The Atlantic, non tutto il native vien per nuocere

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Nell’aprile del 2105 il magazine The Atlantic decise di rinnovare la grafica del proprio sito web puntando su una homepage con una struttura composta da semplici riquadri di foto+titolo, efficace anche se fruita da mobile, da navigare sia nella tradizionale modalità verticale che in quella orizzontale.

Un anno dopo, il giornale torna a far parlare di sé tra gli addetti ai lavori del comparto media per tre ragioni: in primo luogo, per la decisione di realizzare (in collaborazione con l’agenzia Wieden Kennedy) una campagna pubblicitaria con l’obiettivo di allargare il pubblico di lettori; in seconda istanza, per il progetto A&Q (la redazione ha individuato una 15ina di domande legate a problemi di ordine pubblico, dalle armi al clima, dalla gravidanza giovanile all’immigrazione clandestina, attorno alle quali sviluppare approfondimenti, chiedendo ai lettori di suggerire altre questioni sulle quali riflettere); infine per ciò che concerne la propria offerta di native advertising.

Secondo le parole rilasciate a digiday.com da Hayley Romer, vice presidente di The Atlantic, la cosiddetta pubblicità nativa punta a rappresentare quest’anno il 75% dei guadagni del giornale con un incremento stimato del 15% rispetto alle cifre del 2015, frutto anche di un consolidamento del team marketing che si occupa dei contenuti sponsorizzati – Atlantic Re:think – che può oggi contare su 32 persone.

Sembrano insomma lontani i tempi dei primi esperimenti del giornale in ottica native adv quando il contenuto sponsorizzato con oggetto Scientology diede il là ad aspre critiche da parte dei lettori tanto da spingere la direzione a pubblicare una lettera di scuse agli utenti nella quale fare ammenda per quanto accaduto (ammettendo un errore di valutazione della policy che all’epoca non prevedeva una così netta distinzione tra il contenuto pubblicitario e quello prettamente informativo). Dopo quello “scivolone” la testata decise di lavorare assiduamente per ripristinare la propria credibilità accettando di impegnarsi esclusivamente in progetti in grado di rappresentare valore per i lettori. Questo approccio “audience first” ha portato il giornale a focalizzare le risorse disponibili al fine di identificare i contenuti capaci di attirare l’attenzione degli utenti e, quindi, di avere un impatto concreto per gli inserzionisti (di fatto con il nuovo design i contenuti sponsorizzati sono diminuiti anche se risultano più corposi).

Uno degli esempi di successo in tal senso è l’articolo realizzato in occasione dei cento anni di Boeing che, con testi accompagnati di numerose gallerie fotografiche, ripercorre la storia dell’industria aerospaziale. Dal punto di vista grafico si tratta di qualcosa di completamente differente dal materiale informativo, immediatamente riconoscibile quale contenuto sponsorizzato. Contenuto che ha fatto registrare un buon livello di engagment arrivando a totalizzare oltre 7000 condivisioni su Facebook.

Con il diffondersi dei software ad blocker capaci di bloccare i messaggi pubblicitari rendendoli di fatto invisibili agli utenti, sono molte le realtà editoriali che considerano il native advertising – anche in virtù della sua perfetta compatibilità con il mobile – una delle (poche) armi a disposizione delle testate per far fronte al calo delle entrate registrato negli ultimi anni.

Ecco perché The Atlantic prosegue le fasi di test e sviluppo in modo da mettere a punto forme di native advertising capaci di funzionare quali leve di coinvolgimento degli utenti non solo in termini di interazione con il contenuto – click e condivisioni risultano difficili da ottenere per materiale etichettato come pubblicitario – quanto piuttosto in merito al tempo “speso” con il contenuto.

Lasso di tempo che Polar – piattaforma specializzata nella distribuzione contenuti legati al native adv – ha stimato aggirarsi, in media, in 2 minuti e 41 secondi. Intervallo di tempo che The Atlantic – a detta della stessa redazione di Washington – ha praticamente raddoppiato surclassando realtà molto quotate per quel che riguarda il native advertising quali BuzzFeed e Mashable.

