro – da lei scritto e “interpretato” – mi sono subito impegnato per recuperarne un copia.
Professione Problem Solver, questo il titolo dell’opera prima di Helen, racconta le avventure lavorative (e non) di H., un’affascinante quanto elengante donna chiamata ad assecondare in maniera pressochè immediata le richieste di aiuto più disparate (alle volte veri e propri capricci, dalla richiesta di cibi esotici al desiderio di partecipare a eventi esclusivi) che clienti da tutto il mondo le sottopongono via BlackBerry. Insomma la versione femminile del Winston Wolf di tarantiniana memoria. Un lavoro cinico, senza orari prestabili, sempre diverso, basato sulla dimestichezza con il web e la “cura” delle relazioni di persone che, ognuna a suo modo, possono rappresentare la giusta chiave per risolvere un problema.
La cosa divertente del libro è però il paradosso che si rivela scorrendo le pagine: il problem solver, persona votata alla risoluzione dei problemi altrui, riuscirà a trovare valide soluzioni anche per superare dubbi e difficoltà della propria vita?
Professione problem solver si legge tutto d’un fiato e, nella scrittura a mio parere restituisce appieno la schematicità, l’essere “minimal” e senza fronzoli tipici di un perfetto problem solver. Un testo che è anche lo specchio delle “stranezze” del nostro tempo legate soprattutto al mondo del lusso e alle sue manie, al continuo bisogno di “stupire” che lo alimenta dall’interno. E al perenne di bisogno di risparmiare tempo. Complimenti!

La favola del re balbuziente

Dopo il trionfo (in parte inaspettato) agli Oscar, non ho potuto esimermi dal vedere il tanto acclamato Il discorso del re. E sinceramene non mi ha colpito particolarmente. Un film carino, a tratti simpatico, ben recitato dall’attore protagonista Colin Firth (che infatti si è aggiudicato la statuetta come migliore attore).
Ma non mi ha lasciato molto alla fine: la sceneggiatura, molto semplice, non è riuscita a trascinarmi e, a tratti, mi è parsa lenta e scontata. L’idea di un sovrano “imperfetto”come ognuno dei propri sudditi (e in questo molto “democratico”, alcuni osservatori suggeriscono che anche per questo motivo, sull’onda di quanto sta accadendo nel Nord Africa, forse si è voluto premiare il film per regalare al mondo un messaggio di speranza) è stata sviluppata, a mio modo di vedere, solo in maniera superficiale e per nulla corale.

Alcuni giorni dopo aver visto il film al cinema mi è tornato alla mente un altro film inglese, The Queen – La Regina datato 2006, che mi pare avere più di un’analogia con la pellicola di Tom Hopper.

Pur presentando dei monarchi praticamente agli antipodi i due film sembrano in qualche modo legati: se ne Il discorso del re la sofferenza è causata da una forma debilitante di balbuzie, in The Queen, la difficoltà di parola è dovuta alla prematura morte di un parente scomodo probabilmente mai accettato in famiglia sino in fondo. In entrambi i casi il popolo è allo stesso tempo un “test” da superare e uno “specchio” in base al quale valutare il proprio indice di gradimento. Ma mentre il logopedista Logue riesce nell’intento di far “maturare” il futuro Re Giorgio VI d’Inghilterra, il povero Tony Blair convincerà con estrema fatica la regina Elisabetta II a esprimere pubblicamente il cordoglio per la morte della Principessa Diana.

Insomma se entrambe le pellicole si focalizzano sull’istituzionalità del conservatorismo regale, paradossalmente esce dal confronto vincitore il monarca più lontano dai nostri giorni.

Concludendo: il film è piacevole ma leggerino e a mio modo di vedere complessivamente non all’altezza dei “rivali” alla corsa dell’Oscar The Social Network, Inception e Il Cigno Nero. Nonostante la vittoria finale.

Tornassi indietro mi piacerebbe vedere il film in lingua originale per apprezzare ancora di più gli attori protagonisti e le loro inflessioni.

