Pangaea Alliance: qualità e tecnologia per contrastare Facebook e Google

The Pangaea Alliance

Img: newsonnews.com

Il difficile periodo della stampa sta continuando. A rendere complicato lo scenario è in particolare la percentuale relativa agli investimenti pubblicitari che, per il comparto informativo, risulta dall’inizio dell’anno ancora in contrazione. Un articolo del Guardian, ad esempio, analizzando lo scenario dei quotidiani d’oltremanica, evidenzia come le prime 10 realtà in termini di budget pubblicitari abbiano tagliato mediamente del 20% gli investimenti in adv nei giornali: dal -20% del top spender Sky, al -39% di Tesco, le grandi realtà aziendali sembrano identificare sempre meno la stampa tradizionale quale risposta alle loro esigenze di visibilità. E, aspetto forse ancora più preoccupante, non solo su carta. Anche il comparto digitale delle testate, infatti, se non registra segni meno, ha mediamente rallentato la sua crescita. Uno degli esempi più lampanti in questo senso è quello del Daily Mail che, nonostante i 200 milioni di utenti al mese, non è ancora riuscito a trovare un efficace approccio per sfruttare al meglio il proprio bacino di utenza e, dalla scorsa estate, per quel che concerne il reparto digital, ha fatto segnare una crescita minima. Intendiamoci, non è la Rete il problema, gli investimenti online crescono di anno in anno (anche se nel 2015 con tassi trimestrali di crescita inferiori rispetto a quelli dei due anni precedenti). Solo, al momento, il grosso della fetta pubblicitaria online è preda di piattaforme quali Facebook e Google piuttosto che degli editori.

Ecco spiegato il motivo per il quale il Guardian, il Financial Times, la CNN e la Thomson Reuters, pur competitor nel panorama informativo, hanno deciso di collaborare sul fronte dell’advertising in Pangaea Alliance. Combinando l’audience di ciascuna testata (sino al 10% degli spazi pubblicitari di ciascuna realtà coinvolta), il totale di 110 milioni di utenti risulta infatti molto più interessante per gli inserzionisti delle inventory di ciascuna delle singole realtà informative. I brand, tramite quella che viene chiamata in gergo programmatic technology – in parole semplici, un sistema automatizzato di compravendita di spazi pubblicitari – avranno modo, in virtù di un pubblico più ampio di riferimento, di comunicare i loro messaggi pubblicitari in maniera più efficace. Come? Senza addentrarsi in tecnicismi, al centro del progetto ci sono una data management platform (DMP) e un ad server in grado di segmentare i diversi utenti sulla base del loro comportamento online offrendo l’opportunità agli inserzionisti di identificare e mostrare messaggi pubblicitari anche a gruppi di utenti molto specifici quali, ad esempio, i viaggiatori frequenti.

Singolare il fatto che, dal punto vista tecnologico, a Pangaea Alliance partecipi indirettamente anche il Wall Street Journal, il cui gruppo di riferimento – la News Corp – detiene il 13,7% delle azione di Rubicon Project, realtà alla base del marketplace che mette in relazione editori e inserzionisti.

E’ bene sottolineare come Pangaea Alliance non sostituisce i canali ad oggi utilizzati per la diffusione dei messaggi pubblicitari (che restano in gran parte gestiti in maniera autonoma da ogni singola testata), quanto completa l’offerta con una modalità trasversale che punta sulla qualità dei contenuti che andranno ad affiancarsi ai messaggi pubblicitari.

Un progetto analogo con protagonisti il New York Times, il Tribune e i gruppi editoriali Hearst e Gannett – chiamato quadrantONE – seppur nato in un contesto differente, dopo cinque anni di attività, nel febbraio 2013 è stato abbandonato.

In un panorama complicato come quello della stampa, risulta difficile pronosticare, nonostante le testate di primissimo piano coinvolte, se Pangeaea Alliance, dopo la fase di test, sarà in grado di proporsi in maniera agguerrita nel sempre più fluido mercato pubblicitario.