Pangaea Alliance: qualità e tecnologia per contrastare Facebook e Google

The Pangaea Alliance

Img: newsonnews.com

Il difficile periodo della stampa sta continuando. A rendere complicato lo scenario è in particolare la percentuale relativa agli investimenti pubblicitari che, per il comparto informativo, risulta dall’inizio dell’anno ancora in contrazione. Un articolo del Guardian, ad esempio, analizzando lo scenario dei quotidiani d’oltremanica, evidenzia come le prime 10 realtà in termini di budget pubblicitari abbiano tagliato mediamente del 20% gli investimenti in adv nei giornali: dal -20% del top spender Sky, al -39% di Tesco, le grandi realtà aziendali sembrano identificare sempre meno la stampa tradizionale quale risposta alle loro esigenze di visibilità. E, aspetto forse ancora più preoccupante, non solo su carta. Anche il comparto digitale delle testate, infatti, se non registra segni meno, ha mediamente rallentato la sua crescita. Uno degli esempi più lampanti in questo senso è quello del Daily Mail che, nonostante i 200 milioni di utenti al mese, non è ancora riuscito a trovare un efficace approccio per sfruttare al meglio il proprio bacino di utenza e, dalla scorsa estate, per quel che concerne il reparto digital, ha fatto segnare una crescita minima. Intendiamoci, non è la Rete il problema, gli investimenti online crescono di anno in anno (anche se nel 2015 con tassi trimestrali di crescita inferiori rispetto a quelli dei due anni precedenti). Solo, al momento, il grosso della fetta pubblicitaria online è preda di piattaforme quali Facebook e Google piuttosto che degli editori.

Ecco spiegato il motivo per il quale il Guardian, il Financial Times, la CNN e la Thomson Reuters, pur competitor nel panorama informativo, hanno deciso di collaborare sul fronte dell’advertising in Pangaea Alliance. Combinando l’audience di ciascuna testata (sino al 10% degli spazi pubblicitari di ciascuna realtà coinvolta), il totale di 110 milioni di utenti risulta infatti molto più interessante per gli inserzionisti delle inventory di ciascuna delle singole realtà informative. I brand, tramite quella che viene chiamata in gergo programmatic technology – in parole semplici, un sistema automatizzato di compravendita di spazi pubblicitari – avranno modo, in virtù di un pubblico più ampio di riferimento, di comunicare i loro messaggi pubblicitari in maniera più efficace. Come? Senza addentrarsi in tecnicismi, al centro del progetto ci sono una data management platform (DMP) e un ad server in grado di segmentare i diversi utenti sulla base del loro comportamento online offrendo l’opportunità agli inserzionisti di identificare e mostrare messaggi pubblicitari anche a gruppi di utenti molto specifici quali, ad esempio, i viaggiatori frequenti.

Singolare il fatto che, dal punto vista tecnologico, a Pangaea Alliance partecipi indirettamente anche il Wall Street Journal, il cui gruppo di riferimento – la News Corp – detiene il 13,7% delle azione di Rubicon Project, realtà alla base del marketplace che mette in relazione editori e inserzionisti.

E’ bene sottolineare come Pangaea Alliance non sostituisce i canali ad oggi utilizzati per la diffusione dei messaggi pubblicitari (che restano in gran parte gestiti in maniera autonoma da ogni singola testata), quanto completa l’offerta con una modalità trasversale che punta sulla qualità dei contenuti che andranno ad affiancarsi ai messaggi pubblicitari.

Un progetto analogo con protagonisti il New York Times, il Tribune e i gruppi editoriali Hearst e Gannett – chiamato quadrantONE – seppur nato in un contesto differente, dopo cinque anni di attività, nel febbraio 2013 è stato abbandonato.

