Ballata dell’odio e dell’amore

Di solito, quando decido di andare al cinema, scelgo il film sulla base di quello di Dylan Dog chiamerebbe “quinto senso e mezzo”, una sorta di richiamo con il quale la pellicola in qualche modo mi invita ad assecondarla. Insomma, faccio di tutto per evitare locandine, sinossi e trailer. Questa volta però, sbirciando gli orari degli spettacoli, non ho potuto non incrociare due paroline che hanno finito per incuriosirmi: Spagna e guerra civile.
Seduto in sala, prima che il film iniziasse, avevo immaginato molte varianti di ciò che da lì a pochi minuti avrei seguito sullo schermo, ma mai avrei sospettato che due dei protagonisti della storia raccontata fossero clown. E non due clown uno mimesi dell’altro – versione circense del bene e del male, almeno non al di fuori del circo – bensì due clown svitati e violenti. E la rivoluzione civile spagnola? Lo sfondo sul quale si svolgono le vicende, (forse) l’origine e conseguenza del “male” che sfocia nel disprezzo della vita e nella sete di vendetta. A ben vedere però, il centro della scena non è tanto un attore in carne ed ossa quanto un concetto astratto seppur tangibile: la tristezza. Tristezza per l’infanzia perduta, per l’affetto non ricambiato, per un destino segnato, per un amore malato, per la libertà negata. Sì, forse è proprio così, è la tristezza nelle sue diverse forme (stavo per scrivere “…e colori” ma in realtà i paesaggi del film sono quasi sempre scuri, in perfetta congruenza con lo sviluppo della trama) la vera protagonista del film, un sentimento che si lega ai personaggi segnandone il destino. Scontato quindi che, alla fine, non ci siano vincitori ma solo vinti e che le lacrime accomunino tutti coloro che nell’amore (per il proprio padre, per una donna, per il proprio lavoro, per la Patria) avevano intravisto una via di fuga.
E’ quindi forse del tutto “normale” che uscito dalla sala parte di tristezza abbia assalito anche il sottoscritto (che non si aspettava un film genere Un giorno di ordinaria follia, datato 2010 ma distribuito in Italia solo ora nonostante i due premi al Festival di Venezia), missione compiuta. Curioso.

The Artist, la vita è un set

Non avrei mai pensato di iniziare il mio nuovo “anno cinematografico” vedendo un film muto girato tutto bianco e nero.
E invece sono stato felicissimo di averlo fatto. The Artist – questo il nome della pellicola alla quale mi riferisco – è un film scritto e diretto da Michel Hazanavicius, interpretato magistrarlmente da Jean Dujardin, Berenice Bejo e dal cagnolino Uggie. La storia è quella di George Valentin un divo del cinema muto, osannato dalle folle che adorano le sue interpretazioni (fatte soprattutto di mimiche facciali) e quelle del suo simpatico amico a quattro zampe. Ma si sa, il mondo dello show biz si regge su colonne assai fragili: l’acclamato attore passa nel giro di poco tempo dalle copertine delle riviste ad una vita di stenti, sconforto e anonimato. La rivoluzione del sonoro, la crisi finanziaria e una buona dose di orgoglio trasformano in breve tempo un campione di incassi dal sorriso magnetico in un cittadino qualunque alle prese con restrittezze economiche e con la rassegnazione di una persona che non si riconosce in un mondo in vertiginoso cambiamento che improvvisamente non ha più bisogno di lui.
Alla discesa di George corrisponde però l’ascesa di Peppy Miller, nuova starlette del cinema, ironia del caso portata alla ribalalta – anche se in maniera del tutto involontaria – proprio da Valentin.
Un film davvero bello, una piacevolissima sorpresa capace, nonostante la mancanza di audio e colore, di risultare in ogni scena delicatamente appassionante. Una storia dal fascino retrò capace di commuovere per semplicità e tenerezza, per quell’atmosfera speciale nella quale, senza alcun suono, gesti, sguardi, espressioni colpiscono al cuore dello spettatore.
Un sentimento di amore tanto forte da accettare senza pretendere di cambiare, questo il vero soggetto della pellicola. Stupendo, non c’era modo migliore di inizare il 2012.

Another Earth, Terra1 chiama Terra2

Tra i film dell’ultima edizione del festival di Locarno sono riuscito a vedere una pellicola statunitense sci-fi che consiglio di non perdere agli amanti del genere. Si intitola Another Earth (regia di Mike Cahill) e vede per protagonista una ragazza di nome Rhoda (una bellissima Brit Marling) che, studentessa di astrofisica, sogna di esplorare il cosmo.

