Andrew Sullivan lascia, The Dish chiude. Peccato.

Img: dish.andrewsullivan.com

E’ passato poco più di un anno dal post nel quale cercavo di analizzare i numeri di The Dish. Nonostante il breve lasso di tempo trascorso da allora, sono – purtroppo – qui oggi a scrivere circa la fine dell’avventura di Sullivan e collaboratori. Con vivo rammarico, non lo nascondo.
Perché, pur non essendo un abbonato, dall’inizio dell’avventura “indipendentista” di Sullivan ho sempre tifavo per il blog (il termine blog utilizzato per descrivere contemporaneamente umbazar.com e The Dish non mi pare non mi pare il più azzeccato), apprezzandone l’originalità dell’approccio, la “sfrontatezza” del modello economico-finanziario (risultato alla fine tutt’altro che azzardato) e la coerenza del “condottiero” nel rifiutare inserzioni e investimenti esterni nella piena fiducia del proprio bacino di lettori.

Tornando ai fatti che in questi giorni hanno scombussolato (non solo negli USA) il mondo del giornalismo online, il susseguirsi di ipotesi e speculazioni ha avuto inizio lo scorso 28 gennaio quando, con un post dal titolo A Note To My Readers, Andrew Sullivan ha comunicato ai propri lettori l’intenzione di prendersi una pausa. Non tanto dalla scrittura in senso lato, quanto piuttosto da quello che per Sullivan è stato negli ultimi 15 anni lo strumento di lavoro quotidiano – il blog – e dal suo universo di riferimento – il digital. Ciò che colpisce, della lettera di commiato è in particolare l’accento posto sul desiderio di avere maggiore tempo a disposizione – per leggere, per pensare, per lasciare che un’idea prenda lentamente forma – in contrapposizione alla velocità che la comunicazione su web oggi sembra imporre.
In secondo luogo, non lascia certo indifferenti l’affermazione circa la prospettiva di “tornare al mondo reale”, quasi quello dei bit abbia rappresentato per Sullivan una dimensione tanto preziosa per la crescita professionale quanto alienante nei confronti, in particolar modo, degli affetti più cari.
La seconda parte del post lascia invece spazio a un velo di malinconia nel ricordo delle tante battaglie portate avanti nel corso degli anni insieme ai lettori e dei successi che proprio il pubblico ha sancito. Ed è forse proprio questo l’aspetto per il quale il progetto The Daily Dish – nato nel finire del 2000 – mancherà di più: lo spazio, nel corso degli anni, ha saputo accreditarsi non solo in quanto veicolo alternativo di notizie e interpretazioni dei fatti, ma come luogo di condivisione delle opinioni, di partecipazione attiva e confronto costruttivo: il blog è diventato, in altre parole, una community. Un gruppo di persone (30.000 abbonati e circa un milione di lettori al mese) che insieme hanno contribuito a innovare concretamente un comparto – quello dei media tradizionali – che non sembra ancora aver esattamente compreso il proprio ruolo all’interno della mutata scena informativa.

Certo che, al di là delle opinioni espresse, The Dish negli anni a venire sarà ricordato come uno dei contributi più stimolanti all’innovazione del giornalismo [non ho avuto dubbi nel citarlo nella versione digitale aggiornata e ampliata di News(paper) Revolution], con l’auspicio che qualcuno presto riesca a far tesoro dell’esperienza di Sullivan, non posso che ringraziare coloro i quali – staff ma anche semplici utenti – hanno creduto nel progetto di trasformazione di un “diario in Rete” in uno spazio informativo di livello.

Giornali e blog di testata: un rapporto in evoluzione

Img: heartland.org

Il fenomeno dei blog nacque nella metà degli anni Novanta e più precisamente quando, nel 1994, Justin Hall, allora studente dello Swarthmore College, iniziò a raccontare la propria vita e le proprie avventure nella Rete in una sorta di diario online. Justin’s Links from the Underground, questo il nome dello spazio Web, è comunemente accettato quale primo rudimentale prototipo di blog.
Per le versioni più simili a quelle attualmente in uso occorrerà tuttavia attendere sino al 1999 quando Evan Williams e Meg Hourihan lanciarono Blogger, società poi acquistata nel 2003 da Google.
I blog, nel corso degli anni, hanno fatto registrare un notevole successo, contribuendo non poco all’evoluzione della Rete e, di riflesso, del giornalismo e della professione giornalistica. L’esempio forse più eclatante in questo senso è l’Huffington Post ma, in generale, tutte le testate hanno attinto a piene mani dalla blogosfera, sia in termini di forma che di sostanza.