In un panorama complicato come quello della stampa, risulta difficile pronosticare, nonostante le testate di primissimo piano coinvolte, se Pangeaea Alliance, dopo la fase di test, sarà in grado di proporsi in maniera agguerrita nel sempre più fluido mercato pubblicitario.

Ciò da cui per i giornali pare impossibile prescindere per sopravvivere, è in ogni caso l’aspetto legato agli investimenti in tecnologia, fattore sempre più discriminante per il successo di un progetto editoriale.

Non di sola pubblicità vive l’uomo. E nemmeno i giornali.

Img: nytco.com

Da alcune settimane la New York Times Company ha pubblicato il resoconto dei primi quattro mesi del 2015 che, per quel che riguarda i ricavi, ha fatto registrare una flessione forse inattesa.
La percentuale negativa (-1,6%) è frutto prevalentemente della (continua) discesa delle entrate pubblicitarie calate, rispetto al primo quarter dello scorso anno, del 5,8%.
Questo, nonostante l’aumento degli abbonamenti digital-only il cui valore rispetto al 2014 è salito del 14,4% che equivale a circa +20% in termini di nuovi utenti abbonati.
Se gli introiti della pubblicità digitale salgono del 24% rispetto al 2014 – arrivando a rappresentare il 28% delle revenue del gruppo – tale percentuale resta troppo risicata per far fronte al calo percentuale di 11 punti del saldo delle pubblicità a stampa.
Allora, che fare? Domanda alla quale risulta molto difficile dare una risposta.
L’applicazione mobile NYT Now che avrebbe dovuto, secondo le previsioni, avvicinare il pubblico giovane alla testata non si è rilevata, in termini numerici, così efficace. Tanto che nei giorni scorsi, con l’aggiornamento alla versione 2.0, l’applicazione ha di fatto abbandonato la richiesta di pagamento mensile (7,99 dollari mese) diventando gratuita e puntando su pubblicità e sponsorizzazione di contenuti (o della stessa app).
Ciò che pare trapelare da alcune delle ultime dichiarazioni di Mark Thompson – CEO di NYT Co. – è, in generale, un ripensamento delle strategie adottate dalle varie testate per attirare nuovi “clienti” (l’utilizzo della parola “customers” invece di “readers” risulta piuttosto significativo). Una delle soluzioni identificate è quella proporre una più variegata scelta tra le diverse tipologie di abbonamento digitale: una gamma di proposte differenti per prezzo e per contenuti potrebbe infatti contribuire ad allargare il bacino di lettori.
Come potenzialmente si appresta ad incrementare il numero di abbonati anche la collaborazione con il Financial Times in virtù della quale le due testate hanno da alcuni giorni inaugurato un nuovo Digital Access Program in grado di offrire l’accesso illimitato ai contenuti online dei due prestigiosi giornali per i clienti collegati ai network delle strutture alberghiere statunitensi.

Se da un lato continua la ricerca di formati di advertising più efficaci rispetto a quelli in uso, dall’altra parte notevoli sono gli sforzi per tentare di diminuire la dipendenza dei gruppi editoriali dalla pubblicità.
Forse, per i media, la sfida della “rivoluzione digitale” consiste proprio nel cambiamento di prospettiva che dalle esigenze degli inserzionisti porta a doversi confrontare in primis con le necessità e i comportamenti del proprio pubblico di riferimento. Che, da soggetto indefinito e passivo, diventa sempre più centro del mondo informativo.

Branded content e native advertising: differenze e punti di contatto

Nelle scorse settimane una giornalista che collabora con un mensile che si occupa di strategie di comunicazione mi ha contattato per chiedermi un commento sul native advertising. Tra le domande alle quali con piacere ho risposto, una mi è particolarmente dispiaciuto che non abbia trovato spazio nell’articolo sul rapporto tra editoria e pubblicità. Ho così deciso di riproporre i miei ragionamenti in un post. La questione sollevata dalla mia interlocutrice è stata molto semplice e diretta: qual è la differenza tra branded content e native advertising?