Fiori per Algernon… e anche per Charlie

Non mi capita spesso di “divorare” libri in quattro giorni, di venir preso tantamente tanto dalla voglia di conoscere gli sviluppi di una storia da non riuscire a staccarmi dalle pagine di un romanzo. Fiori per Algernon di Daniel Keyes è uno di quei testi, uno di quei libri che mi ha rapito e trascinato. La storia vede per protagonista Charlie Gordon, un ragazzo “difficile”, deriso e abbandonato dai suoi stessi genitori per via delle sue difficoltà cognitive e per la sua scarsa memoria. Un’operazione però cambia tutto e consente in poco tempo a ridicolo Charlie di triplicare il quoziente di intelligenza e di superare tutti in arguzia e conoscenza. Suo alter-ego al laboratorio è Algernon, un piccolo roditore sottoposto come Charlie a un esperimento che lo ho reso abilissimo nei labirinti con i quali viene messa alla prova la sua intelligenza. La sete di sapere di Charlie cresce velocemente, i progressi nella scrittura e nella lettura veloce sono sbalorditivi, persino l’espressione del suo volto si modifica con il trascorrere dei giorni che seguono l’intervento. Di pari passo cambia però anche la percezione che egli stesso ha nei propri confronti e in riferimento a coloro che sino ad allora lo hanno circondato. Il passato, con l’aumentare dell’intelligenza, pian piano riaffiora: Charlie rielabora così tutti gli anni sino ad allora trascorsi lottando con i fantasmi di una vita dura, povera negli gioie e negli affetti. In lui inoltre, con passare dei giorni, l’apprezzamento nei confronti di coloro che lo hanno reso (finalmente) intelligente muta in disprezzo per uomini che in lui vedono solo una cavia o un trofeo e non un individuo degno di rispetto, nonostante tutto, anche prima dell’intervento.
Come cambierà il carattere di Charlie? Riuscirà la sola intelligenza a colmare la fragilità emotiva del ragazzo? Quale sarà il prezzo da pagare per essere diventato in pochissimo tempo uno degli uomini più intelligenti al mondo?
Un libro davvero bello, scritto nel 1959 ma ancora fresco e capace di coinvolgere, giustamente considerato da molti uno dei più bei racconti brevi di fantascenza.

p.s.= l’episodio HOMR della stagione 11 dei Simpson, con protagonista Homer, si ispira proprio a Fiori per Algernon

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo

La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo è un libro di Audrey Niffengger che ha saputo, con il suo titolo, attirare da subito la mia attenzione. Protagonista del libro è Henry, uomo che, in virtù di un “disturbo” sconosciuto, si differenzia dalla normalità delle persone per la propria capacità di viaggiare nel tempo, di lasciare per alcuni minuti la realtà nella quale vive per catapultarsi in un tempo, sempre a lui legato, ma che rappresenta il passato o futuro di quella che è stata o sarà la sua vita. Di solito in questo suo giocare con le lancette dell’orologio resta un puro spettatore nascosto a osservare le prospettive di fatti già vissuti o succose anteprime circa avvenimenti che lo vedranno coinvolto con il passare del tempo. In uno dei viaggi Henry però si ritrova, senza vestiti – questo uno dei punti dolenti delle sue perenigrazioni lungo l’asse temporale – nel prato della casa di una giovanissima Clare: lei ha sei anni, lui trentasei, iniziano a parlare e, vinte le reciproche paure, cominciano ad instaurare quel rapporto di complicità che poi diventerà concreto quandi i due, entrambi ventenni, si incontranno in una biblioteca. I viaggi tuttavia non finiranno. E con loro non si esauriranno nemmeno le difficoltà, i timori e i mille interrogativi connessi ad un’esistenza sempre in sospeso tra passato, presente e futuro. Una vita che quindi diventa ancora di più tante vite, ognuna con il proprio fardello, la malinconia e al contempo la rabbia per non aver poter fermare il tempo una volta per tutte. Con una persona abituata a vivere non solo nel presente, a non avere certezze se non l’incertezza e l’instabilità della propria persona si può porre in essere un rapporto costruttivo? Il libro parla proprio di questa sfida, del modo diverso ma in fondo unito da un comune sentimento, di (soprav)vivere le tante vite di Henry, i suoi viaggi nel tempo e la sua incapacità di essere solo “ora”, raccontando contemporanemente i sentimenti e le riflessioni di chi si trova a vivere in prima persona l’esperienza del viaggio nel tempo e di chi invece non può che assistere inerme al continuo apparire e scomparire di colui con il quale si è deciso di vivere.
Il libro – come ho potuto notare su aNobii – riesce perfettamente nell’intento di dividere il pubblico di lettori: da una parte chi si lascia trasportare trovando il romanzo di assoluto rilievo, dall’altro chi invece sottolinea come la storia sia troppo melensa e irreale. Tra queste due opposte visioni mi pongo nel mezzo: il testo è di piacevole lettura e grossomodo scorrevole. Bello anche il continuo racconto in doppia prospettiva Henry-Clare. Ma in effetti forse sul finale la storia corre molto, tante cose rimangono in sospeso altre invece si euriscono senza una spiegazione che giustifichi appieno l’accaduto. Ma il mistero va da sé in trame del genere non può essere ignorato.

