Il futuro incerto di Libération specchio dell’attuale momento dell’editoria?

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Pensando al giornalismo online la mia mente rimanda subito, quasi inconsciamente, all’esperienza statunitense. Non necessariamente perché sia la migliore ma forse perché gli USA – come ha scritto Danilo Taino sul Corriere della Sera – rappresentano “forse il Paese più avanzato e sofisticato in termini di utilizzo dell’informazione digitale”.
Quando riesco, però, tento di aggiornarmi anche sulle redazioni a noi più vicine (sia in senso geografico che di prossimità delle dinamiche legate al sistema informativo). In questi giorni, per esempio, mi sono appassionato alle vicende legate a Libération, lo storico giornale francese (co)fondato, nel 1973, dal filosofo Jean-Paul Sartre.
Anche l’editoria francese, come quella nostrana, sta attraverso un momento molto difficile: il calo di lettori dei quotidiani a stampa e la contrazione degli investimenti pubblicitari minano la sopravvivenza dei giornali.
Gli azionisti di Libération, per arginare il passivo in continua crescita della testata, decidono di operare cambi radicali nella gestione del quotidiano. Due su tutti: trasformare la prestigiosa sede in un centro culturale trasferendo gli uffici in un’altra zona di Parigi; cambiare l’approccio del giornale alle notizie avvicinandolo maggiormente alle dinamiche tipiche dei social media nel tentativo di individuare una piattaforma multimediale remunerativa (un BuzzFeed in salsa francese?).
I giornalisti non ci stanno e a distanza di meno di una settimana dall’annuncio proclamano uno sciopero di 24 ore. Il giorno che precede la protesta la redazione opta per una prima pagina di impatto: “Noi siamo il giornale. Non un ristorante, non un social network, non uno studio TV, non un bar, non un incubatore di startup”. Anche nelle pagine interne i giornalisti non usano giri di parole per esprimere le loro preoccupazioni per un progetto che minaccia di ridurre la testata a un “mero” brand.
La sfida pare infatti giocarsi non tanto sul piano di tagli, pensionamenti e decurtazioni di salario – proposte certo non ben digerite dallo staff – quanto sul piano predisposto dalla dirigenza per Libération, poco incline, secondo i lavoratori, alla linea editoriale di qualità che ha da sempre caratterizzato la testata.
Passano i giorni e lo scontro, fattosi sempre più aspro, culmina nelle dimissioni del (giovane) direttore del giornale Nicolas Demorand che, indicato dai giornalisti come parte del problema, si vede negare la pubblicazione di un proprio articolo sui cambiamenti pronosticati per la testata. All’insubordinazione dei giornalisti di Libération, Demorand risponde non solo gettando la spugna ma rilasciando un’intervista al “rivale” Le Monde nella quale dichiara di aver tentato invano di portare al passo con i tempi un giornale ancorato al formato a stampa.

Libération nel corso degli anni ha ammorbidito la propria posizione, mitigando le idee inizialmente radicate nel pensiero politicamente vicino a quella che in Italia chiameremmo l’estrema sinistra. Resta un giornale a vocazione anti-establishment che pare tuttavia non avere l’appeal necessario per attirare i giovani (che preferiscono informarsi online attraverso altre testate).
Se, come sottolineato da Natalie Nougayrède, editor-in-chief di Le Monde, mai come oggi si ha bisogno di giornalismo di qualità, quali le scelte più idonee per rendere l’informazione (anche nettamente schierata) sostenibile? Rien ne va plus?

Orange County Register, il giornale controcorrente

Aaron Kushner

Img: cjr.org

Il mondo dell’editoria non sta vivendo un periodo felice. I dati sugli introiti pubblicitari continuano a scendere, le redazioni sono alle prese con tagli del personale e drastiche riorganizzazioni.

In un clima così tetro, la notizia circa l’esperimento del quotidiano californiano Orange County Register sembra quasi un miraggio.
Il giornale, infatti, pare percorrere in senso contrario il declino della stampa. Sta assumendo personale, sta puntando forte sulla versione cartacea della quale ha aumentato la foliazione e, soprattutto, sta registrando una crescita dei ricavi.

Fondato nel 1905, il giornale ha attraverso alcuni momenti davvero difficili ma, da un anno a questa parte, la storia del quotidiano è cambiata completamente. La testata ha visto l’ingresso di due nuovi soci: Eric Spitz e Aaron Kushner. Quest’ultimo, nonostante la mancanza di esperienza nel campo giornalistico, sembra per ora aver vinto la propria scommessa.

Come? Puntando sui contenuti, non sul mezzo. E così, in un momento di crisi come quello attuale, per prima cosa Kushner ha voluto ampliare l’edizione cartacea (più pagine a colori) e il personale – fotografi e giornalisti – per coprire al meglio le notizie locali. Fede, scuola, cibo, cronaca e sport i focus principali, con un notevole spazio – nell’edizione del fine settimana – alle attività sportive femminili e maschili delle high school per avvicinare alla testata anche il pubblico più giovane. Anche l’offerta è stata semplificata: che sia carta o web, il giornale chiede ai propri lettori 1 dollaro al giorno (con un paywall online molto restrittivo).

L’ambizione è quella di poter offrire ai propri lettori un giornale che rappresenti lo strumento più adatto per essere informati e capire la comunità nelle quale si vive o lavora. Un quotidiano utile al proprio pubblico, dai contenuti rilevanti e originali (in un parallelismo televisivo, uno dei giornalisti della testata, Rob Curley, parlando della sfida di rendere unico il quotidiano, ha citato l’esempio dei Soprano, trasmessi solo da HBO e da nessun’altra parte).