Il fenomeno dei contenuti brandizzati è esploso con la diffusione virale di video su YouTube creati dagli utenti. Non che prima non esistessero, ma è proprio grazie all’avvento dei social network che, in virtù della semplicità con la quale è possibile condividere un contributo, i numeri sono diventati rilevanti. Star Wars Kid, Numa Numa ed Evolution of Dance sono solo alcuni esempi di contenuti che registrano milioni di visualizzazioni frutto del passaparola spontaneo. Tali successi hanno inevitabilmente attirato l’attenzione dei brand che cominciano così a sperimentare realizzando video che puntano sulla diffusione “virale” nella Rete: contenuti con lo scopo di sorprendere più che di presentare un prodotto e le sue caratteristiche. Nascono così i Viral Branded Video che, giocando su originalità ed emozione, fanno leva sugli utenti (e sulle loro condivisioni ad amici, conoscenti e familiari) per diffondere i clip.
Uno degli esempi di branded content che ultimamente ha fatto più parlare di sé è il video First Kiss che con oltre 87 milioni di visualizzazioni ha colpito molti utenti (il video riprende 20 sconosciuti ai quali viene chiesto di baciarsi). Nei giorni successivi alla pubblicazione, quando il contenuto era già diventato un tormentone, si è scoperto come in realtà i protagonisti fossero attori e che si tratta dell’operazione pubblicitaria – davvero ben riuscita – di Wren, brand di moda di Los Angeles.

Il native advertising, invece, si rifà ai media tradizionali, mettendo in contatto la marca e le redazioni per creare contenuti che possano suscitare l’interesse degli utenti sfruttando l’autorevolezza della testata nella quale compaiono. E’ una forma di comunicazione che ancora deve trovare degli standard ben definiti ma che, in generale, si presenta sotto forma di contributi (articoli ma anche video o foto) sponsorizzati. Gli esperimenti in questo senso più interessanti a mio modo di vedere sono quelli che, un po’ come per alcuni dei viral branded video di maggior successo, alludono a un prodotto senza però limitarsi a mostrarne le peculiarità. Per cui, ad esempio, una delle prime “uscite” del native advertising è nata dalla collaborazione tra un noto brand di computer (Dell) con una famosa testata (New York Times) che ha pubblicato nel giornale un paid post sulle nuove generazioni e il loro modo di lavorare in mobilità.

Brand content e native adv fanno quindi riferimento a forme espressive differenti. Hanno tuttavia un punto in comune: il superamento dei classici format pubblicitari. Il fine ultimo di queste due modalità è infatti quello di entrare nel flusso comunicativo-informativo di solito precluso alla pubblicità. Le inserzioni, anche online, sono relegate entro precisi confini che gli utenti, nel corso degli anni, hanno ben imparato a conoscere (ed evitare?). Riuscire a trasformare in notizia qualcosa che richiami, direttamente o indirettamente, una marca o un prodotto, consentirebbe al messaggio di svincolarsi da banner e affini aumentandone così, almeno potenzialmente, l’efficacia.

Quando la stampa scopre l’ecommerce

Img: wwd.com

Alcuni giorni fa mi è stato chiesto di commentare la partnership tra Harper’s Bazaar, storico magazine di moda e stile del gruppo Hearst, con l’italiana Yoox (UPDATE: l’intervista è stata pubblicata nel numero di dicembre di AdV). Ho in questo modo potuto approfondire gli aspetti legati al rapporto tra stampa ed ecommerce che, focalizzando la mia attenzione prevalentemente al mondo dei quotidiani, avevo forse tralasciato.

In questi ultimi anni molti sono i gruppi editoriali che hanno deciso di puntare sul commercio elettronico. Condé Nast, tanto per citare un altro esempio, ha investito in due marketplace: Farfetch, spazio che unisce boutique indipendenti e Vestiaire Collective, community dedicata alla vendita online di abiti e accessori di lusso usati.