p.s.= Nel 2009 è stato realizzato un adattamento cinematografico del romanzo, diretto da Robert Schwentke, intitolato Un amore all’improvviso

Il diario struggente di un ragazzo qualsiasi

L’opera struggente di un formidabile genio è un libro leggero e la cui lettura scorre veloce. E’ una sorta di diario autobiografico dell’autore – Dave Eggers – giovane investito, nel giro di pochi mesi, da un destino che lo proeitta in una nuova città, con la responsabilità di dover crescere il fratellino Toph e con il sogno di “Might” una rivista fondata con degli amici che punta a dare voce a una generazione.
Il libro gioca costantemente tra l’ironico e il tragico proponendo la figura di un ventenne come campione dei ragazzi di oggi cresciuti tra MTv e consolle, cibi pronti e ambizioni di successo.
Le parti più divertenti sono quelle legate alla strategia educativa adottata da Dave nei confronti del fratellino che con lui vive: è combattuto tra la propria indole indipendente e l’impostazione severa datagli a suo tempo dai genitori, perennemente alla ricerca di un compromesso per non apparire – agli occhi di chi non conoscendo la storia della sua famiglia lo scambia per il padre di Toph – troppo severo ma nemmeno troppo “hippy”.
I tentativi – sgangherati – di essere una figura modello e le paure che ogni volta in cui non può occuparsi direttamente del fratello scatenano contemporaneamente ilarità e tenerezza.
Forse l’unica pecca è quella della mancanza di una trama ben precisa: proprio come un diario le pagine del libro non hanno un filo conduttore ben dettagliato: incontri, viaggi, pensieri, avvenimenti si susseguono quasi completamente in ordine sparso dando (quasi) l’idea di un disegno per nulla definitivo nel quale i vari personaggi si muovono in costante evoluzione e con attori non protagonisti che entrano e escono continuamente dalla scena senza dover necessariamente contare qualcosa nello sviluppo del racconto. L’aspetto legato alla “genio” richiamato dal titolo, a mio modo di vedere, è forse una sorta di iperbole che sottolinea come in realtà il sopravvivere alla quotidiana “normalità” sia impresa tutt’altro che scontata e banale, soprattutto quando la vita, come nel caso di Dave, sembra accanirsi mettendoci di continuo alla prova.

p.s.= ho scoperto che nel 2008 Dave Eggers ha collaborato con il regista Spike Jonze alla stesura della sceneggiatura del film Nel paese delle creature selvagge

