Mamma, ho riperso i commenti

Img: mageewp.com

Nel passaggio dalla carta all’online uno degli aspetti più innovativi del rinnovamento della stampa è stato il passaggio da un lettore che passivamente fruiva del materiale informativo a uno che invece è in grado di interagire direttamente con la redazione e con gli altri utenti. I commenti agli articoli hanno contribuito a scrivere un nuovo paradigma in grado di superare il solipsismo della lettura individuale e di rendere le notizie, almeno potenzialmente, stimolo al confronto con un pubblico.
Gli sviluppi della Rete stanno però facendo vacillare la comunicazione bidirezionale quale caratteristica imprescindibile del giornalismo online. Iniziano infatti ad essere numerose – e rilevanti – le testate che decidono di ridimensionare o addirittura eliminare lo spazio dedicato ai commenti dei lettori. Il Chicago Sun Time, il Daily Beast, Re/code, Bloomberg ma anche piattaforme quali The Verge e Medium sono solo alcuni degli esempi di realtà informative che hanno deciso di apportare modifiche ai propri spazi di conversazione con gli utenti.
Questo in primis perché il dibattito sugli articoli da parte dei lettori per la gran parte ormai avviene al di fuori degli spazi delle testate, nei social network, spazi nei quali gli utenti possono confrontarsi con semplicità, immediatezza e a più ampio raggio rispetto ai canali “istituzionali” dei siti informativi. In seconda istanza perché la gestione del flusso di commenti è dispendiosa e, in un panorama come quello della stampa nel quale le risorse continuano ad essere piuttosto limitate, in molti hanno preferito sbarazzarsi del problema legato alla moderazione dei contenuti. Con l’auspicio che il confronto con/tra utenti non si esaurisca quanto piuttosto si sposti altrove continuando però a generare interesse nei confronti degli articoli.
Uno dei casi più rilevanti in questo senso è stata la decisione di Reuters: in un breve comunicato l’agenzia stampa britannica ha annunciato che in virtù delle novità nel modo di interagire degli utenti con le news, constatando quanto le conversazioni sulle notizie si tengano ormai in maniera preponderante su social media e forum – community di numerosi partecipanti che si confrontano in virtù di policy condivise che tendono ad emarginare coloro che abusano della libertà di espressione – ha deciso di non rendere più possibili i commenti alle notizie.
Anche Motherboard, lo spazio di Vice dedicato alle notizie scientifiche, ha deciso di mettere uno stop ai commenti optando per una nostalgica sezione “Lettere al direttore”.

E mentre Reddit lancia la propria piattaforma informativa – Upvoted – senza lasciare spazio ai commenti (con l’obiettivo probabilmente di raccogliere adesioni dagli inserzionisti, attirati dal pubblico di Reddit ma spaventati dal tono delle accese polemiche che spesso infiammano le discussioni), il New York Times, per rendere più snelle le attività di moderazione dei contenuti, introduce i “verified commenters”, utenti che l’algoritmo alla base della gestione dei commenti, in virtù dello storico delle loro interazioni, considera come affidabili senza la necessità di controlli pre-pubblicazione.

In generale, resta da capire se la scelta di eliminare i commenti possa contribuire in maniera costruttiva a fare in modo che le redazioni concentrino i loro sforzi unicamente sul versante qualitativo dei propri contenuti o se, invece, il fatto che le conversazioni degli utenti attorno alle notizie avvengano fuori dai confini dalle testate certifichi semplicemente la subordinazione di queste ultime ad altri canali comunicativi evidentemente più efficaci nell’attirare l’attenzione degli utenti.