Proprio dallo spazio, un puntino luminoso blu che un giorno appare nel cielo, cambierà la sua vita e quella di John Burroughs, un compositore di talento che proprio in virtù di quel piccolo nuovo astro vedrà di colpo mutare, come per Rhoda, il corso del proprio destino.

Passano gli anni e quello che in principio non era altro che una fioca luce azzurrognola si rivela in realà un pianeta identico, almeno all’apparenza, alla Terra, e in costante avvicinamento.
Scienziati di tutto il mondo cercano una spiegazione al fenomeno e quando, in diretta televisiva, dal SETI Institute si riesce, dopo vari tentativi, a imbastire una comunicazione con Terra2 – questo il nome dato a nuovo pianeta – la curiosità, non solo tra gli addetti al lavori, scatena le più fervide immaginazioni.

Nel frattempo, un magnate con l’hobby dello spazio, organizza un volo di ricognizione su Terra2 e mette in palio uno dei posti a bordo dello shuttle a chi riuscirà a convincerlo ad assegnargli un biglietto verso una destinazione che, nonostante i potenti strumenti di osservazione, resta ancora avvolta nel mistero.

Un film che forse non brilla per originalità (a tratti ricorda il 21 grammi di Inarritu) ma che risulta comunque di piacevole visione capace com’è di stimolare le fantasie legate alla scoperta di un mondo sconosciuto e le riflessioni sulla vita, la morte e il desiderio di ricominciare nonostante le avversità. Molto belle (quanto strane) le immagini di Terra2 vista da Terra1 e il finale “aperto” che lascia libero sfogo alla fantasia. Spaziale.

Poetry, gli scorci poetici di Chang-dong

I film coreani mi affascinano anche (e forse soprattutto) perché non riesco mai a capirli appieno, c’è sempre qualcosa, qualche particolare, qualche messaggio, che sfugge alla mia comprensione. Non tutto ai miei occhi appare avere un senso e questa mancanza di logicità a tutto tondo mi appaga.
Fatta questa premessa, appena ho saputo della proiezione di Poetry al tradizionale cinema all’aperto estivo, non ho saputo resistere.
Il film – opera di Lee Chang-dong premiata a Cannes – ha come protagonista Mija, un’anziana signora che, divisa tra un lavoro part time come badante e la cura del nipote, riscopre una delle sue passioni giovanili, la poesia, iscrivendosi a un corso per provetti poeti.
La vita tranquilla della signora viene però sconvolta da due avvenimenti improvvisi che ne scuotono le giornate e che riesce ad affrontare proprio grazie al proprio nuovo hobby. Anche se inizialmente non trova un metodo per riportare su carta i propri sentimenti, le proprie emozioni (forse troppo a lungo sopite), Mija alla fine risulta in grado di dar voce a quello che molti, parlando della pellicola, hanno chiamato l’invisibile (non voglio svelare troppo circa la trama e i suoi risvolti).
La particolarità del film che più ho apprezzato è stata quella relativa al completo rovesciamento delle parti tra nonna e nipote rispetto alle mie aspettative: la prima molto è più “ingenuamente pura” la cui vita è dettata da continui gesti d’amore e di apprezzamento (nei confronti degli altri, della natura, della vita in generale), il secondo invece, burbero, e menefreghista, sospeso tra la tv, il computer e i propri amici, pare capace di apprezzare solo ciò che è immediato e l’effimero.
Per la protagonista del film non si può che provare simpatia e al contempo tenerezza: una donna fragile, sola ad affrontare una vita difficile, gli acciacchi dell’età che avanza e che si trova ad accudire un nipote con il quale non riesce ad instaurare un dialogo. E che proprio grazie alla poesia riscopre la riflessione e quel “non dare mai per scontato” che le permette di accettare e superare le avversità quasi i versi siano un modo di vedere e assaporare la vita nonostante il dolore che essa spesso può procurare. Un film semplice ma che anche grazie all’ottima interpretazione di Yu Junghee e alla delicata regia di Chang-dong regala emozionanti scorci… di poesia.