In ordine di tempo, una delle prime strette collaborazioni tra chi scrive contenuti e chi vende beni su web, è stata quella di Vogue che, per la settimana della moda di New York del settembre 2012, offrì alle proprie lettrici la possibilità di acquistare, attraverso il luxury retailer Moda Operandi, i capi di abbigliamento presentati nelle passerelle.

Altro caso degno di nota è quello di Elle che lo scorso anno ha iniziato a sperimentare il social e-commerce. La redazione presentava alcuni capi “must” della stagione in arrivo, gli utenti potevano interagire con in contenuti scegliendo tra “Love”, “Want”, “Own” o, più sotto, “Buy”.

In realtà, scandagliando la Rete ho trovato anche qualcosa di relativo ai quotidiani. L’autorevole Washington Street Journal ha, infatti, da alcuni giorni lanciato un proprio canale ecommerce. Si chiama The Shops, un sito di vendita online di prodotti di lusso sponsorizzato da Capital One (e dalla sua carta di credito). Tutto torna. O quasi. Perché poi, in fondo alla pagina, un riquadro magenta sottolinea come il sito operi in maniera indipendente dalla redazione del quotidiano finanziario.

L’editoria in crisi sperimenta nuove soluzioni – che alle volte si allontanano dal core business delle news – alla ricerca di modelli economici alternativi.
Se per la stampa l’ecommerce possa rappresentare una interessante fonte di reddito forse è troppo presto per dirlo. In ogni caso, da lettore, mi auguro che ciò avvenga in maniera trasparente salvaguardando la distinzione tra contenuto informativo e pubblicitario.

Native advertising e brand journalism: quando il giornalismo online incontra la pubblicità

Da alcune settimane sono immerso nell’aggiornamento di News(paper) Revolution che, a grande richiesta, uscirà a breve anche in versione ebook (UPDATE: la versione digitale, ampliata e aggiornata, è uscita alla fine del mese di maggio).

Uno degli approfondimenti al quale ho deciso di dare spazio nella nuova edizione del mio libro, è quello relativo al cosiddetto native advertising. Ecco, di seguito, un estratto della parte dedicata alla forma di pubblicità che gli editori stanno iniziando a testare.

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Uno dei nuovi formati pubblicitari online che gli editori stanno iniziando ad adottare è il cosiddetto native advertising.

L’idea di base è semplice: in ultima analisi, anche l’advertising può rappresentare una notizia; se non riesce ad esserlo, allora probabilmente il contenuto pubblicitario non ha poi così tanta rilevanza.

Degli esempi di formati legati al native adv sono le Sponsored Story di Facebook e i Promoted Tweet di Twitter: contenuti brandizzati integrati direttamente nell’esperienza dei social media piuttosto che posizionati nei classici spazi riservati alla pubblicità online.

In qualche modo, quindi, il native advertising è una rivisitazione “in salsa web/social” dei redazionali (advertorial) presenti nei quotidiani stampati. Con il native adv i lettori possono fruire di contenuti sponsorizzati interattivi che puntano alla condivisione, operazione questa che la pubblicità tabellare di solito non consente. E’ un modo di comunicare con un linguaggio che, sfruttando appieno le peculiarità della Rete, la creatività e lo storytelling, può essere recepito in maniera costruttiva dagli utenti e superare la “cecità” dei lettori verso alcuni dei formati attualmente in uso online.

Quasi tutte le campagne di native advertising nascono dalla collaborazione diretta tra editori e brand, senza l’intermediazione delle agenzie. Sono proprio le testate, infatti, a conoscere meglio di chiunque altro gli standard da adottare, il profilo dei propri lettori e i “segreti” per fare in modo che questi contribuiscano a diffondere ad amici e colleghi i contenuti informativi.

Uno dei primi esperimenti di native advertising è stato realizzato dal magazine statunitense The Atlantic con un post sponsorizzato su Scientology pubblicato il 14 gennaio 2013. Probabilmente anche a causa dell’oggetto dell’articolo, l’iniziativa scatenò un acceso dibattito online, non sempre così benevolo nei confronti della testata (che, alcuni giorni dopo, ammise di aver commesso qualche errore di valutazione nella ricerca dell’innovazione del digital advertising).