Mobile, fortissimamente Mobile: Apple lancia la sua app News

Apple News

Img: theguardian.com

La scorsa settimana a Berlino si è tenuto il News Xchange, una conferenza – organizzata da Eurovision – per riflettere sul giornalismo e sugli sviluppi della distribuzione dell’informazione con protagonisti alcuni dei referenti delle testate più note. Tra gli ospiti, Adam Ellick, (video) corrispondente per il New York Times che, nel corso del suo intervento – come riportato da Shane Randall dell’Associated Press – ha sintetizzato il suo pensiero dicendo: “Se l’industria dei media si muove velocemente, i lettori lo fanno ancora con maggiore velocità”. Secondo Ellick, infatti, la prossima generazione di lettori molto probabilmente non acquisterà mai un giornale e non sarà solita accedere alle notizie da PC. Tale dichiarazione più che una provocazione pare piuttosto un futuro ormai prossimo. In fondo già oggi il 60% delle visite del NYT proviene da mobile e al diffondersi dell’uso dei dispositivi mobili si registra un calo inversamente proporzionale delle visite alla homepage del sito, il corrispettivo digitale della prima pagina del giornale a stampa. Sembra sempre più evidente come debbano essere le redazioni a dover intercettare i lettori attraverso gli strumenti che questi più utilizzano piuttosto che i lettori a dover scovare le notizie.
È, in altre parole, l’idea del formato giornale – cartaceo o digitale che sia – ad essere messa in discussione, non il mondo dell’informazione che continua invece ad attrarre le grandi realtà digitali.
Ultima, in ordine di tempo, Apple che nell’aggiornamento iOS 9.1, in Inghilterra e Australia, ha sostituito il vecchio Apple Newsstand (focalizzato in particolare sui contenuti dei periodici) con Apple News, un rinnovato aggregatore dinamico di notizie. L’applicativo – che stando ai primi feedback non pare discostarsi troppo da Flipboard – punta a raccogliere adesioni in virtù dell’ampio bacino di potenziali utilizzatori (chiunque possieda un iPad o iPhone in grado di installare l’update di sistema vedrà in automatico Apple News tra le icone del proprio menù) proponendo in un’unica app una notevole quantità di contributi di differenti testate, dal Guardian a Sky News, dalla CNN a Vanity Fair. L’utente può navigare per pubblicazione o per argomento, personalizzando, in maniera analoga a quanto avviene in Apple Music, il flusso di notizie collegato al proprio profilo. Sulla base degli interessi sarà così possibile ricevere gli aggiornamenti da leggere o salvare per una fruizione successiva. Il sistema, analizzando i contenuti letti e le risorse segnalate quali preferite, sarà in grado di identificare le news più in linea con i gusti dell’utente mettendo a fuoco le esigenze del lettore. La app prevede anche un motore di ricerca che consente una navigazione trasversale rispetto al materiale informativo che si è soliti fruire (e che, come detto in precedenza, identifica l’utilizzatore).
Dal punto di vista degli editori, i contenuti possono anche contenere messaggi pubblicitari gestiti con iAd, la piattaforma delle inserzioni nei dispositivi Apple.

Nei prossimi mesi sarà interessante seguire gli sviluppi e la diffusione di Apple News, vagliare l’adozione degli standard consigliati da Apple per le notizie e capire quali saranno gli strumenti offerti alle redazioni per misurare l’impatto degli articoli sul pubblico.

La sfida a Google è ormai lanciata. E non solo dagli editori.