Alice in Wonderland, le mie opinioni

Con Alice in Wonderland Tim Burton ha voluto sfidare se stesso. Il suo intento infatti era quello di rispettare l’essenza romanzo di Lewis Carroll portando sul grande schermo lo spirito e l’immaginario surreale del testo. Impresa non da poco. Appena uscito mi sono precipitato al cinema per vedere la nuova versione Disney ma ne sono rimasto in parte deluso. Così mi sono rifugiato in libreria e ho acquistato l’ormai classico di Carrol nella sua versione completa Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio. A termine della lettura però la situazione non è affatto migliorata, anzi forse il mio scetticismo nei confronti della pellicola è aumentato. Per carità, nulla da dire sulla regia, la cosa che poco mi convince è la sceneggiatura. Se infatti l’obiettivo era quello di allontanarsi dalle versioni precedenti creando una versione di impatto – per usare le parole di Burton stesso – beh, a mio parere la cosa non è riuscita appieno. Il film non è stato in grado di calarmi completamente nella dimensione del sogno, non è stato in grado di trascinarmi nel mondo fantastico ricco di personaggi e ambientazioni diverse che invece si è materializzato nella mia mente leggendo l’omonimo libro. Nonostante apprezzi Depp, ad esempio, il ruolo del personaggio del Cappellaio Matto, seppur ben caratterizzato, mi è parso troppo centrale rispetto alla storia narrata dal testo nel quale la sua presenza risulta marginale (leggendo il libro il Cappellaio non mi è sembrato per nulla coraggioso). Tra l’altro, il personaggio più “positivo” del libro, quello di cui Alice si ricorderà anche tornata alla realtà, è il Cavaliere Bianco alter ego di Caroll. Il film presenta dei nuovi personaggi rispetto alla versione a cartoni animati Disney ma nonostante tutto, a parte l’età della protagonista (in questo senso si potrebbe forse parlare di sequel del classico Alice), non si distacca poi molto dai precedenti remake. I continui cambiamenti di paesaggio tipici della partita a scacchi di Attraverso lo Specchio non ci sono, come non vengono richiamate tutta quella serie di operazioni eseguite al contrario (prima distribuire le fette di torta e poi tagliare il dolce) che rendono il mondo al di là dello specchio quanto mai singolare. Mancano personaggi quali Humpty Dumpty (l’uovo in bilico sul muro), la Finta Tartaruga, la Duchessa che avrebbero potuto rendere la pellicola più originale. Insomma, in ultima analisi, forse si è resa la storia un po’ troppo epica con il riferimento al Grafobrancio e al Ciciarampa (scherzando ho scritto su twitter che a tratti mi è sembrato di vedere “Il signore degli Anelli”), perchè poi, a ben notare, nel testo il Pedone Bianco Alice “sconfigge” entrambe le regine diventando, in undici mosse, loro pari.
Anche il personaggio della protagonista a dirla tutta non mi ha esaltato: certo Alice nel libro è cortese, educata, con un notevole istinto pratico ma nonostante la tenera età dimostra comunque un caratterino niente male capace di ribattere colpo su colpo agli strambi figuri che incontra nel corso della sua avventura. Ovviamente, almeno nella versione italiana, si perde anche il linguaggio poetico ricco di parodie e paradossi che la versione in lingua originale offre al lettore. Concludo sottolineando come anche il fatto che per risparmiare sui costi la produzione abbia deciso di convertire in tridimensionale scene girate con la tecnica tradizionale non mi abbia particolarmente entusiasmato.
Insomma se l’idea di fondo era quella di trasformare in immagini un testo di Caroll l’opera di Burton non mi sembra, diciamo così, quella definitiva. Per carità, resta comunque un film di piacevole visione ma dal regista di Ed Wood e Big Fish (dimenticando il suo remake de Il pianeta delle Scimmie), mi sarei aspettato qualcosa di più spettacolare.

Rifugiandosi tra le nuvole

Jason Reitman, il regista di origini cecoslovacche dopo l’acclamato Juno – storia di un’adolescente rimasta incinta – torna sugli schermi con Tra le nuvole, una nuova spassosa, sarcastica e intelligente commedia.
Protagonista della pellicola Ryan Bingham – interpretato da George Clooney – brillante tagliatore di teste che, sullo sfondo di un’America più che mai colpita dalla crisi, macina miglia su miglia in giro per gli States con l’ingrato compito di comunicare a parte del personale di essere ormai in eccesso.
Con un metodo freddo e razionale Ryan conduce il proprio lavoro come la propria esistenza senza desiderare affetto, legami e qualsiasi altro aspetto che possa “appensantire” lo zaino che – come lui stesso recita quando viene chiamato a raccontare la propria way of life – ognuno di noi porta sulle spalle. Un’esistenza solitaria e profondamente egoistica della quale però, visto il continuo “stare sulle nuvole”, lontano da tutto e tutti, non si rimprovera nulla.
Ma il destino ama rimescolare le carte, anche ad alta quota. E così, proprio quando anche l’azienda di Ryan in nome del risparmio prospetta un ridimensionamento del contatto umano che da sempre caratterizza il lavoro di chi come lui è pagato per licenziare, ecco che incontra Alex, un’affascinante donna nella quale si riconosce e che porterà a tal punto scompiglio da far barcollare le certezze di una vita tra aeroporti, alberghi e automobili in affitto.
Un film – tratto dall’omonimo romanzo di Walter Kim – che ai miei occhi si è rivelato una piacevole sorpresa, fortunatamente lontano anni luce da alcune banali pellicole sul difficile equilibrio tra amore, lavoro, successo, con un cast di attori convincenti e perfettamente calati nella parte, con una sceneggiatura mai noiosa e, nonostante il retrogusto amaro, a volte anche ricca di momenti ironici (non a caso il film ha raccolto sei candidature al premio Oscar). Carina anche la colonna sonora (e, in particolare, la traccia Help Yourself di Sad Brad Smith) e lo spazio che raccoglie i messaggi di Twitter legati alla pellicola.