Ciò da cui per i giornali pare impossibile prescindere per sopravvivere, è in ogni caso l’aspetto legato agli investimenti in tecnologia, fattore sempre più discriminante per il successo di un progetto editoriale.

Nuovo corso per il Financial Times: sole levante o luna crescente?

Img: theguardian.com

Il Financial Times è una delle testate di riferimento per quel che concerne l’informazione online, sicuramente uno degli esempi più virtuosi (e citati, anche in questo nel blog) di come il web possa rappresentare per il giornalismo un’opportunità e non necessariamente una minaccia.

Un modello di business audace quanto efficace (incentrato su un rigido paywall), un brand riconosciuto ed apprezzato per integrità, autorità e accuratezza, una diffusione cresciuta del 30% negli ultimi cinque anni (rappresentata, oggi come oggi, per il 70% da abbonati “digitali” al quotidiano), una forte spinta – per metà del traffico complessivo – da mobile. Insomma, una situazione invidiabile per molti gruppi editoriali, in difficoltà nell’individuare strategie in grado di far fronte alla contrazione – in termini di introiti – del mercato pubblicitario.

Ciò nonostante il gruppo Pearson alcuni giorni fa ha confermato la vendita di FT al giapponese Nikkei, cessione che consentirà alla società fondata da Samuel Pearson di focalizzarsi su istruzione e formazione, colonne portanti della realtà inglese che nel 1957 acquistò l’autorevole giornale economico-finanziario.

In un articolo pubblicato pochi giorni fa, Jonh Fallon, chief executive di Pearson, raccontando il passaggio di consegne (e, in qualche modo, difendendo la scelta fatta), descrive l’attuale momento come un periodo di crisi dei media: la dirompente diffusione delle nuove tecnologie e, in particolare, le crescite esplosive di mobile e social media, rappresentano sfide molto impegnative per la produzione e la vendita del giornalismo. In virtù di ciò, nonostante la readership oggi registrata sia per il Financial Times la più elevata di sempre (e i lettori siano disposti a pagare come mai per essere informati), dopo attente analisi e riflessioni, il gruppo Pearson ha ceduto FT per dare l’opportunità alla redazione di far parte di una realtà giornalistica digitale globale, focalizzata al 100% sull’editoria.

Non sono un esperto di alta finanza ma il messaggio, tra le righe, mi pare un modo elegante per indicare i media tradizionali, benché capaci di reinventarsi e crescere sottoforma digitale, quali strutture ancora fragili e inadatte a garantire guadagni crescenti. Insomma, non così accattivanti per chi, operando in altri settori, voglia investire del denaro (a conferma di ciò, pare che anche l’Economist, altra testata in orbita Pearson, sia sul mercato).

Il valore pagato da Nikkei per FT è di 1,3 miliardi di dollari, 5 volte la somma versata nel 2013 da Bezos per acquistare il Washington Post. Se non c’è alcun dubbio sul fatto che la cifra sia davvero notevole, è altrettanto vero che le parole di Naotoshi Okoda, presidente e amministratore del quotidiano Nikkei, sembrano comunque confermare i limiti della stampa: “Siamo giornali. L’affare [con Pearson] non punta a incrementare i profitti. Lo abbiamo fatto perché vogliamo crescere l’influenza del [nostro?] giornalismo”.

Il futuro di FT (e, generale, del “Quarto Potere”) insomma, resta ancora tutto da decifrare.

