La nuova veste del New York Times, tra interattività e native adv

img: from AdAge.com

Lo scorso 8 gennaio, il New York Times ha iniziato a proporre la nuova veste grafica. Obiettivo primario – come sintetizzato nel minisite del lancio – è quello di rendere l’esperienza di lettura più profonda e coinvolgente, offrendo ai lettori un’interfaccia in grado di rispondere con maggiore tempestività e semplicità ai bisogni informativi.

Le sei novità più sostanziose sono:

1. Gli articoli non sono più spezzati in diverse pagine, la lettura può proseguire con il solo scroll senza più la necessità di cliccare “Continua”. Le foto degli articoli, inoltre, possono essere ingrandite per poi tornare alla lettura.

2. L’area dedicata ai commenti è stata espansa e la si può navigare parallelamente all’articolo di modo da rendere gli interventi degli utenti di più facile comprensione;

3. La navigazione tra contenuti ora può avvenire anche in maniera orizzontale grazie a un box a lato dell’articolo e a una barra in alto che consente di scoprire gli altri contributi della sezione;

4. Il sito, nella parte alta, avvisa l’utente circa la pubblicazione delle breaking news;

5. Il tasto per la condivisione è, in alto, sempre visibile. Non è legato ai contenuti ma fa parte della cornice del sito entro la quale ogni articolo viene caricato. Lo stesso dicasi per le sezioni, raggruppate in un unico menu laterale.

6. Maggiore spazio ai suggerimenti che rimandano ad articoli correlati su una particolare tematica, e a quelli più condivisi.

Alle scelte legate al design sia affianca l’utilizzo da parte della testata del native advertising. Avevo già trattato l’argomento, ora anche il NYT ha deciso di proporre agli inserzionisti la pubblicazione di contenuti sponsorizzati.

La prima campagna, online per i prossimi tre mesi, vede protagonista Dell. A supporto della classica tabellare, è stata creata una sezione apposita che viene richiamata da un riquadro blu nella homepage nel quale campeggia la scritta “Paid Post”. Il click rimanda a paidpost.nytimes.com, un minisite che pubblica gli articoli sponsorizzati (“PAID FOR AND POSTED BY DELL” recita il titolo della pagina). Il primo post, Will millennials ever completely shun the office?, secondo quanto riportato da AdAge.com, sarebbe stato scritto da un freelance che collabora con la testata sulla base di un tema non legato in maniera diretta ai prodotti del colosso americano dell’hardware – quello appunto della cosiddetta milleniam generation – proposto da un editor del NYT e avvallato da Dell. I commenti all’articolo sono disattivati e, in caso di condivisione del contributo via Twitter, un testo predefinito suggerisce come prima parte del messaggio: “Dell Paid Post – From NYTimes.com” (da notare come il post non sia stato diffuso dalla testata nei propri profili social media).

Scorrendo la Timeline che sintetizza i vari cambiamenti della presenza online del NYT, è facile capire come il giornale in Rete stia diventando qualcosa di sempre più ibrido, capace di innovarsi facendo proprie le scelte di maggior successo di blog (es. articoli correlati, scroll per proseguire la lettura) e applicazioni (il flip laterale che in un certo senso richiama il voltare pagina di quotidiano cartaceo), e testando nuovi approcci pubblicitari (native advertising) alla ricerca di soluzioni valide a lungo termine.

Native advertising e brand journalism: quando il giornalismo online incontra la pubblicità

Da alcune settimane sono immerso nell’aggiornamento di News(paper) Revolution che, a grande richiesta, uscirà a breve anche in versione ebook (UPDATE: la versione digitale, ampliata e aggiornata, è uscita alla fine del mese di maggio).

Uno degli approfondimenti al quale ho deciso di dare spazio nella nuova edizione del mio libro, è quello relativo al cosiddetto native advertising. Ecco, di seguito, un estratto della parte dedicata alla forma di pubblicità che gli editori stanno iniziando a testare.

