Il ruolo di web e tv nella campagna elettorale 2014

Mentre gli echi della tornata elettorale della scorsa domenica paiono ancora lontani dall’esaurirsi, una volta diffusi i dati del voto, forse per deformazione professionale, mi é venuto spontaneo riflettere sul ruolo della Rete nella (brutta) campagna elettorale appena conclusasi.
Rispetto alle elezioni politiche del 2013 (l’appuntamento con i seggi più vicino in termini temporali), mi è parso che il ruolo del web sia rimasto “stabile” se non addirittura in discesa.
Con questo non voglio intendere che la Rete abbia avuto un ruolo marginale nel dibattito politico, ma parlando in termini di media, ad averla fatta da padrona mi è sembrata essere (nuovamente) la televisione.
E questo non solo perché anche il Movimento 5 Stelle, precedentemente molto lontano dalle dinamiche televisive, non è riuscito ad esimersi dai confronti tv, quanto perché al di là dei post di Grillo, dei tweet di Renzi e degli status su Facebook di Matteo Salvini (giusto per citare 3 protagonisti della scena politica italiana), il consenso mi sembra essersi costruito soprattutto sul vecchio “tubo catodico”.
In altre parole, benché cresca – tra politici e non – l’uso del web e la dieta informativa di ognuno di noi sia ormai formata da una molteplicità di stimoli provenienti da strumenti e fonti differenti, la tv continua ad essere nel nostro Paese il medium per eccellenza.

Nell’analisi del rapporto web-tv mi è stato di supporto un interessante libro di Lella Mazzoli dal titolo Cross-news. L’informazione dai talk show ai social media. Un testo che, sulla base delle interviste ad alcuni dei più autorevoli professionisti della tv, tenta di tracciare i cambiamenti in atto nel mondo televisivo sulla scia delle nuove modalità di fruizione delle informazioni che il web consente. La scelta dello studio, nello specifico, dei talk show non è stata per nulla casuale: sono proprio questi programmi quelli che (probabilmente assieme ai talent) più tentano di far proprie le dinamiche della comunicazione interattiva online rimettendosi in gioco, almeno parzialmente, per superare il dogma dello spettatore passivo che per anni ha caratterizzato l’informazione televisiva.

Img: codiceedizioni.it

Non si tratta di un vero e proprio cambiamento di paradigma, quanto piuttosto di un’ibridazione di tecnologie che rende il panorama più frastagliato. Basti pensare, per esempio, al fenomeno del cosiddetto second screen per il quale gli spettatori non concentrano più le proprie attenzioni verso un solo schermo ma, pressoché in tempo reale, commentano ciò che vedono/sentono attraverso i social network. Un nuovo pubblico che se forse non rappresenta ancora la maggioranza di chi guarda la tv, sta sicuramente contribuendo a riscrivere le regole che sottendono ai palinsesti televisivi.

In questo senso, i talk show, una delle principali forme di approfondimento e formazione dell’opinione pubblica, non poteva certo esimersi dal testare nuove forme di creazione dei contenuti, di conduzione dei dibattiti, di partecipazione del pubblico.

In realtà, senza poi svelare troppo circa le conclusioni alle quali arriva il libro, sebbene il processo di rinnovamento sia inevitabilmente partito, la Rete (e quindi gli utenti online) non è ancora riuscita ad entrare nel vivo dei programmi. L’interazione, ad esempio, per molte trasmissioni non è tanto tra la redazione e gli utenti, quanto tra spettatori e spettatori il cui confronto anima il dibattito solo online.

Da questo punto di vista, mi pare emblematico il caso del profilo @RaiBallaro che pur potendo contare su oltre 134.000 follower e oltre 5.200 tweet, non “segue” nessuno e non interagisce con gli altri utenti.
Nulla di sbagliato, per carità, legittima scelta. Solo, mi pare, un utilizzo riduttivo – una sorta di mera cassa di risonanza – di uno strumento che ha profondamente cambiato il panorama informativo.