Audience engagement, il giornale oltre le news

Img: themediabriefing.com

Lo sviluppo del mondo giornalismo si evince anche dalle mansioni che, con lo sviluppo degli strumenti digitali, entrano a far parte delle redazioni. Se, per esempio, sino a non molti anni fa non tutte le testate potevano contare su una figura dedicata esclusivamente ai social media, oggi, i gruppi editoriali più innovativi propongono addirittura profili lavorativi più “evoluti” che si occupano di audience engagement, di come cioè coinvolgere – in misura sempre maggiore – il proprio bacino di lettori. In una bella intervista rilasciata al NeimanLab, Renée Kaplan, a un mese dall’insediamento, ha risposto ad alcune domande sul proprio ruolo in qualità di responsabile audience engagement del prestigioso Financial Times (giornale che, lo ricordo, basa il proprio modello di business sul paywall). L’obiettivo dell’operato del team da lei diretto (data analyst, SEO specialist e social media producer) è quello, in prima istanza, di conoscere il pubblico di lettori di FT – quali articoli preferiscono? In quali formati? Quando e come fruiscono delle notizie? – per riuscire così ad adattare al meglio i contenuti a disposizione, ottenendone il massimo in termini di traffico e di condivisioni. Altro scopo, di certo non secondario, è quello di ottimizzare i contenuti differenziandoli a seconda dello strumento utilizzato per diffonderli. L’esempio citato in questo senso è il materiale relativo al recente “scandalo Fifa”: il team di Kaplan, ai “classici” articoli testuali con molti dettagli su quanto stava accadendo, ha affiancato la realizzazione di materiale grafico sul tema specificatamente pensato per essere diffuso e condiviso nei canali social.

I termini chiave di chi si occupa di audience engagement sono distribution e organic reach, parametri questi che misurano l’effetto dei contenuti della redazione, il loro impatto giornalistico, dentro e fuori gli spazi del giornale.

Interessante notare come Kaplan e colleghi lavorino spalla a spalla con gli uffici editoriali ma non siano direttamente collegati ai desk di chi invece è deputato alla sfera dell’advertising. Chiaro che l’obiettivo trasversale a tutti i reparti è quello di far in modo che quante più persone visitino il sito, ci trascorrano quanto più tempo possibile e ci tornino quanto più spesso, ma non ci sono traguardi commerciali da raggiungere per chi lavora sul lato engagement.

Si tratta piuttosto di identificare le strategie migliori – e in questo, impossibile prescindere da una approfondita analisi – per sfruttare al meglio il materiale a disposizione. Per soddisfare gli abbonati e per attirarne di nuovi.

Perché le notizie, da sole, non bastano più.
E i giornali non sono più semplici redazioni.

Il Financial Times e l’economia dell’attenzione

Img: ft.com

Il Financial Times è uno dei quotidiani che ha meglio saputo affrontare la sfida del digitale. Lo testimoniano anche gli ultimi dati diffusi dalla testata che vedono, nel 2014, un incremento dei profitti: +10% annuo nella circolazione del giornale su carta e online, e un +21% negli abbonamenti (il cui 70% è rappresentato da digital subscriptions). Il FT è stato tra i primi a vagliare su web l’approccio basato sul cosiddetto paywall. Semplificando, tale strategia consente a chiunque di leggere 3 articoli gratis al mese, superati i quali, per proseguire nella fruizione del materiale della testata, si richiede la sottoscrizione di un abbonamento. Un metodo che, in un mondo – quello della Rete – nel quale ancora oggi la gratuità del contenuti è assai diffusa, a molti è inizialmente sembrato azzardato ma che, in virtù della qualità dei pezzi del giornale e della sua rilevanza nel panorama economico-finanziario, si è dimostrato di successo (le 720.000 “copie” tra carta e web del 2014, pur non essendo un numero altissimo, rappresentano il record per la testata).
Nonostante i buoni risultati, il FT ha però deciso di modificare la propria strategia. Da marzo, infatti, il paywall è proposto in una versione aggiornata: non più 3 articoli al mese gratis ma, un mese di accesso senza limiti alle risorse del quotidiano alla cifra simbolica di 1 dollaro. Terminato il mese di “prova”, all’utente sarà proposto l’abbonamento annuale che, nella sua versione base, ammonta a 335 dollari. Questo cambio, secondo John Ridding, CEO di FT, dovrebbe portare ad un ulteriore aumento degli abbonamenti che si stima possa essere compreso tra l’11 e il 29%.