Il modello del Orange County molto probabilmente non è così facilmente replicabile in altre redazioni, ma resta interessante da seguire nei suoi ulteriori sviluppi.
Perché in fondo, la considerazione di Kushner secondo la quale mai come oggi il pubblico di lettori è vasto, risulta inattaccabile. Tornare a concentrarsi sull’idea di servizio al cittadino, puntando sulla qualità dei contenuti appare una scelta più che condivisibile.

Bezos acquista il Washington Post, il giornalismo torna a sperare

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La notizia dell’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos mi ha colto di sprovvista, ero in vacanza fuori Italia e non avevo modo, visto il saltellante wifi dell’albergo dove mi trovavo, di approfondire la questione. Così, una volta tornato a casa, ho cercato di rifarmi leggendo notizie e considerazioni su un’operazione, forse proprio per il clima vacanziero, passata un po’ in sordina nonostante si riferisca al giornale della capitale degli Stati Uniti, conosciuto anche oltreoceano per il Watergate che portò all’impeachment di Nixon.

Il punto di partenza è stata la lettera con la quale, al momento dell’acquisto, il fondatore di Amazon ha voluto rassicurare i dipendenti della testata. Un testo semplice, chiaro, che se da un lato ribadisce il valore del giornale come fulcro degli interessi dei lettori, dall’altra sottolinea come Internet stia trasformando l’intero comparto dell’informazione, accorciando il ciclo delle notizie, erodendo la forza numerica delle fonti di guadagno che sembravano consolidate e dando luogo a una nuova competizione editoriale. Nuove sfide, insomma, che a fronte delle attuali mancate certezze del mercato legato alla stampa, Bezos invita a superare inventando e sperimentando. Nel segno della tradizione dei Graham e mantenendo sempre al centro del progetto (lo ripete) i lettori e le loro esigenze.

Ma perché Bezos ha deciso di acquistare il WaPo? Quale il suo obiettivo?

Sottolineato che, secondo alcune stime, i 250 milioni di dollari versati da Bezos, rappresenterebbero meno dell’1% del capitale del fondatore di Amazon, i maligni individuano questioni di opportunità: la proprietà dello storico quotidiano potrebbe portare in dote contatti influenti della scena politica statunitense utili, forse, per agire indirettamente su questioni molto importanti quali, ad esempio, la tassazione sugli acquisti online.

In fondo, se è vero che Bezos è “ossessionato” dalla customer experience e dai programmi di lungo periodo, è altrettanto vero che il Washington Post, nella propria versione cartacea, nel 2012 abbia fatto registrare perdite per oltre 53 milioni di dollari. La sfida, insomma, appare decisamente impegnativa (lo stesso Bezos, nel novembre dello scorso anno, affermò di prevedere la scomparsa dei giornali di carta entro 20 anni).

Personalmente, però, sono tra coloro che intravedono benefici nell’ingresso nel mondo dell’editoria di una tale personalità. Bezos ha investito in dot company quali Twitter e Airbnb, ed è a capo di Amazon, realtà da anni nel business della creazione e distribuzione dei contenuti che ha fatto la sua fortuna soprattutto grazie all’infrastruttura tecnologica, uno degli aspetti del mondo del giornalismo che necessitano di profonda innovazione.

Con la speranza che Bezos possa portare nuova linfa – in termini di approccio, strategie e soluzioni – al mondo della stampa, in attesa delle prime scelte concrete, non mi resta che annotare quanto accaduto per un eventuale aggiornamento di News(paper) Revolution.

PaperPay, l’app per comprare i giornali cartacei dal telefonino

PaperPay

Concentrato sull’aggiornamento del mio libro – file consegnato all’editore, speriamo a fine mese possa uscire la versione ebook di News(paper) Revolution – ultimamente mi sono focalizzato maggiormente sull’innovazione del web e dei suoi nuovi strumenti per comunicare.
In realtà, nonostante ormai quasi tutte le testate abbiano puntato i loro sforzi sui device digitali, anche la tradizionale “carta”, seppur generalmente in maniera confusa e senza molta convinzione, cerca (affannosamente) di stare al passo con i tempi sposando progetti che, se non fermano il declino, quantomeno cercano di proporre nuovi percorsi da intraprendere.
E’ il caso di PaperPay, l’applicazione per sistemi Android e iOS, lanciata a fine marzo in Inghilterra da Trinity Mirror, la società editrice, tra gli altri, del Daily Mirror e del Sunday Mirror. Di cosa si tratta? Semplice. E’ un applicativo che, scaricato su smartphone, previa registrazione e sottoscrizione di una delle tipologie di abbonamento previste (settimanale, mensile o annuale, con diverse forme di sconto e possibilità di pagare con carta di credito, PayPal o SMS), consente di ottenere un codice a barre personale. Mostrando il quale, recandosi da uno dei 47.000 giornalai aderenti all’iniziativa, poter ritirare la copia cartacea del quotidiano, senza più preoccuparsi di avere spiccioli a sufficienza o di aver dimenticato a casa il portafogli. Ai primi utilizzatori dell’app venivano, inoltre, offerte 5 copie gratis del Daily Mirror e la possibilità di partecipare all’estrazione settimanale di un premio di 100 sterline.
Stando alle parole di Matt Colebourne, direttore del reparto new business del Trinity Mirror, l’applicazione potrebbe aiutare a comprendere il numero esatto di copie cartacee che i lettori desiderano. In un mercato come quello della stampa tradizionale sempre più attento alla voce dei costi (e, quindi, le perdite) – uno degli strateggi più utilizzati, in questo senso è la riduzione della foliazione – sapere quante copie stampare, evitando gli sprechi, potrebbe essere una delle soluzioni valide. Il futuro della carta sarà il print-on-demand?