Altro spazio informativo che ha deciso di puntare sul native adv, è BuzzFeed la cui testata propone una collaborazione con i brand alfine di realizzare contenuti pubblicitari in grado di catturare l’attenzione dei lettori (Jonah Peretti, CEO di BuzzFeed, definisce il native advertising come “(sort of) social advertising”).

Forbes ha, invece, introdotto BrandVoice, il servizio – nato dalla start-up newyorkese True/Slant – che consente di condividere tra editori e inserzionisti gli strumenti per creare engagement, per monitorarlo in tempo reale e per, al contempo, offrire il miglior servizio informativo ai lettori. Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di fornire contributi pubblicitari non intrusivi quanto, piuttosto, esperienzialmente accattivanti. Il magazine ha dato vita a una “Brand Newsroom” con la quale i marketer possono collaborare per far conoscere in maniera più efficace il loro business.

Un servizio analogo è quello del Washington Post che, con BrandConnect, permette alle aziende di pubblicare, nel sito del quotidiano, propri contenuti quali video, post e infografiche.

Il primo esempio di “sponsor generated content” del giornale è stato realizzato dalla CTIA, l’associazione internazionale no profit che rappresenta l’industria delle comunicazioni wireless che racconta come la tecnologia mobile abbia rivitalizzato le comunità rurali (il post era circondato dalla pubblicità display dell’associazione, conteneva un video e non consentiva di essere commentato).

Interessante notare, ancora una volta, la posizione di Google News che chiede agli editori di separare con molta chiarezza i contenuti giornalistici da quelli pubblicitari, pena l’esclusione della fonte dall’aggregatore di notizie. Il servizio dell’azienda di Mount View non si propone come uno strumento di promozione e, quindi, vuole salvaguardare la propria inclinazione meramente informativa.

(UPDATE: anche il New York Times, nel redesign del sito, online dall’8 gennaio 2013, ha iniziato a testare il native advertising, ne parlo qui)

Invertising, dall’idea all’ideale

Nutro un notevole interesse per la comunicazione e i suoi sviluppi. Se per passione negli ultimi anni ho approfondito l’aspetto informativo legato in particolare ai nuovi media, è anche vero che l’ambito lavorativo mi ha quotidianamente portato a contatto con il mondo della pubblicità. Ecco spiegato perchè, avuto tra le mani Invertising di Paolo Iabichino, mi sia subito immerso nella lettura del libro. Testo che mi ha davvero entusiasmato, uno di quei libri costruttivi che non puoi esimerti dal consigliare ad amici e colleghi. Di cosa parla? In estrema sintesi (e senza rivelare troppo), di cambiamento, di inversione di marcia. Il fulcro dell’approfondimento che il testo propone è, infatti, quello che sia oggi necessario un nuovo approccio per brand e agenzie che porti ad una apertura, a un cambiamento di prospettiva, a un dialogo in grado di “avvvicinare le persone alle marche su territori valoriali condivisi”. Molte le similitudini che leggendo ho indivuato tra la pubblicità e il giornalismo, sfere entrambe spesso superficialmente tacciate di rappresentare realtà negative da superare. E invece, probabilmente, come suggerito dal saggio, si tratta di individuare modalità che possano ridare dignità e nuove dimensioni ad ambiti ancora validi e che esistono (e hanno senso) a prescindere dai mezzi attraverso i quali prendono forma. A patto che tralascino l’autorefenzialità, l’ossessione del target e delle mere vendite, e che focalizzino i loro sforzi nello stimolare la partecipazione, obiettivo vero di chi comunica. Un libro ricco di spunti interessanti, di esempi (spesso vissuti in prima persona), di rielaborazioni di concetti di altri autori che si concretizzano nello sviluppo della tesi che sottende il cambiamento di marcia che la pubblicità è chiamata a seguire. Complimenti a Paolo Iabichino per un libro che, nonostante la prima edizione risalga al dicembre 2009 (il testo in realtà ha trovato “nuova vita” su Wired), risulta ancora oggi di estrema attualità, da non perdere!