Alla base della scelta della testata – per certi versi inaspettata, per l’intero comparto media online, il paywall di FT ha rappresentato una delle poche certezze – vi sono dei cambiamenti nelle proposte che il giornale riserva agli inserzionisti. Se è vero che la maggior parte degli introiti del quotidiano derivano dagli abbonamenti, FT sta tentando di individuare nuove opportunità legate alla pubblicità.
In virtù del fatto che, come spiegato da Jon Slade, responsabile del comparto digital advertising del FT, i lettori online della testata restano nel sito mediamente sei volte di più che in qualsiasi altro spazio di notizie economico-finanziarie, i vertici di FT hanno iniziato a proporre agli inserzionisti una metrica alternativa (o, quantomeno, complementare) a impression e click. Si tratta del cost-per-hour (CPH), quello che potrebbe presto diventare uno dei nuovi standard del mercato pubblicitario online.
Se, come dimostrato da Chartbeat – partner FT nello sviluppo del progetto per la parte di analisi del comportamento degli utenti – più un individuo è esposto a un messaggio pubblicitario, più alta è la sua propensione all’interazione – sia in termini di brand recall (letteralmente, richiamo di marca) che più genericamente di engagement – riuscire a far tesoro del “tempo speso” dai lettori all’interno del sito potrebbe rappresentare per la testata un (nuovo) punto di svolta.
FT sembra quindi aver deciso di puntare sulla cosiddetta economia dell’attenzione. La sfida, tutt’altro che semplice, è quella di riuscire a catturare il lettore facendolo rimanere il più a lungo possibile all’interno dei “confini” del giornale.
Strategia che sembra diametralmente opposta a quella in uso negli spazi che, facendo massiccio ricorso a classifiche e gallerie fotografiche, costruiscono i propri contenuti per una lettura veloce e una rapida condivisione.

Quale modello avrà la meglio?

Il medium è i (propri) messaggi: la lezione del Financial Times

Whic FT reader are you?

Img: ft.com

Da alcune settimane l’autorevole Financial Times ha adottato una nuova veste per il quotidiano cartaceo e per il proprio spazio online. In occasione del restyling, il NeimanLab ha pubblicato una lunga intervista a Gillian Tett, U.S. managing editor del FT, dalla quale emerge come la caratteristica primaria dell’approccio adottato dal giornale economico-finanziario inglese sia la flessibilità.
In sintesi, oggi non è più sufficiente limitarsi a proporre la testata come digital-first e/o digitally focused, ma il giornale entra davvero nell’era digitale nel momento in cui riesce a far fronte alle diverse esigenze degli utenti.
Se è vero che l’evoluzione dalla stampa al digitale coinvolge molti lettori (ma non ancora tutti, per cui al momento non si può ancora prescindere dal quotidiano cartaceo), è altrettanto vero che nell’arco della giornata uno stesso utente si informa utilizzando differenti strumenti. L’unità di misura della stampa, il lettore, è oggi una realtà decisamente complessa: è il singolo individuo infatti, nel proprio consumo di notizie, ad essere sfaccettato.
La mattina, ad esempio, tra una riunione e l’altra, l’utente desidera essere aggiornato con tempestività e sintesi sulle breaking news, notizie da scorrere facilmente con lo smartphone (proprio sulla base di questa necessità sono declinate le opzioni fastFT e FT Antenna del Financial Times). La sera, invece, al termine di una giornata lavorativa, avendo maggior tempo a disposizione, può voler optare per le cosiddette “big page”, articoli lunghi e dettagliati che presentano il contesto nel quale gli avvenimenti principali si sviluppano.