The Fighter(s)…

Sono un appassionato di film che hanno nella sfida fisica il perno delle vicende attorno alle quali si muovono i protagonisti. Ecco perchè appena uscito il DVD di The Fighter – titoto distribuito dalla Eagle Pictures che mi sono inspiegabilmente perso al cinema – ho fatto di tutto per riuscire a vederlo quanto prima. Nel piccolo paesino di Lowell la celebrità è Richard “Dicky” Eklund (un bravissimo quanto trasformista nel fisico Christian Bale, non a caso premio Oscar), un atleta entrato nella storia non tanto per aver conquistato un titolo Welter New England ma per aver mandato al tappeto il mitico Sugar Ray Leonard (perdendo comunque l’incontro), uno dei pugili più forti di tutti i tempi.
All’ombra del fratellastro, cresce Micky “Irish” Ward il quale, dopo un inizio promettente, inanella quattro sconfitte consecutive e quindi decide di prendersi una pausa dalla boxe lavorando come operaio addetto al rifacimento dell’asfalto stradale.
Inizia per lui un periodo davvero difficile: agli insuccessi nello sport si aggiungono i non semplici rapporti con la madre-manager e con il fratello-allenatore incapace di liberarsi dalla dipendenza dal crack. Ma malgrado tutto, dopo un periodo di apatia, Micky decide di iniziare nuovamente ad allenarsi supportato da un nuovo team con il quale prende le distanze dalla famiglia. E pian piano, con il lavoro e la disciplina, i successi e le soddisfazioni tornano. Ma con loro si rivede anche il fratello, ricco di consigli ma prima della alle volte decisamente non professionale nei propri atteggiamenti dentro e fuori la palestra.
E così, quasi improvvisamente, tutti i principali personaggi si trovano a un bivio: quale strada scegliere, quale percorso intraprendere per affrontare con orgoglio le nuove sfide e per ambire a quel successo per il quale ci si è tanto impegnati?
Un bel film quello di David O. Russel (inizialmente il progetto era stato assegnato all’Aronofsky di The Wrestler) che, ispirandosi a una storia vera, racconta, in definitiva, le difficoltà del trovare i giusti compromessi che ci permettano di gestire al meglio ogni diverso ambito della nostra vita (tra salite e discese).
Belli anche i contenuti extra che permettono di scoprire i “veri” personaggi e i loro alter ego nel film, oltre che scoprire particolari informazioni circa gli attori (una su tutte: Mark Wahlberg per essere quanto più credibile si è fatto costruire un ring nel quale si è allenato per quattro anni) e le scelte sul set.

The Tree of Life, un’anima persa nel mondo moderno

The Tree of Life di Terence Mallick non è il solito film. E’ un’opera di visioni che si alternanto sullo schermo come nella mente del protagonista – l’adulto Jack (interpretato da Sean Penn) – che rivive i primi anni della sua vita con la famiglia in Texas.

Immerso nella sua vita lavorativa, circondato da grattacieli e rinchiuso in spazi artificiali, Jack affoga nei propri ricordi alla ricerca del senso della vita: la famiglia, la scuola, gli amici, i giochi, la prima cotta, il desiderio di autonomia, il conflitto con i genitori, insomma la scoperta di un mondo che via via si è dipanato davanti ai suoi occhi.

Un mondo nel quale esistono due opposti che si intrecciano: la madre che con affetto lo educa alla grazia e all’apprezzamento di tutto ciò che lo circonda e il padre che invece, severo e iperprotettivo, gli intima di non lasciarsi mai mettere sotto e di badare solo ai propri sogni e alle proprie ambizioni.

Perso nel tentativo di capire quale possa essere la strada da intraprendere, Jack viaggia con la mente (“the life journey through the innocence of chilhood to the disillusioned adult years” come recita la sinossi) ricostruendo la propria esistenza grazie a tante piccole videocartoline che si susseguono senza un ordine ben preciso alternando natura e spazio, passato e presente, realtà e immaginazione. Le onde del mare, un’eclisse, il volo di una farfalla, il vento tra le fronde degli alberi, la smorfia di un neonato, una cascata, le ombre di bambini che giocano, il riflesso della luce.

A tratti sembra una sorta di inno, un appello spirituale a vivere la propria vita amando (perchè solo nell’amore troverà compimento e non finirà in un baleno) e nella consapevolezza che il senso di tutto sarà chiaro solo alla fine del nostro “viaggio”.

La pellicola, fresca vincitrice della Palma d’oro a Cannes, è in realtà un vecchio progetto del quale da anni si vociferava l’uscita (di volta in volta associato ad interpreti diversi) che oggi, arrivato finalmente nella sale, ho diviso pubblico e critica.

Nel complesso forse eccessivamente prolisso ma di notevole impatto visivo, il film di Mallick ha saputo emozionarmi proprio in virtù della sua non linearità, del suo narrare quasi esclusivamente tramite (bellissime) immagini quasi il regista stesso – come noi in sala – non fosse altro che uno spettatore di quello che, malgrado aspetti talvolta negativi, resta il grande spettacolo della vita.