Se potessi avere un milione di abbonati al mese

Img: bostonglobe.com

Il New York Times, con un comunicato ufficiale pubblicato lo scorso 8 agosto, ha reso noto il superamento (a fine giugno) della quota di 1 milione di abbonati digital-only. Il risultato è stato ottenuto grazie al paywall, sistema che dal 2011 consente agli utenti non abbonati di fruire gratuitamente di un numero limitato di articoli del giornale al mese, richiedendo la sottoscrizione di un abbonamento per proseguire la lettura dei contenuti della testata. Al lancio, in un mondo – quello editoriale – che faceva della gratuità online una sorta di dogma della Rete, in pochi avrebbero immaginato che in poco meno di quattro anni e mezzo il NYT potesse raggiungere tale traguardo (anche il Wall Street Journal, a quota 900.000 abbonati, intravede la meta). Il presupposto che gli utenti potessero essere inclini a pagare per leggere informazioni disponibili senza costi in molte (altre) risorse su web non sembrava credibile a tal punto da superare il timore di un allontanamento repentino dei lettori dalla testata proprio in virtù di una richiesta economica all’epoca quanto mai inusuale. Nonostante i foschi presagi però, il NYT è riuscito a raggiungere per primo l’ambizioso obiettivo – una pietra miliare come l’ha definita Mark Thompson, presidente e CEO di The New York Times Company – frutto tanto di un giornalismo conosciuto ed apprezzato da anni nel mondo quanto di ingenti investimenti in innovazioni tecnologiche capaci, nel corso degli anni, di continuare a far eccellere la testata nonostante la forte concorrenza.
Se il traguardo del milione di abbonati certifica l’efficacia della strategia digitale del giornale (crescita nell’ultimo quarter, in termini di guadagni, del 14,2%) per paradossale che possa sembrare, la strada da fare per arginare la continua discesa degli introiti pubblicitari – che complessivamente, nonostante la crescita del comparto digital, negli ultimi quattro mesi hanno fatto registrare un -5,5% in virtù soprattutto di un nuovo ribasso della pubblicità a stampa – è ancora in salita, irta di difficoltà. Notevoli progressi sono stati fatti dal NYT per equilibrare il rapporto tra abbonamenti e pubblicità: ad oggi gli abbonati nella loro totalità (cartaceo e/o digitale) rappresentano il 55% dei guadagni complessivi della testata contro il 39% di revenue provenienti dalla pubblicità. Appare chiaro tuttavia che per gestire i costi dello sviluppo tecnologico necessario per competere con gli altri player, sia necessario lavorare ancora più assiduamente sulla quella enorme fetta di utenti che, visitato il sito del giornale, fruisce dei contenuti senza però siglare un abbonamento (in questo senso, quanto accaduto per la app NYT Now, è rappresentativo della difficoltà di attirare il pubblico giovane). Al momento, infatti, i “pochi” paganti (stime parlano di una percentuale nell’ordine di poche unità di abbonati in rapporto ai visitatori unici al mese fatti registrare dal sito) consentono anche ai non abbonati di fruire dei contenuti della redazione.
Vinta una “battaglia”, insomma, la “guerra” per veder crescere i guadagni del giornale resta ancora lunga. Nonostante gli sforzi, infatti, se il NYT negli ultimi anni (2014 e 2013) ha evitato il passivo nel computo dei guadagni totali della testata, ha visto una crescita flebile arrivata lo scorso anno a 0,7%.
Ancora troppo poco per dichiarare il modello del giornale come solido ed efficace anche sul lungo periodo.

Il futuro di Twitter nelle news più che nelle conversazioni?

Img: buzzfeed.com

Dallo scorso lunedì 3 agosto, per alcuni utenti statunitensi e giapponesi, tra le voci del menu orizzontale (Home, Notifiche, Messaggi e Account le opzioni sinora presenti) è apparsa anche la nuova icona News. Si tratta di un esperimento portato avanti dalla società californiana nel tentativo di offrire nuove e più semplici modalità per individuare i contenuti più interessanti. Una volta cliccato News, Twitter visualizza le notizie più discusse mostrandone l’origine (la testata), il titolo e un’immagine di anteprima. Scelta una voce, il messaggio si espande visualizzando, oltre a titolo e alla fonte, un blocco di testo dell’articolo e il link cliccando il quale leggere il pezzo. Come sottolinea un interessante articolo di BuzzFeed (tra le prime testate a riportare la notizia dalla nuova feature di Twitter), con questa mossa – e con il crescente interesse per gli eventi live – Twitter ha forse intrapreso definitivamente la strada che porterà la app a diventare una sorta di motore di ricerca di contenuti piuttosto che esclusivamente uno strumento per condividere informazioni. Il cambio di prospettiva, però, non è solo finalizzato a un miglioramento della cosiddetta user experience (e, quindi ad incrementare il numero della base di active user la cui crescita resta piuttosto lenta), alla base della decisione c’è sicuramente anche l’aspetto legato ai profitti. Il limite di Twitter per molti inserzionisti è oggi come oggi rappresentato dalla difficoltà di inserire messaggi pubblicitari all’interno di conversazioni tra utenti senza che questi siano percepiti come ostacolo al flusso comunicativo. Prevedendo una sezione apposita per le notizie (che in questa fase sperimentale non presenta advertising ed è appannaggio di un numero limitato di partner), è facile intuire come obiettivo di Twitter sia quello di offrire nuovi spazi di azione più efficaci a chi desidera pubblicizzare la propria azienda, rinnovando le possibilità di native advertising messe a disposizione dallo strumento.
Ad inizio aprile Twitter ha abbandonato Discover, superando la possibilità di individuare contenuti sulla base delle persone seguite e semplificando l’emergere di hashtag e argomenti di tendenza (che vengono elencati scegliendo lo strumento della lente per la ricerca in alto a destra) a livello più esteso.