Due gradi e mezzo si separazione di Domitilla Ferrari [recensione]

Due Gradi e Mezzo di SeparazioneHo la fortuna di conoscere personalmente Domitilla (e Maurizio) al decimo incontro della GGD Milano, nell’ormai lontano dicembre 2009. Mi è da subito sembrata una persona interessante, con la quale confrontarsi in maniera divertente e costruttiva. Per paradossale che possa sembrare il nostro “fare rete” è quindi iniziato offline per poi trasferirsi online. Su web ci siamo sentiti per lavoro, per scambiarci dei pareri (ricordo ancora con piacere di aver potuto dire la mia sul suo progetto a favore di UNHCR), per leggerci su blog e social network. Ogni tanto ci siamo anche rivisti vis à vis a qualche evento (istituzionale o pensato ad hoc per il lancio di una qualche iniziativa) ma, al di là, del numero di messaggi scambiati o del lasso temporale tra una comunicazione e l’altra, ho sempre sperato di poter contare sulla sua professionalità, sulla sua curiosità, sulla sua capacità di mettere in contatto le persone.

Ecco spiegato perché all’uscita di Due gradi e mezzo di separazione – Come il networking facilita la circolazione delle idee (e fa girare l’economia), facendo parte del suo fan club (espressione questa che nel testo di tanto in tanto compare), ero molto curioso. Curioso di capire l’approccio usato, lo stile, la scelta degli argomenti trattati.
Forse anche per questo motivo, ho finito il libro in meno di 24 ore. Perché è semplice, scorrevole, interessante, dai capitoli brevi corredati dalla giusta sintesi che arriva al nocciolo della situazione evitando inutili orpelli.
E sì, lo ammetto, mi ha spiazzato. Non avevo un’idea precisa di che cosa avrei letto. Dal titolo e dal booktrailer qualcosa avevo intuito, ma sinceramente immaginavo fosse più “manuale” di quanto in realtà Due gradi e mezzo di separazione alla fine sia. Perché se è vero che non mancano le parti un po’ più tecniche legate a microinterviste o approfondimenti, in realtà il libro è più una guida al networking come stile di vita che un saggio sui social media. E’ un invito alla condivisione dei saperi, a conoscere nuove persone di ambiti diversi dai propri, a curare i rapporti con i nodi della propria rete, all’utilizzo sincero e consapevole degli strumenti che il web ci permette di usare.
Il libro possiede almeno un altro grande pregio: sottolinea più volte come l’online non sia in antitesi all’offline, indicando i social media, se usati con criterio per quello che sono, come strumenti in grado di avvicinare le persone piuttosto che isolarle.

Il paradigma della rete – inteso in maniera astratta come nodi che tra loro danno luogo a una fitta rete di connessioni – implica un cambiamento di prospettiva che finisce (almeno potenzialmente) per influire anche sulla nostra quotidianità. Domitilla ci invita ad affrontare la sfida vivendo in maniera più consapevole il rapporto con le nuove tecnologie che hanno reso il mondo ancora più “piccolo”. E di questo non possiamo che ringraziarla.

p.s.= il prossimo giovedì 27 febbraio dalle ore 18, presso la libreria ibs di Padova, avrò il piacere e l’onore di conversare con Domitilla su Due gradi e mezzo di separazione. Se volete suggerirmi qualche domanda, commentate liberamente (o segnalatemi, citandomi, una domanda su Twitter utilizzando l’hashtag del libro #duegradiemezzo). Potrebbe essere un modo intelligente per ridurre i gradi di separazione tra voi e l’autrice.