Il digitale, in altre parole, accompagna l’evoluzione del giornale che – come dimostra l’esempio del FT – sta iniziando a proporsi come un’entità camaleontica in grado di adattare linguaggio e contenuti in base alle richieste dagli utenti. La celebre espressione di McLuhan: “il medium è il messaggio” forse andrebbe aggiornata con una versione 2.0 del tipo “il medium è… i (propri) messaggi”.

La flessibilità va intesa però come punto di arrivo non di partenza. A precederla, due “leve” alla base anche degli sviluppi del FT: la capacità di analizzare i dati a disposizione per individuare le esigenze del proprio bacino di lettori; e quella di innovare, creando nuovi strumenti (in questo senso da seguire gli sviluppo della collaborazione sui wearable device, gli strumenti che si indossano, tra FT e Samsung Gear) in grado di migliorare la fruizione delle notizie.

Financial Times: record di copie, sempre più bassa la percentuale di ricavi adv

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Alcuni giorni orsono sono stati pubblicati i dati di esercizio relativi al 2013 del giornale economico-finanziario Financial Times. Gli specialisti del settore attendevano con molta curiosità i dati di FT Group perché il quotidiano inglese è stato tra i primi a sposare in maniera decisa il digitale. Non è un caso, quindi, che oggi oltre la metà dei ricavi del gruppo (per l’esattezza il 55%) derivi dal digitale e dai servizi offerti dalla testata, una cifra che registra un incremento del 31% rispetto al 2008. Viceversa, continuando il ragionamento in termini percentuali, i ricavi pubblicitari che cinque anni rappresentavano il 52% oggi si attestano al 37%. Questo, nonostante l’estensione a livello globale dell’innovazione FT Smart Match, la soluzione di contextual advertising in grado, grazie all’utilizzo della tecnologia chiamata Semantic Profiling, di offrire agli inserzionisti l’opportunità di associare i propri contenuti (articoli, white paper, video), in tempo reale e nel massimo della coerenza, ai nuovi articoli pubblicati su FT.com. Attraverso la tecnologia di Smartology cui la testata si è affidata, il nuovo pezzo pubblicato dalla redazione viene analizzato allo scopo di identificarne i concetti e le categorie di riferimento principali sulla base dei quali mostrare all’utente, in maniera automatica, i contenuti brandizzati più in sintonia con la notizia.

Per paradossale possa sembrare, in virtù del rigido paywall (senza registrazione si può solo vedere la homepage senza poter leggere nessun articolo), il FT nel 2013 ha incrementato dell’8% il numero di copie pagate, facendo registrare 652.000 copie totali (online + stampa), numero record in 126 anni di storia. Dato questo che, se approfondito, mostra un nuovo calo della distribuzione cartacea (-20% rispetto all’anno precedente) compensato però da una crescita del 31% delle sottoscrizioni digitali che ormai rappresentano quasi i 2/3 degli lettori paganti del giornale.

All’ottimo risultato in termini di copie vendute ha sicuramente contribuito il canale mobile di FT che, in virtù della propria app svincolata da iTunes con oltre 5 milioni di utilizzatori e le rinnovate collaborazioni con Google Newsstand e Flipboard oggi porta alla testata il 45% del traffico e un quarto dei nuovi abbonamenti digitali.

Altra iniziativa di successo è stata FTfast, il sito di notizie 24 h su 24 tramite il quale la testata può offrire un’informazione più snella ma più puntuale, sempre aggiornata in relazione ai vari mercati del mondo.

Tanti numeri per sottolineare come la scelta di puntare sul digitale per il Financial Times al momento sia una sfida vinta. Certo, il giornale è un quotidiano economico-finanziario il cui bacino di lettori è forse più propenso a pagare per ottenere informazioni che possono risultare determinanti per il proprio lavoro. Ma immaginare per le testate un futuro nel quale i guadagni vengano in primis da contenuti di qualità – mediante abbonamenti – e non dalla pubblicità, lascia vivo un barlume di speranza per un comparto, quello dell’editoria, in forte crisi.