Dopo Facebook e Snapchat, anche Twitter dunque punta sulle news offrendo ad un comparto media, sempre più competitivo, una più stretta collaborazione. Con la speranza che la sinergia possa essere win-win, proficua per entrambi i soggetti in gioco.

Audience engagement, il giornale oltre le news

Img: themediabriefing.com

Lo sviluppo del mondo giornalismo si evince anche dalle mansioni che, con lo sviluppo degli strumenti digitali, entrano a far parte delle redazioni. Se, per esempio, sino a non molti anni fa non tutte le testate potevano contare su una figura dedicata esclusivamente ai social media, oggi, i gruppi editoriali più innovativi propongono addirittura profili lavorativi più “evoluti” che si occupano di audience engagement, di come cioè coinvolgere – in misura sempre maggiore – il proprio bacino di lettori. In una bella intervista rilasciata al NeimanLab, Renée Kaplan, a un mese dall’insediamento, ha risposto ad alcune domande sul proprio ruolo in qualità di responsabile audience engagement del prestigioso Financial Times (giornale che, lo ricordo, basa il proprio modello di business sul paywall). L’obiettivo dell’operato del team da lei diretto (data analyst, SEO specialist e social media producer) è quello, in prima istanza, di conoscere il pubblico di lettori di FT – quali articoli preferiscono? In quali formati? Quando e come fruiscono delle notizie? – per riuscire così ad adattare al meglio i contenuti a disposizione, ottenendone il massimo in termini di traffico e di condivisioni. Altro scopo, di certo non secondario, è quello di ottimizzare i contenuti differenziandoli a seconda dello strumento utilizzato per diffonderli. L’esempio citato in questo senso è il materiale relativo al recente “scandalo Fifa”: il team di Kaplan, ai “classici” articoli testuali con molti dettagli su quanto stava accadendo, ha affiancato la realizzazione di materiale grafico sul tema specificatamente pensato per essere diffuso e condiviso nei canali social.

I termini chiave di chi si occupa di audience engagement sono distribution e organic reach, parametri questi che misurano l’effetto dei contenuti della redazione, il loro impatto giornalistico, dentro e fuori gli spazi del giornale.

Interessante notare come Kaplan e colleghi lavorino spalla a spalla con gli uffici editoriali ma non siano direttamente collegati ai desk di chi invece è deputato alla sfera dell’advertising. Chiaro che l’obiettivo trasversale a tutti i reparti è quello di far in modo che quante più persone visitino il sito, ci trascorrano quanto più tempo possibile e ci tornino quanto più spesso, ma non ci sono traguardi commerciali da raggiungere per chi lavora sul lato engagement.

Si tratta piuttosto di identificare le strategie migliori – e in questo, impossibile prescindere da una approfondita analisi – per sfruttare al meglio il materiale a disposizione. Per soddisfare gli abbonati e per attirarne di nuovi.

Perché le notizie, da sole, non bastano più.
E i giornali non sono più semplici redazioni.

L’informazione può prescindere da Facebook?

Img: dawn.com

Il rapporto tra il mondo dell’editoria e Facebook ha vissuto fasi alterne. Al grande entusiasmo delle principali testate per le applicazioni di Social Reading – adottate a partire dal 2009 per leggere, commentare, condividere gli articoli proprio attraverso il social network di Palo Alto – si è registrato un raffreddamento in virtù dei successivi cambiamenti nell’algoritmo della gestione del flusso di notizie (e dei conseguenti ridimensionamenti del traffico da Facebook) che hanno messo la parola fine a molti dei progetti di stretta collaborazione.

Dalla scorsa settimana, una notizia pubblicata dal New York Times, ha però riportato sotto i riflettori l’ambizione di Facebook di diventare il “miglior giornale personalizzato del mondo”. Pare infatti che il social network guidato da Zuckerberg, forte dei suoi 1,4 miliardi di utenti, abbia iniziato ad intavolare con una dozzina di media company (tre le quali BuzzFeed, National Geographic, il Guardian, l’Huffington Post, Quartz e lo stesso NYT) una serie di incontri per valutare la disponibilità delle testate a veicolare i contenuti direttamente nel social network piuttosto che utilizzare, come avviene ora, collegamenti esterni ai vari articoli.