p.s.=il libro dispone anche della formula “soddisfatti o rimborsati” ma credo sia improbabile che qualcuno terminato il testo si appelli all’editore per riavere quanto speso

99 franchi e un’effimera felicità

Arrivo in stazione con largo anticipo rispetto all’orario di partenza. E senza nulla da leggere. Così, ricontrollato l’orologio, decido di rifugiarmi dal freddo e dalla noia in libreria. All’ingresso campeggiano un bel po’ di libri scontati del 25%. Sono quasi certo di non trovare nulla di accattivante – non al primo sguardo almeno – ma in realtà un testo dalla copertina verde riesce ad incuriosirmi. Prendo in mano il libro, evito accuratamente la quarta di copertina e, come si fa con i prestigiatori, pesco una pagina a caso, la numero 16. Senza pensarci troppo leggo:

Tutto è provvisorio e tutto si compra. L’uomo è un prodotto come gli altri, con una data di scadenza. Ecco perché ho deciso di andare in pensione a 33 anni. Pare sia l’età migliore per resuscitare.

Gulp, rileggo perché non mi sembra vero. E, invece, non è un sogno (o un incubo): ho 33 anni, sono nel pieno di una crisi di mezza età (beh, forse un po’ meno di mezza…) e ho appena letto le pagine di un libro verde che sembra descrivere perfettamente quello che provo. Il caso ha deciso per me, non posso esimermi dall’acquisto. Salgo sul treno e, curioso più che mai, inizio a leggere il romanzo che mi ritrovo tra le mani. Parla di Octave, un pubblicitario che tenta, scrivendo un libro sulla sua vita e il suo lavoro, di sfuggire al mondo fatto di bugie, eccessi e bisogni inutili al quale egli stesso contribuisce. Un urlo disperato di una persona famosa ma sola, ricca ma priva di ciò che conta veramente, di successo nel lavoro quanto scarsa per quel che concerne la sfera privata. Un’analisi spietata sul mondo della pubblicità, sui suoi eccessi, sulle sue stravaganze, sui suoi rituali, sui suoi controsensi, su un crescendo di avvenimenti che alla fine lasciano un retrogusto amaro in bocca e tanti interrogativi senza risposta. Frédéric Beigbeder, l’autore del libro, ha veramente lavorato in un’agenzia pubblicitaria (Young & Rubicam) ed è stato realmente licenziato dopo la pubblicazione del libro e lo scalpore seguito al suo successo: quanto di vero c’è nell’universo che descrive? Una lettura spassosa, una riflessione lucida sui nostri tempi (anche se il libro è datato 2000) assolutamente consigliata. Un unico appunto alla casa editrice (Universale Economica Feltrinelli): era proprio necessario tradurre il titolo originale 99 Francs con Lire 26.900, cifra che mi pare non avere né appeal né senso (lo stesso ragionamento vale per i 13,89 euro della copertina)?

p.s.= il romanzo, nel 2007, è diventato anche un film

Se art e copy non bastano più…

Alcuni giorni fa mi è capitato tra le mani un piccolo libricino dal titolo La coppia creativa sono in quattro di Emanuele Nenna, testo che ho letto in una sera tutto d’un fiato. L’assunto alla base del libro attorno al quale l’autore – fondatore, con altri due soci, dell’agenzia Now Available – costruisce la sua analisi, è che oggi il mondo non sia più quello di una decina di anni orsono e che quindi, per rispondere al meglio alle nuove sfide della comunicazione (e, in ultima istanza, agli odierni consumatori) la classica coppia art+copy non sia più sufficiente. Questo non solo comporterebbe un allargamento del team chiamato a rispondere alle esigenze nell’epoca del digitale, ma implicherebbe anche l’individuazione di nuove professionalità, il rinnovamento organizzativo delle agenzie e quello del rapporto tra agenzie e clienti. Se l’obiettivo della pubblicità resta sempre quello di supportare l’azienda nella vendita di prodotti/servizi, infatti, il pensiero creativo si manifesta oggi in maniera notevolmente differente rispetto ai tempi del Bernbach citato nel sottotitolo.