Habemus papam, fumata nera

Alla vigilia della beatificazione di Giovanni Paolo II, con un tempismo quasi “divino”, mi sono recato al cinema a vedere Habemus Papam, il nuovo film di Nanni Moretti. Sarò sincero: l’ultimo lavoro del regista di Brunico non mi ha esaltato per nulla. Ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa, Moretti, presentando la pellicola, mi aveva incuriosito (anche se, con il senno di poi, la trasmissione ha probabilmente offerto un’anteprima troppo succosa proponendo quasi tutti i punti salienti del film): il solo fatto che il regista affrontasse il tema della religione mi sembrava presagire un umorismo graffiante che a conti fatti, al cinema, poi non ho colto.
L’ironia capace di “pungere” mettendo a nudo vezzi e controsensi della vita, infatti, mi è sembrata essere presente solo in minima parte in Habemus Papam. E così, ad esempio, la sfida “sportiva” tra i cardinali, mi è parsa una surreale parodia più vicina a Vacanze di Natale che Palombella Rossa. Anche la sceneggiatura non mi ha colpito, a tratti irriverente e capace di strappare qualche sorriso in generale non mi ha però convinto per originalità e ritmo. Tutto viene ridicolizzato – la psicoanalisi, la fede, il conclave, le guardie svizzere… – in maniera forse eccessiva per cui alla fine del film si accettano quasi inconsciamente i timori del cardinale Melville ma non si capisce da cosa essi scaturiscano e che cosa nascondano. Il racconto insomma galleggia in superfice senza sviscerare fragilità e dubbi che assalgono il neopapa risultando in definitiva sfuggevole nei confronti del vissuto di un uomo che, inaspettatamente, si trova a dover assecondare onori e oneri del rappresentare (per chi crede, proprio per volere divino), lui fragile e mortale, Dio sulla Terra.
Sopravvalutato.

La favola del re balbuziente

Dopo il trionfo (in parte inaspettato) agli Oscar, non ho potuto esimermi dal vedere il tanto acclamato Il discorso del re. E sinceramene non mi ha colpito particolarmente. Un film carino, a tratti simpatico, ben recitato dall’attore protagonista Colin Firth (che infatti si è aggiudicato la statuetta come migliore attore).
Ma non mi ha lasciato molto alla fine: la sceneggiatura, molto semplice, non è riuscita a trascinarmi e, a tratti, mi è parsa lenta e scontata. L’idea di un sovrano “imperfetto”come ognuno dei propri sudditi (e in questo molto “democratico”, alcuni osservatori suggeriscono che anche per questo motivo, sull’onda di quanto sta accadendo nel Nord Africa, forse si è voluto premiare il film per regalare al mondo un messaggio di speranza) è stata sviluppata, a mio modo di vedere, solo in maniera superficiale e per nulla corale.

Alcuni giorni dopo aver visto il film al cinema mi è tornato alla mente un altro film inglese, The Queen – La Regina datato 2006, che mi pare avere più di un’analogia con la pellicola di Tom Hopper.

Pur presentando dei monarchi praticamente agli antipodi i due film sembrano in qualche modo legati: se ne Il discorso del re la sofferenza è causata da una forma debilitante di balbuzie, in The Queen, la difficoltà di parola è dovuta alla prematura morte di un parente scomodo probabilmente mai accettato in famiglia sino in fondo. In entrambi i casi il popolo è allo stesso tempo un “test” da superare e uno “specchio” in base al quale valutare il proprio indice di gradimento. Ma mentre il logopedista Logue riesce nell’intento di far “maturare” il futuro Re Giorgio VI d’Inghilterra, il povero Tony Blair convincerà con estrema fatica la regina Elisabetta II a esprimere pubblicamente il cordoglio per la morte della Principessa Diana.

Insomma se entrambe le pellicole si focalizzano sull’istituzionalità del conservatorismo regale, paradossalmente esce dal confronto vincitore il monarca più lontano dai nostri giorni.

Concludendo: il film è piacevole ma leggerino e a mio modo di vedere complessivamente non all’altezza dei “rivali” alla corsa dell’Oscar The Social Network, Inception e Il Cigno Nero. Nonostante la vittoria finale.

Tornassi indietro mi piacerebbe vedere il film in lingua originale per apprezzare ancora di più gli attori protagonisti e le loro inflessioni.