L’obiettivo parrebbe quello di incrementare la soddisfazione del lettore in termini di user experience: superando l’ostacolo del rimando ai siti delle testate e, conseguentemente, il caricamento di nuove pagine, il rischio di spazientire l’utente, soprattutto se si tratta di un lettore che naviga su web da mobile, si ridimensionerebbe notevolmente. Ciò comporterebbe un aumento del tempo speso nel social network e, quindi, un incremento dell’esposizione ai messaggi pubblicitari veicolati attraverso Facebook.

Al di là delle modalità legate alla pubblicità all’interno dei contenuti delle testate – pare che Zuckerberg e soci vogliano proporre agli editori una sorta di affiliazione: spazi pubblicitari gestiti da Facebook inseriti negli articoli e suddivisione degli introiti in base alle performance – resta da capire se le testate accetteranno di scambiare la visibilità dei loro pezzi cedendo però a Facebook i (preziosi) dati circa i profili dei lettori e il loro comportamento nei confronti del materiale informativo.

Leo Mirani, in un interessante articolo pubblicato da Quarz, ha sottolineato come l’offerta di contenuti a “spazi terzi” (quali, ad esempio, YouTube e Snapchat) attraverso i quali diffondere gli articoli, non sia per le redazioni una novità. Proprio per questo motivo, a suo dire, non bisogna temere l’iniziativa di Facebook (che, tra l’altro, non prefigura il social network come canale giornalistico esclusivo). Perché non si può insistere nel pensare che siano i lettori a visitare i siti delle varie testate: chi produce contenuti deve essere presente nei luoghi dove gli utenti sono soliti raccogliersi.

E sotto questo punto di vista, nel bene e nel male, prescindere da Facebook oggi non sembra possibile.

La policy editoriale di BuzzFeed

Img: @buzzfeed twitter account

BuzzFeed è sicuramente uno degli spazi informativi più originali che, dal 2006 ad oggi, ha saputo sfruttare al meglio le caratteristiche del web creando uno stile proprio, di successo soprattutto tra i giovani. La fascia d’età 18-34 rappresenta, infatti, secondo le cifre pubblicate nel sito, il 50% degli oltre 175 milioni di visitatori unici al mese che BuzzFeed fa registrare. A conferma di ciò, anche i dati di traffico al sito: 50% da mobile (percentuale in salita), 75% del traffico da canali social, cifre che identificano un bacino di lettori solitamente molto difficile da raggiungere (e ancora di più da mantenere) da parte dei media tradizionali.
Numeri decisamente accattivanti per molti inserzionisti che, nel team di BuzzFeed, hanno potuto trovare un valido supporto (oltre che un valido canale di trasmissione) per la creazione di contenuti appositamente pensati per essere condivisi in maniera diffusa. Quiz, infografiche, video e divertenti liste sono solo alcuni degli esempi attraverso i quali una marca, con il supporto dello staff di BuzzFeed, può riuscire ad intercettare il pubblico con i propri messaggi e valori.

Se dalle (sintetiche) informazioni fornite nella sezione advertise del sito appare piuttosto chiaro il risultato finale di una potenziale collaborazione tra un brand/un’agenzia e il reparto di creativi di BuzzFeed, poco o nulla viene riportato circa l’applicazione concreta del processo “produttivo” che ogni giorno crea i contenuti della testata.

Sul finire dello scorso gennaio, però, BuzzFeed ha pubblicato una sorta di “guida” a disposizione di dipendenti, collaboratori e lettori che delinea gli standard del lavoro editoriale della testata.

Con l’obiettivo di unire il meglio di tradizione e innovazione, il documento rappresenta una sorta di riflessione “pubblica” per identificare la strada entro la quale crescere e proseguire lo sviluppo della internet news media company.