Invertising, dall’idea all’ideale

Nutro un notevole interesse per la comunicazione e i suoi sviluppi. Se per passione negli ultimi anni ho approfondito l’aspetto informativo legato in particolare ai nuovi media, è anche vero che l’ambito lavorativo mi ha quotidianamente portato a contatto con il mondo della pubblicità. Ecco spiegato perchè, avuto tra le mani Invertising di Paolo Iabichino, mi sia subito immerso nella lettura del libro. Testo che mi ha davvero entusiasmato, uno di quei libri costruttivi che non puoi esimerti dal consigliare ad amici e colleghi. Di cosa parla? In estrema sintesi (e senza rivelare troppo), di cambiamento, di inversione di marcia. Il fulcro dell’approfondimento che il testo propone è, infatti, quello che sia oggi necessario un nuovo approccio per brand e agenzie che porti ad una apertura, a un cambiamento di prospettiva, a un dialogo in grado di “avvvicinare le persone alle marche su territori valoriali condivisi”. Molte le similitudini che leggendo ho indivuato tra la pubblicità e il giornalismo, sfere entrambe spesso superficialmente tacciate di rappresentare realtà negative da superare. E invece, probabilmente, come suggerito dal saggio, si tratta di individuare modalità che possano ridare dignità e nuove dimensioni ad ambiti ancora validi e che esistono (e hanno senso) a prescindere dai mezzi attraverso i quali prendono forma. A patto che tralascino l’autorefenzialità, l’ossessione del target e delle mere vendite, e che focalizzino i loro sforzi nello stimolare la partecipazione, obiettivo vero di chi comunica. Un libro ricco di spunti interessanti, di esempi (spesso vissuti in prima persona), di rielaborazioni di concetti di altri autori che si concretizzano nello sviluppo della tesi che sottende il cambiamento di marcia che la pubblicità è chiamata a seguire. Complimenti a Paolo Iabichino per un libro che, nonostante la prima edizione risalga al dicembre 2009 (il testo in realtà ha trovato “nuova vita” su Wired), risulta ancora oggi di estrema attualità, da non perdere!

p.s.=il libro dispone anche della formula “soddisfatti o rimborsati” ma credo sia improbabile che qualcuno terminato il testo si appelli all’editore per riavere quanto speso

99 franchi e un’effimera felicità

Arrivo in stazione con largo anticipo rispetto all’orario di partenza. E senza nulla da leggere. Così, ricontrollato l’orologio, decido di rifugiarmi dal freddo e dalla noia in libreria. All’ingresso campeggiano un bel po’ di libri scontati del 25%. Sono quasi certo di non trovare nulla di accattivante – non al primo sguardo almeno – ma in realtà un testo dalla copertina verde riesce ad incuriosirmi. Prendo in mano il libro, evito accuratamente la quarta di copertina e, come si fa con i prestigiatori, pesco una pagina a caso, la numero 16. Senza pensarci troppo leggo:

Tutto è provvisorio e tutto si compra. L’uomo è un prodotto come gli altri, con una data di scadenza. Ecco perché ho deciso di andare in pensione a 33 anni. Pare sia l’età migliore per resuscitare.

Gulp, rileggo perché non mi sembra vero. E, invece, non è un sogno (o un incubo): ho 33 anni, sono nel pieno di una crisi di mezza età (beh, forse un po’ meno di mezza…) e ho appena letto le pagine di un libro verde che sembra descrivere perfettamente quello che provo. Il caso ha deciso per me, non posso esimermi dall’acquisto. Salgo sul treno e, curioso più che mai, inizio a leggere il romanzo che mi ritrovo tra le mani. Parla di Octave, un pubblicitario che tenta, scrivendo un libro sulla sua vita e il suo lavoro, di sfuggire al mondo fatto di bugie, eccessi e bisogni inutili al quale egli stesso contribuisce. Un urlo disperato di una persona famosa ma sola, ricca ma priva di ciò che conta veramente, di successo nel lavoro quanto scarsa per quel che concerne la sfera privata. Un’analisi spietata sul mondo della pubblicità, sui suoi eccessi, sulle sue stravaganze, sui suoi rituali, sui suoi controsensi, su un crescendo di avvenimenti che alla fine lasciano un retrogusto amaro in bocca e tanti interrogativi senza risposta. Frédéric Beigbeder, l’autore del libro, ha veramente lavorato in un’agenzia pubblicitaria (Young & Rubicam) ed è stato realmente licenziato dopo la pubblicazione del libro e lo scalpore seguito al suo successo: quanto di vero c’è nell’universo che descrive? Una lettura spassosa, una riflessione lucida sui nostri tempi (anche se il libro è datato 2000) assolutamente consigliata. Un unico appunto alla casa editrice (Universale Economica Feltrinelli): era proprio necessario tradurre il titolo originale 99 Francs con Lire 26.900, cifra che mi pare non avere né appeal né senso (lo stesso ragionamento vale per i 13,89 euro della copertina)?