L’eterna lotta tra cigno nero e cigno bianco

Da tempo aspettavo la nuova pellicola di Darren Aronofsky, in assoluto uno dei registi che preferisco. E che, anche questa volta (dopo lo splendido The Wrestler), non ha deluso le mie attese di fan. Il Cigno Nero – questo il titolo del nuovo film da alcuni giorni anche nella sale italiane – è riuscito davvero molto bene. Una regia superlativa, un’attrice protagonista – Natalie Portman – in stato di grazia (bella quanto brava), una sceneggiatura avvincente, un sottofondo musicale che accompagna ogni scena, rendono il film uno dei candidati più accreditati per la vittoria ai prossimi Oscar.
La storia offre, come suggerisce il titolo, una rilettura in chiave moderna de Il lago dei Cigni di Cajkovskj: Nina Sayers, giovane e brillante ballerina, ambisce da anni alla ribalta di un ruolo importante che possa premiare i sacrifici della sua vita interamente dedicata al balletto. Finalmente arriva il suo momento anche se il ruolo assegnatole è molto impegnativo. Nina dovrà infatti interpretare contemporaneamente due ruoli: quello che più le è vicino del cigno bianco, una figura leggiadra, timida, candida come le proprie piume, e quello del cigno nero, il “lato oscuro della danza” per dirla alla George Lucas, un’anima torbida, impulsiva, egoista, provocante, ambiziosa e senza scrupoli. A rendere ancora più gravosa la sfida si aggiunge anche l’arrivo, nella campagnia di ballo, di una nuova ragazza che con i suoi modi incarna appieno il ruolo di alter-ego del cigno bianco. Proprio come ne Il Lago dei Cigni le ragazze si fronteggiano quasi fossero Odette e Odile, lottando per ottenere le grazie del principe Siegfried che nel film non è tanto il primo ballerino dell’opera quanto Thomas Leroy, il “direttore artistico” del New York City Ballet interpretato da Vincent Cassel.
Nella fragile mente di Nina, Odile non è solo una figura in carne e ossa (Lily, interpretata dalla sensuale Mila Kunis) ma anche (e forse soprattutto) un incubo che la perseguita: la paura di non essere “perfetta a sufficienza” per il ruolo tanto agognato diventa una minaccia che si palesa con uno stato di crescente agitazione che trasforma giorno dopo giorno la ragazza, in un crescendo di tensione che la porterà sempre più vicina al cigno nero e al suo fascino “distruttivo”.
Se The Wrestler continua ad essere il mio film preferito diretto da Aronosfky (tra l’altro, The Wrestler e Il Cigno Nero hanno un identico finale: il tripudio del pubblico, non dico altro) è solo perché, oltre ad entusiasmarmi, la pellicola con Mickey Rourke è riuscita anche a commuovermi. Il Cigno Nero resta comunque un film bellissimo capace di riproporre sul palcoscenico ma al contempo anche fuori dal palcoscenico la storia di uno dei più noti e acclamati balletti. Un’opera a metà strada tra dramma e thriller psicologico con tratti di horror che si merita appieno le cinque nomination per i quali è stato proposto agli Oscar 2011. Da non perdere.

B come Barcellona, B come Biutiful, B come Bardem

Alejandro Gonzalez Inarritu è uno dei miei registri preferiti, il suo modo di raccontare per immagini la vita e la morte mi ha sempre affascinato (in particolare 21 grammi è il suo film che preferisco). Da pochi giorni è di nuovo nei cinema nostrani con Biutiful opera per la quale Javier Bardem ha vinto la Palma d’oro di miglior attore protagonista.
Un film lungo – a tratti forse un po’ lentino – che racconta le vicende di un gruppo di individui accomunati da una vita (difficile) ai margini. In una Barcellona molto lontana dai festi di Vichy Cristina Barcellona, un gruppo di uomini e donne cerca di sopravvivere grazie a piccoli espedienti al limite della legalità. Ciò che accomuna i personaggi è un destino segnato nello stesso tempo dall’amore (tra genitore e figli, tra marito e moglie, tra amanti…) e dalla miseria di un’esistenza votata al sacrificio e amara di gioie (forse proprio per questo motivo il titolo del film è una storpiatura di termine inglese “bello”).
Mentre colonne di fumo si levano da enormi ciminiere – show must go on come cantava Freddy Mercury – la vita ai bordi della città si può semplificare in un dualismo sfruttatori-sfruttati che poco spazio lascia all’umanità.
In un consteso simile, il protagonista, Uxbal, dovrà ogni giorno dimostrarsi forte tanto da poter gestire il rapporto con i figli desiderosi di affetto e cure, con la propria fragile e volubile moglie, con “colleghi” di lavoro diversi e dalle esigenze spesso contrastanti e, infine, con il proprio corpo dalla “cagionevole salute”. Trovando non solo il modo di sbarcare il lunario ma che anche di grantire a sé stesso la pace che riesce, quando interpellato, a donare ai defunti.
Un film intenso, a volte crudo, contrassegnato dal classico “misticismo” di Inarritu che non può lasciare indifferenti.