Di spunti interessanti ce ne sono molti, ecco quelli a mio giudizio più rilevanti:

1) le informazioni devono provenire da fonti confermate; Wikipedia e altri spazi modificabili da più utenti non possono essere considerati la fonte di una storia;
2) i riferimenti ad altri spazi informativi vanno indicati con citazioni esplicite alla testata e al link dell’articolo;
3) estratti da comunicati stampa vanno segnalati;
4) i giornalisti sono incoraggiati a contattare utenti Twitter e Instagram di cui desiderano utilizzare il materiale, soprattutto in caso di contenuti sensibili;
5) nessun articolo editoriale può essere cancellato; se alcune delle informazioni diventassero obsolete o si dimostrassero non corrette, sarà possibile aggiornare l’articolo inserendo delle note esplicative per i lettori;
6) le fonti non vengono retribuite per le interviste che rilasciano; interviste via email, Facebook messanger o Gchat sono permesse, ma quelle di persona sono spesso molto interessanti;
7) per immagini forti dovrebbe essere utilizzato il tool grafico che consente di coprirle lasciando all’utente la facoltà di scegliere se visualizzare o meno il contenuto;
8) gli articoli devono essere rigorosi, neutrali e devono anteporre fatti e notizie al resto;
9) simpatie politiche e commenti di parte non dovrebbero essere espressi pubblicamente, né attraverso forum o social media quali Twitter e Facebook; in particolare da chi si occupa della sezione News; per i membri dello staff News non sono inoltre permesse donazioni in denaro (ma anche in termini di tempo) per candidati politici o campagne politiche;
10) BuzzFeed conta sulla capacità del proprio team di offrire ai lettori indagini accurate, servizi utili e intrattenimento nella netta separazione tra advertising content e editorial content. Il lavoro di reporter, giornalisti ed editor è completamente indipendente da chi si occupa di vendere gli spazi pubblicitari e da chi li compra; chi si occupa della creatività delle inserzioni risponde al comparto business di BuzzFeed, non alla redazione editoriale; la collaborazione tra diversi staff è incoraggiata ma non nel caso di campagne pubblicitarie in occasione delle quali vige una divisione netta e chiara tra i reparti e le mansioni;
11) gli investitori di BuzzFeed non influenzano il lavoro dello spazio informativo.

Nessuna eclatante rivelazione ne sono consapevole, ma resta comunque importante intravedere i punti di riferimento di una realtà nata come fucina di contenuti “virali” che via via ha visto crescere le proprie ambizioni informative.

La sfida di contribuire a creare nuovi modelli per il giornalismo – ciò che pare aver “conquistato” Ben Smith, ex Politico.com e dal 2011 editor-in-chief di BuzzFeed – resta ancora da vincere.

Reuters TV: quando il broadcaster punta forte sul mobile

Img: reuters.tv

Dallo scorso 4 febbraio è disponibile su iTunes, Reuters TV, la nuova applicazione della famosa agenzia stampa britannica.
La sintesi della presentazione del servizio, onestamente, mi ha davvero colpito. Se l’obiettivo del team di sviluppo era quello di reinventate la tv e il modo di “consumare” le notizie, per quello che ho potuto vedere, le premesse sembrano esserci tutte.
Certo, è prematuro tirare dei bilanci ma Reuters TV sembra possedere le caratteristiche idonee per fare breccia nel vasto pubblico utilizzando al meglio l’enorme mole di contributi di qualità dei 2500 giornalisti sparsi in 200 differenti luoghi del pianeta (qualcosa come 100.000 video realizzati all’anno dalla testata).
La app è strutturata in due sezioni principali: Reuters Now e Feed.
Nella prima vengono proposte le notizie principali: facili di scorrere, presentano i filmati relativi ai fatti più rilevanti. Sulla parte alta dello schermo, in base alle esigenze di tempo,
l’utente può scegliere il grado di approfondimento della news indicando la lunghezza dei contenuti da visualizzare: le versioni dei contributi vanno dei 5 ai 30 minuti; l’applicazione consente in ogni momento di interrompere una video-notizia e passare alla successiva: l’operazione consentirà al sistema – in maniera analoga a quanto avviene, per esempio, con Flipboard – di “captare” gusti e interessi dell’utente personalizzando così il flusso informativo non solo sulla base della parametro legato alla geolocalizzazione ma andando incontro alle concrete esigenze dell’utilizzatore di Reuters TV.
Molto interessante anche l’opzione “Offline payback” che consente di programmare il download automatico delle notizie di modo da poterne poi fruire anche in assenza di segnale.