p.s.= il romanzo, nel 2007, è diventato anche un film

Le nuove professioni del Web, per vivere la Rete da protagonisti

Dopo la pausa estiva torno a dare sfogo, tramite il blog, al mio lato più nerd. Ormai un bel po’ di tempo fa ho deciso di fare del web (e dei social media) e delle tecnologie ad esso associate, la mia passione e il mio lavoro. Alle volte però mi sono trovato quasi del tutto impreparato nello spiegare a persone non del settore di cosa mi occupassi (la risposta generica che di solito utilizzavo era: “lavoro nel campo della pubblicità online”). Per fortuna da oggi posso contare su un valido “alleato”. Si tratta del libro Le nuove professione del Web di Giulio Xhaet un testo che presenta con molti dettagli e testimonianze otto profili lavorativi, dal web editor al content curator, dal SEO al reputation manager. Il sottotitolo “fate del vostro talento una professione” non è casuale: il mondo del digital è forse – per ora – una delle poche oasi felici nel mercato dell’advertising. L’entusiasmo però alle volte crea confusione. Per cui ottima l’idea di raccogliere in un libro tutte le informazioni necessarie a capire le peculiarità dei vari profili per dare modo, a chi si voglia affacciare al mondo dell’online, di intuire quale possa fare al proprio caso. Tra l’altro, proprio a questo proposito, carinissima l’idea di individuare attitudini comuni a tutti i profili presentati che si “colorano” con delle stelline in base all’importanza o meno di quella determinata caratteristica per quel tipo di professionalità.

Nonostante la mia breve intervista compaia a pagina 150 nel capitolo dedicato all’All-line Advertiser (ebbene sì, c’è anche la comparsata del sottoscritto), le parti che hanno attirato maggiormente il mio interesse sono state le sezioni dedicate al Community Manager e al Digital PR (dove P sta per People tanto per citare il libro), forse perché più connesse a quello che tutti i giorni è ciò di cui mi occupo.

Per concludere, una nota di merito ai titoli dei vari paragrafi che formano i capitoli, sempre divertenti, e all’idea di inserire a fine capitolo dei QRCode che rimandato al sito creato ad hoc per l’uscita del libro.

Complimenti e buona lettura!

Organizzarsi per sopravvivere al mare magnum che è il web

Il mondo informativo negli ultimi anni ha subito notevoli cambiamenti. La funzione, ad esempio, di gatekeeper, di filtro di alcuni mass media appare oggi almeno in parte superata da nuovi strumenti – primo su tutti il web – che permettono da un lato a qualunque utente di diventare un “canale” comunicativo dall’altro consentono ad ognuno di noi di realizzare la propria cornice informativa personalizzata. Non bisogna però cadere nel tranello di pensare che ad un volume superiore di informazioni corrisponda automaticamente un migliore modo di utilizzarle. Ecco perché, in occasione del SOTN di Trieste, presso l’angolo Apogeo, sono stato ben felice di riuscire a strappare una copia di Sopravvivere alle informazioni su Internet – Rimedi all’information overload di Alessandra Farabegoli. Un testo del quale da subito ho apprezzato la semplicità, lo spiccato senso pratico e la sintesi con la quale le diverse necessità vengono affrontate. Il libro è una sorta di manuale di “sopravvivenza” che, inserendosi nel filone dell’alfabetismo digitale, punta a fornirci le dritte per organizzare al meglio il nostro tempo e le risorse (email, notizie, link, note, documenti, password) di cui disponiamo.

Consigli mai banali, presentati in maniera approfondita per rendere la nostra “dieta informativa” più ordinata, più efficace e quindi più facilmente fruibile.