Ciò che è ho più apprezzato del libro è che non pretende di cambiare facendo tabula rasa del passato, ma invece proprio dai fondamentali, prende il lancio per l’innovazione dell’ottica legata alla creazione dei messaggi pubblicitari. Anche per questo motivo ho apprezzato maggiormente la prima parte del testo. La seconda, nella quale in sintesi l’autore presenta “i nuovi creativi”, nonostante i molti esempi citati, forse anche perché il “clima” di agenzia lavorativamente parlando non mi appartiene, non mi è del tutto familiare, mi è sembrata utile ma al contempo forse un po’ distante, quasi una provocazione, un urlo solitario rispetto a una mancanza di professionalità che (causa della costante rincorsa imposta dei nuovi strumenti “virtualmente sociali” e dalle poche certezze che su questi tutti noi del settore abbiamo?) mi pare invece pericolosamente in ascesa.

In ogni caso, consigliatissimo per chi voglia farsi un’idea su una delle possibili declinazioni dell’advertising del futuro, complimenti!

Mobile Marketing, il futuro nelle nostre mani

Quando sono all’estero e decido di non navigare in roaming mi rendo effettivamente conto di quanto ormai la mia vita sia scandita dall’utilizzo dello smartphone che porto sempre con me. Consultare Twitter, utilizzare Google Maps, caricare foto con instagr.am sono solo tre esempi di azioni diventate ormai – almeno per il sottoscritto – routine.
Ecco perchè quando mi è stato offerta la possibilità di leggere a pochi giorni dalla sua uscita Mobile Marketing: la pubblicità in tasca – libro edito da Fausto Lupetti, autori: Paolo Mardegan, Massimo Pettiti, Giuseppe Riva, prefazione Layla Pavone) sono stato ben contento di approfondire una tematica i cui sviluppi mi interessano molto e che, da utente, tocco letteralmente tutti i giorni con mano.
In effetti in un momento – quello attuale, i cui contorni sono stati ben delineati, ad esempio, nell’evento Google Think Mobile – nel quale il mobile (smartphone + tablet) ha superato i PC (desktop + notebook) e che fa registrare solo in Italia 20 milioni di smartphone (dovremmo orami essere prossimi al sorpasso degli smartphone sui cellulari), non parlare di opportunità legate al mondo della telefonia mobile sempre connessa sembrerebbe ingenuo.
L’emergere di una nuova tecnologia modifica gli assetti “mediali” del mondo dal quale emerge. Diventa allora fondamentale riflettere sui segnali che il mercato sta lanciando per tentare se possibile di comprendere come questa ennesima evoluzione degli strumenti a disposizione possa creare valore sia per gli utenti che per le aziende.
Il testo, con un’analisi teorica molto approfondita (soprattutto in relazione alla “giovinezza” del mezzo smartphone), analizza i nuovi paradigmi del marketing (in the moment) presentando l’orizzonte del nuovo scenario attraverso lo studio del mobile advertising, della geolocalizzazione, del mondo applicazioni e del mobile payment, offrendo al lettore dati di mercato, valutazioni e, nella parte finale, anche casi concreti e testimonianze di alcuni tra coloro che per lavoro quotidianamente si confrontano con un fenomeno in continua dilagante evoluzione.
Visto che ci sono ne approfitto per complimentarmi con gli autori del libro e per ringraziarli pubblicamente per la “citazione” – nella parte relativa al marketing conversazione e al buzz marketing – al libro del quale sono co-autore.