La sezione Feed, invece, è quella da scegliere per seguire gli avvenimenti live: senza alcun tipo di filtro o interruzione, l’utente avrà modo di seguire gli eventi più importanti in tempo reale. Non solo dirette video ma anche social integration: ai filmati, volendo, si possono affiancare i tweet più interessanti dei protagonisti di ciò che sta avvenendo o di chi sta commentando quanto accade.

L’utilizzo di Reuters TV è gratuito per i primi 30 giorni, poi richiede un abbonamento di 1,99 dollari al mese. Per quel che riguarda la pubblicità, le dichiarazioni in merito sono state piuttosto generiche: il comunicato stampa infatti parla di limited premium advertising senza però entrare nello specifico circa le modalità offerte agli inserzionisti.

Alcune testate, sintetizzando la notizia del lancio di Reuters TV, hanno paragonato il servizio a Netfix. Le parole di Isaac Showman, Managing Director di Reuters TV, presentando l’applicazione, in realtà hanno indicato Reuters TV non come il “Netfix delle news” ma come il modo di intendere le notizie nell’era di Netfix: personalizzate, continuamente aggiornate e on-demand.

La app è ottimizzata per iPhone, richiede iOS 8, ed è – anche in virtù delle valutazioni più che positive su iTunes – sicuramente da provare. Per informarsi ma, al contempo, anche per capire se possa rappresentare uno strumento sul quale puntare per rinnovare il mondo del broadcasting informativo.

Andrew Sullivan lascia, The Dish chiude. Peccato.

Img: dish.andrewsullivan.com

E’ passato poco più di un anno dal post nel quale cercavo di analizzare i numeri di The Dish. Nonostante il breve lasso di tempo trascorso da allora, sono – purtroppo – qui oggi a scrivere circa la fine dell’avventura di Sullivan e collaboratori. Con vivo rammarico, non lo nascondo.
Perché, pur non essendo un abbonato, dall’inizio dell’avventura “indipendentista” di Sullivan ho sempre tifavo per il blog (il termine blog utilizzato per descrivere contemporaneamente umbazar.com e The Dish non mi pare non mi pare il più azzeccato), apprezzandone l’originalità dell’approccio, la “sfrontatezza” del modello economico-finanziario (risultato alla fine tutt’altro che azzardato) e la coerenza del “condottiero” nel rifiutare inserzioni e investimenti esterni nella piena fiducia del proprio bacino di lettori.

Tornando ai fatti che in questi giorni hanno scombussolato (non solo negli USA) il mondo del giornalismo online, il susseguirsi di ipotesi e speculazioni ha avuto inizio lo scorso 28 gennaio quando, con un post dal titolo A Note To My Readers, Andrew Sullivan ha comunicato ai propri lettori l’intenzione di prendersi una pausa. Non tanto dalla scrittura in senso lato, quanto piuttosto da quello che per Sullivan è stato negli ultimi 15 anni lo strumento di lavoro quotidiano – il blog – e dal suo universo di riferimento – il digital. Ciò che colpisce, della lettera di commiato è in particolare l’accento posto sul desiderio di avere maggiore tempo a disposizione – per leggere, per pensare, per lasciare che un’idea prenda lentamente forma – in contrapposizione alla velocità che la comunicazione su web oggi sembra imporre.
In secondo luogo, non lascia certo indifferenti l’affermazione circa la prospettiva di “tornare al mondo reale”, quasi quello dei bit abbia rappresentato per Sullivan una dimensione tanto preziosa per la crescita professionale quanto alienante nei confronti, in particolar modo, degli affetti più cari.
La seconda parte del post lascia invece spazio a un velo di malinconia nel ricordo delle tante battaglie portate avanti nel corso degli anni insieme ai lettori e dei successi che proprio il pubblico ha sancito. Ed è forse proprio questo l’aspetto per il quale il progetto The Daily Dish – nato nel finire del 2000 – mancherà di più: lo spazio, nel corso degli anni, ha saputo accreditarsi non solo in quanto veicolo alternativo di notizie e interpretazioni dei fatti, ma come luogo di condivisione delle opinioni, di partecipazione attiva e confronto costruttivo: il blog è diventato, in altre parole, una community. Un gruppo di persone (30.000 abbonati e circa un milione di lettori al mese) che insieme hanno contribuito a innovare concretamente un comparto – quello dei media tradizionali – che non sembra ancora aver esattamente compreso il proprio ruolo all’interno della mutata scena informativa.