E se, almeno per il sottoscritto, la mission inbox zero resta ancora un miraggio, è anche vero che proprio grazie agli stimoli del libro ho iniziato a organizzare la mia posta dividendola in macrodirectory in base al mittente, ho scaricato Remember the Milk una app gratuita per evitare di dimenticare le mia to do list, ho iniziato a salvare i link degli articoli che mi paiono interessanti ma che non posso leggere subito su Instapaper. Insomma mi sento un utente più smaliziato e meno in balia dell’enorme flusso informativo che ogni giorno sono chiamato a navigare.

Mobile Marketing, il futuro nelle nostre mani

Quando sono all’estero e decido di non navigare in roaming mi rendo effettivamente conto di quanto ormai la mia vita sia scandita dall’utilizzo dello smartphone che porto sempre con me. Consultare Twitter, utilizzare Google Maps, caricare foto con instagr.am sono solo tre esempi di azioni diventate ormai – almeno per il sottoscritto – routine.
Ecco perchè quando mi è stato offerta la possibilità di leggere a pochi giorni dalla sua uscita Mobile Marketing: la pubblicità in tasca – libro edito da Fausto Lupetti, autori: Paolo Mardegan, Massimo Pettiti, Giuseppe Riva, prefazione Layla Pavone) sono stato ben contento di approfondire una tematica i cui sviluppi mi interessano molto e che, da utente, tocco letteralmente tutti i giorni con mano.
In effetti in un momento – quello attuale, i cui contorni sono stati ben delineati, ad esempio, nell’evento Google Think Mobile – nel quale il mobile (smartphone + tablet) ha superato i PC (desktop + notebook) e che fa registrare solo in Italia 20 milioni di smartphone (dovremmo orami essere prossimi al sorpasso degli smartphone sui cellulari), non parlare di opportunità legate al mondo della telefonia mobile sempre connessa sembrerebbe ingenuo.
L’emergere di una nuova tecnologia modifica gli assetti “mediali” del mondo dal quale emerge. Diventa allora fondamentale riflettere sui segnali che il mercato sta lanciando per tentare se possibile di comprendere come questa ennesima evoluzione degli strumenti a disposizione possa creare valore sia per gli utenti che per le aziende.
Il testo, con un’analisi teorica molto approfondita (soprattutto in relazione alla “giovinezza” del mezzo smartphone), analizza i nuovi paradigmi del marketing (in the moment) presentando l’orizzonte del nuovo scenario attraverso lo studio del mobile advertising, della geolocalizzazione, del mondo applicazioni e del mobile payment, offrendo al lettore dati di mercato, valutazioni e, nella parte finale, anche casi concreti e testimonianze di alcuni tra coloro che per lavoro quotidianamente si confrontano con un fenomeno in continua dilagante evoluzione.
Visto che ci sono ne approfitto per complimentarmi con gli autori del libro e per ringraziarli pubblicamente per la “citazione” – nella parte relativa al marketing conversazione e al buzz marketing – al libro del quale sono co-autore.