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Uno dei nuovi formati pubblicitari online che gli editori stanno iniziando ad adottare è il cosiddetto native advertising.

L’idea di base è semplice: in ultima analisi, anche l’advertising può rappresentare una notizia; se non riesce ad esserlo, allora probabilmente il contenuto pubblicitario non ha poi così tanta rilevanza.

Degli esempi di formati legati al native adv sono le Sponsored Story di Facebook e i Promoted Tweet di Twitter: contenuti brandizzati integrati direttamente nell’esperienza dei social media piuttosto che posizionati nei classici spazi riservati alla pubblicità online.

In qualche modo, quindi, il native advertising è una rivisitazione “in salsa web/social” dei redazionali (advertorial) presenti nei quotidiani stampati. Con il native adv i lettori possono fruire di contenuti sponsorizzati interattivi che puntano alla condivisione, operazione questa che la pubblicità tabellare di solito non consente. E’ un modo di comunicare con un linguaggio che, sfruttando appieno le peculiarità della Rete, la creatività e lo storytelling, può essere recepito in maniera costruttiva dagli utenti e superare la “cecità” dei lettori verso alcuni dei formati attualmente in uso online.

Quasi tutte le campagne di native advertising nascono dalla collaborazione diretta tra editori e brand, senza l’intermediazione delle agenzie. Sono proprio le testate, infatti, a conoscere meglio di chiunque altro gli standard da adottare, il profilo dei propri lettori e i “segreti” per fare in modo che questi contribuiscano a diffondere ad amici e colleghi i contenuti informativi.

Uno dei primi esperimenti di native advertising è stato realizzato dal magazine statunitense The Atlantic con un post sponsorizzato su Scientology pubblicato il 14 gennaio 2013. Probabilmente anche a causa dell’oggetto dell’articolo, l’iniziativa scatenò un acceso dibattito online, non sempre così benevolo nei confronti della testata (che, alcuni giorni dopo, ammise di aver commesso qualche errore di valutazione nella ricerca dell’innovazione del digital advertising).

Altro spazio informativo che ha deciso di puntare sul native adv, è BuzzFeed la cui testata propone una collaborazione con i brand alfine di realizzare contenuti pubblicitari in grado di catturare l’attenzione dei lettori (Jonah Peretti, CEO di BuzzFeed, definisce il native advertising come “(sort of) social advertising”).

Forbes ha, invece, introdotto BrandVoice, il servizio – nato dalla start-up newyorkese True/Slant – che consente di condividere tra editori e inserzionisti gli strumenti per creare engagement, per monitorarlo in tempo reale e per, al contempo, offrire il miglior servizio informativo ai lettori. Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di fornire contributi pubblicitari non intrusivi quanto, piuttosto, esperienzialmente accattivanti. Il magazine ha dato vita a una “Brand Newsroom” con la quale i marketer possono collaborare per far conoscere in maniera più efficace il loro business.

Un servizio analogo è quello del Washington Post che, con BrandConnect, permette alle aziende di pubblicare, nel sito del quotidiano, propri contenuti quali video, post e infografiche.

Il primo esempio di “sponsor generated content” del giornale è stato realizzato dalla CTIA, l’associazione internazionale no profit che rappresenta l’industria delle comunicazioni wireless che racconta come la tecnologia mobile abbia rivitalizzato le comunità rurali (il post era circondato dalla pubblicità display dell’associazione, conteneva un video e non consentiva di essere commentato).

Interessante notare, ancora una volta, la posizione di Google News che chiede agli editori di separare con molta chiarezza i contenuti giornalistici da quelli pubblicitari, pena l’esclusione della fonte dall’aggregatore di notizie. Il servizio dell’azienda di Mount View non si propone come uno strumento di promozione e, quindi, vuole salvaguardare la propria inclinazione meramente informativa.

(UPDATE: anche il New York Times, nel redesign del sito, online dall’8 gennaio 2013, ha iniziato a testare il native advertising, ne parlo qui)