Certo che, al di là delle opinioni espresse, The Dish negli anni a venire sarà ricordato come uno dei contributi più stimolanti all’innovazione del giornalismo [non ho avuto dubbi nel citarlo nella versione digitale aggiornata e ampliata di News(paper) Revolution], con l’auspicio che qualcuno presto riesca a far tesoro dell’esperienza di Sullivan, non posso che ringraziare coloro i quali – staff ma anche semplici utenti – hanno creduto nel progetto di trasformazione di un “diario in Rete” in uno spazio informativo di livello.

Google ed editori: c’eravamo tanto amati

Img: presstv.ir

La sfida tra editori e Google ha segnato nei giorni scorsi un nuovo avvenimento degno di nota: il gigante editoriale tedesco Alex Springer ha abbandonato, dopo solo due settimane di test, il blocco che limitava l’accesso ad alcune delle proprie pubblicazioni al motore di ricerca offrendo una free license per l’utilizzo dei contenuti di 4 siti del gruppo (welt.de, computerbild.de, sportbild.de e autobild.de).

L’irritazione degli editori (in Germania ma anche in Spagna, Francia e Italia solo per citare alcuni dei Paesi nei quali il problema ha dato adito ai dibattiti più accesi) è dovuta al fatto che l’azienda di Mountain View non si limita a riportare, nei risultati di una ricerca, i soli link agli articoli dei giornali ma presenta anche degli estratti dei contenuti. Secondo i detrattori, Google sfrutterebbe il materiale delle redazioni senza pagare alcunché alle testate ma anzi, guadagnando, anche grazie ad esso, in virtù degli annunci sponsorizzati del proprio circuito.
Gli editori, in alcuni stati, hanno perciò iniziato a riunirsi in consorzi (es. VG Media con oltre 200 editori tedeschi) chiedendo a gran voce che i propri rappresentanti politici si adoperino per tutelare il copyright dei loro contributi e per imporre a Google e altri aggregatori il pagamento di una fee (sintetizzata in Google Tax) per rendere pubblica la preview dei contenuti delle varie testate.

E’ interessante notare come la decisione di Springer che, sulla base del calo di traffico – sceso del 40% dal motore di ricerca e dell’80% da Google News – ha deciso di tornare ad adottare una posizione meno intransigente, susciti riflessioni opposte nei due schieramenti “in campo” (o forse, per meglio dire, “in rete”).
Se Mathias Doepfner, Chief Executive di Springer, sottolinea come quanto accaduto sia la prova più lampante della posizione dominante di Google nel mercato del search e quando sia stata discriminante la scelta del gruppo editoriale di provare a limitare il motore di ricerca (alcuni hanno notato come la marcia indietro del gruppo sia stata pressoché contemporanea all’annuncio dei dati che mostrano un utile ancora in discesa per il gruppo editoriale a causa, soprattutto, di incassi minori dalla pubblicità a stampa), dalla sede Google in Germania si fa notare come i numeri emersi dalla vicenda dimostrino quanto l’azienda californiana sia importante per il contributo fornito all’economia dell’informazione online.

Se è vero che Google guadagna dalla pubblicità veicolata attraverso l’indicizzazione di contenuti non propri nella SERP (il ragionamento che vale per le testate risulta valido, su scala minore, anche per i blog) è altrettanto vero che è proprio grazie al motore di ricerca o all’aggregatore di notizie Google News che i contenuti possono essere trovati dagli utenti, sempre più inclini a interrogare la Rete piuttosto che a visitare le homepage delle varie testate.

La questione, seppur delicata, sembra però una sorta di diversivo rispetto a una problematica ben più complessa: Google per il mondo dell’editoria pare essere più un’opportunità che una minaccia, ciò che continua a mancare è un modello (valido) di business che consenta alle testate di finanziarsi a prescindere dagli strumenti che gli utenti usano per trovare i contenuti informativi.

Un po’ come guardare il dito di chi indica il cielo.