Nella testa di Steve Jobs, il libro

Da tempo volevo leggere qualcosa circa la vita di Steve Jobs. Non l’ho fatto subito perchè in qualche modo la “corsa alla biografia” subito dopo la morte di un personaggio famoso non mi attira per nulla. Alla vigilia della vacanze di Natale però, sprovvisto di una libro da leggere, mi è capitato tra le mani Nella testa di Steve Jobs di Leander Kahney Leander Kahney – edito da  Sperling – e così ho deciso di approfondire la vita dell’uomo sotto la cui guida la Apple ha sfornato un successo dietro l’altro.
Il testo, riproposto in una nuova edizione apliata e aggiornata, racconta l’epopea lavoritiva di Jobs dalla nascita di Apple sino ai giorni nostri, passando per il periodo alla NeXT e quello alla Pixar.
Una serie di testimonianze, racconti, aneddoti, di una delle figure più osannate delle storia recente capace, con le sue scelte (alle volte animatamente discusse anche dei suoi seguaci più fedeli) di rivoluzionare il mondo della tecnologia e dell’entertainment in senso ampio.
Dal suo ritorno in azienda infatti la Apple è cresciuta anno dopo anno arrivando ad essere quasi sinonimo di innovazione.
Scorrendo tra le pagine si può rivivere la ristrutturazione dell’azienda e il nuovo corso impresso da Jobs al proprio team. E ci si può rendere conto di quanto Jobs proietasse, con le sue visioni, verso una pressoché costante rivoluzione la Apple. Think different non è solo uno slogan ma una vera e propria mission che Jobs ha deciso di cavolcare. In questo senso pensare a prodotti come iTunes, l’iPod, l’iPhone o l’iPad è riduttivo. Dietro le quinte Jobs ha suputo leggere meglio di chiunque altro i cambiamenti sapendo far tesoro delle nuove abitudini e delle nuove esigenze degli utenti.
Concetti come “hub digitale” e “connected entertainment” forse ora sono paradigmi scontati ma in realtà hanno rappresentato, in un mercato abbastanza statico come quello dell’IT, dei profondi punti di discontinuità ai quali poi tutti si sono adeguati.
Tra le pagine del libro emerge poi anche il coraggio di Jobs e del suo team: USB, wi-fi, la scelta di una integrazione verticale, la drastica riduzione dei modelli, l’attenzione verso l’unpacking e la cura del design, gli Apple Store, sono tutti esempi che dimostrano come l’azienda sia stata in grado di scuotere in profondità le fondamenta di un mondo che nel giro di pochi anni ha modificato direttamente o indirettamente il nostro approccio a strumenti quali pc e cellulari.
E allora non resta che sorridere di fronte agli “errori” di Jobs: il Power Mac Cube e la scelta di non dotare i primi Mac di masterizzatore (all’inizio Jobs si fece quasi sfuggere la rivoluzione legata agli mp3; poi però si “riprese” ampiamente grazie ad iTunes e iPod).
Un libro che sebbene non rappresenti una biografia autorizzata a mio modo di vedere ben presenta Jobs e alcuni dei suoi colleghi più stretti, aiutando il lettore a delineare la complessa personalità di un personaggio che con il suo credo ha fatto della propria vita un romanzo costellato di successi. Riposa in pace Steve. E grazie di tutto.

L’arte del passaparola, teoria e pratica del word-of-mouth

L’arte del passaparola di Andy Sernovitz è una sorta di manuale che racconta, in maniera semplice e con una miriade di esempi concreti cosa sia il marketing del passaparola, gli strumenti, gli ingredienti e le tecniche per stimolare le conversazioni online e offine attorno a un brand.
Di cosa si tratta? In estrema sintesi – e senza la necessità di anticipare troppi temi trattati nel testo – il marketing del passaparola riguarda le interazioni tra persone, tra consumatore-a-consumatore attorno a prodotti, servizi, iniziative. Conversazioni che spesso scaturiscono in maniera spontanea dall’emozione che deriva, ad esempio, dall’utilizzo di un prodotto piuttosto che dalle sue caratteristiche.
Grazie anche alla Rete – e in particolare ai social media – comunicare le proprie impressioni, i proprio giudizi ad altri utenti è diventato semplice quanto immediato: “siamo diventati una comunità di critici in poltrona” come certifica l’autore del libro.
Gli utenti, con le loro voci, soprattutto se autorevoli in un determinato ambito (che non significa necessariamente vip) possono con le loro opinioni avere un notevole impatto sugli altri consumatori (l’autore si lancia anche nell’affermazione forse un troppo di parte: “più di qualsiasi pubblicità”).
Se da un lato quindi resta fondamentale realizzare buoni prodotti, dall’altro è oggi indispensabile capire cosa spinga le persone a parlare di un determinato argomento e imparare a interagire, a prendere parte a una conversione in corso. Come? Beh, dipende da caso a caso. Il consiglio che viene dal libro è quello di analizzare quanto si discute per poi creare un modo per dare alla conversazione un carattere di eccezionalità, esclusività e divertimento dimenticando l’imperativo categorico “vendere”. E tutti – ma davvero tutti – con pochi semplici passaggi possono iniziare un percorso che permetta loro di creare del passaparola attorno alla propria attività, dall’aggiungere il semplice bottone “tell a friend” nel sito o nelle newsletter a iniziative ben più articolate e complesse.
Andy Sernovits è CEO di GasPedal, un’agenzia specializzata nel word-of-mouth e ha creato Word of Mouth Marketing Association, l’associazione internazionale che raduna tutti gli operatori del settore e che si occupa di trovare metriche e prassi condivise alle quali attenersi: un vero guru del wom la cui passione si percepisce leggendo il testo che però, a dirla tutta, risulta un po’ datato (pochissimi riferimenti alle evoluzioni più recenti dei social media, titolo arrivato probabilmente troppo tardi in versione italiana anche se ha una sua appendice online). Gli esempi, seppur numerosissimi, sono tutti made in US e quindi forse un po’ troppo distanti dalla nostra realtà. Il libro è assolutamente consigliato per chi voglia avere un’infarinatura dell’argomento ma per chi invece mastica già le tematiche legate al passaparola forse risulterà un po’ troppo generico e ripetitivo. A tratti infatti il testo sembra la raccolta degli speech dell’autore senza però un’analisi “scientifica” e realmente strategica con dati, numeri, grafici e considerazioni dettagliate. Sicuramente una scelta voluta per evitare di appesantire la lettura ma che almeno per quanto mi riguarda avrebbe reso ancora più accattivante il testo.
Per concludere un piccolo aneddoto: ho saputo dell’uscita del libro attraverso il profilo twitter dell’autore. Incuriosito ho subito scritto a lui e alla sua casa editrice (la Corbaccio che lo ha inserito, non so per quale motivo, nella collana de I libri del benessere) per sapere se fosse possibile avere una copia da leggere e recensire per generare un po’ del più volte citato passaparola attorno al nuovo volume. Niente, nessuna risposta. Disappunto, speravo che almeno stavolta non fossero solo parole su carta.

Marketing in the Groundswell, il libro giallo del web marketing

Proprio a cavallo della Social Media Week ho terminato la lettura di Marketing in the Groundswell, il piccolo libro di Charlene Li e Josh Bernoff che tenevo da molto tempo (troppo?) sul mio comodino accanto al letto.

Un testo, quello della Harvard Business Press, davvero molto interessante che, pur non essendo recentissimo (è datato 2009) riesce a sintetizzare alcune tra le strategie più attuate online.

Your brand is whatever your customer say it is“: questo l’assunto di partenza che consiglia di ascoltare prima di agire. Un ascolto non solo finalizzato ad individuare la cosiddetta percezione di marca ma anche a capire il cambiamento in atto nel modo di interagire degli utenti con un brand, ad individuare nuovi aspetti influenti agli occhi dei consumatori o a recepire loro eventuali suggerimenti e considerazioni.
Ma come giustamente ricorda il testo, in una conversazione l’aspetto di ascolto, pur importante, non può essere sufficiente, occorre anche instaurare un dialogo. E qui gli autori, con dovizia di esempi pratici, propongono le loro quattro alternative:

  • la realizzazione di un video (potenzialmente) virale (la campagna citata è quella di Blendtec);
  • l’engagement tramite social network e, più in generale, circuiti UGC (si parla già di Facebook ma vengono spesso citati MySpace e siti di review);
  • il blog aziendale;
  • la creazione di una community tramite la quale coinvolgere i propri (potenziali) consumatori (la case in questo caso è quella di beinggirl.com by Procter & Gamble).

Un testo sintetico quanto interessante, ricco di dati e di massime che nonostante la costante evoluzione degli strumenti online restano quanto mai valide ancora oggi sebbene in certi casi vadano chiaramente attualizzate (una delle mie preferite resta questa: “Much of money is spent on television commercials. This is not talking, this is shouting“). Un libro che sin dalle prime pagine mette in chiaro come i processi in atto portino a una radicale rivoluzione dell’intera industria, non solo in ambito comunicativo ma che organizzativo, produttivo e gestionale.

Ecco spiegato forse perchè il richiamo sin dal titolo alle onde (lunghe e profonde), al moto perpetuo che rappresentano oggi gli utenti online con i loro continui scambi di valutazioni e giudizi attorno a prodotti, servizi, iniziative e contenuti. Ormai impossibile ignorarli o considerarli come semplici consumatori passivi da colpire solo con il classico advertising.