Alcune settimane fa però, uno tra i più autorevoli giornali ha in realtà fatto un passo indietro. Il New York Times ha infatti annunciato la decisione di diminuire (gradatamente) il numero di blog della testata, unendo quelli che affrontano tematiche più simili ed eliminando quelli non ritenuti più interessanti. Che cosa si cela dietro la decisione di uno degli spazi informativi più all’avanguardia di ridimensionare la propria componente blog? Immagino che la scelta derivi da una serie di considerazioni, non da un’unica causa scatenante, ma resta il fatto che mi ha davvero colpito leggere della decisione del NYT. Cercando maggiori informazioni, ho capito che alla base vi siano delle valutazioni sul traffico generato (per alcuni blog le visite erano poche se paragonate a quelle fatte registrare dagli spazi più seguiti), sulla frequenza di pubblicazione (non tutti i blog erano così frequentemente aggiornati) e sulla qualità dei post (diminuendo il numero dei blog ci si può concentrare su un numero complessivo minore di articoli qualitativamente migliori). Altra discriminante potrebbe essere stata quella dei link di arrivo ai blog: a quanto pare, gli utenti, per la stragrande maggioranza dei casi, visitano i blog tramite click sui link della homepage o vi giungono da collegamenti condivisi, pochissimi sono gli utenti che nella lettura partono direttamente dai blog. Infine, dal punto di vista tecnico, il software utilizzato per i blog del giornale pare non sia perfettamente compatibile con il design utilizzato per gli articoli della testata.
Il cambiamento intrapreso rappresenta l’inizio di un ridimensionamento dei blog da parte delle redazioni storiche?
Stando alle parole di Ian Fisherassistant managing editor al NYT – il giornale non vuole rinunciare all’aspetto conversazionale dei post. Solo, per ottimizzare le risorse, sta vagliando nuove modalità attraverso le quali inserire i contributi del proprio network di blog all’interno del flusso delle notizie, evitando così l’isolamento dei weblog a qualcosa di “altro” rispetto agli articoli del quotidiano online.

Obiettivo più che legittimo, resta da capire però come (e se) sia possibile sfruttare al meglio i blog senza snaturarne gli aspetti salienti che li differenziano, per tono, linguaggio e modalità di scrittura, dalle storie comunemente raccontate in un giornale.

Un anno di Daily Dish con Andrew Sullivan

Img: dish.andrewsullivan.com

Fine anno significa inevitabilmente anche tempo di bilanci, di valutazioni sulla base delle quali stilare buoni propositi e obiettivi per il futuro.

Uno dei progetti più interessanti dal punto di vista giornalistico dello scorso anno [citato nella versione digitale di News(paper) Revolution] è stato sicuramente The Daily Dish di Andrew Sullivan.

Il noto blogger, lasciato il Daily Beast, con una redazione di una mezza dozzina di persone, ha iniziato un nuovo progetto – il The Dish, appunto – completamente finanziato dai lettori (tramite donazioni o abbonamenti), senza pubblicità, sponsorizzazioni né finanziamenti da parte di terzi.

Una sfida difficile quanto intrigante, con un traguardo ben definito: arrivare, e magari superare, quota 900.000 dollari di entrate in un anno, l’editorial budget della precedente collaborazione al The Beast.

Com’è andata? Come reso noto dallo stesso Sullivan, la cifra agognata non è stata raggiunta, anche se davvero per poco (gli introiti da abbonamenti del 2013 si sono fermati a 851.000 dollari). L’iniziativa, tuttavia, per molti versi si può ritenere un successo.

Come già in parte accennato, il “sistema Dish” si regge su abbonamenti annuali (19,99 dollari) e mensili (1,99 dollari). Ogni utente non registrato ha un bonus di 5 click per leggere per intero gli articoli del blog, usufruito il quale scatta il blocco del paywall.

Gli abbonati annuali del 2013 sono stati 34.000, dei quali 9.000 hanno già deciso di rinnovare anche per il nuovo anno. 28.000 invece gli utenti che, raggiunto il limite di lettura gratis, non hanno deciso di abbonarsi, dimostrazione di come ci siano margini di crescita nel bacino di lettori del blog.

Nel grafico che sintetizza l’andamento delle revenue mensili del blog da notare come, dopo leggero ribasso dei mesi estivi, ottobre abbia segnato un notevole balzo in virtù della crisi del debito degli Stati Uniti che, proprio in autunno, ha innescato un acceso un dibattito al Congresso in grado di stimolare l’interesse degli utenti alle considerazioni della redazione su quanto stava avvenendo sulla scena politica.

Un’ultima considerazione. Nel suo messaggio di fine anno Sullivan scrive:

[…] we’ll finally have a solid basis for a ongoing, entirely-online blogazine with no sponsored content and (so far) no advertizing […]

L’utilizzo dell’espressione “so far” preannuncia probabilmente qualche novità nella testata. Il modello attualmente alla base del The Daily Dish potrebbe infatti declinarsi a breve in due versioni: da una parte, la fruizione gratuita per tutti gli utenti con i contenuti affiancati dalla pubblicità, dall’altra l’edizione libera dall’adv per gli abbonati.

Il primo anno si concluso molto bene, ripetersi e mantenere in piedi il progetto redendo solida la base di lettori non sarà certo facile (se dai 34.000 abbonati togliamo i 9.000 che hanno già rinnovato e immagininamo che i 25.000 restanti siano utenti interessati al supporto annuale con il blog, questi rappresentano circa 500.000 dollari, più della metà degli incassi dell’anno, non dovessero continuare a supportare la testata, sarebbe un bel problema!).

Con la speranza che il progetto continui ad avere un seguito, non posso che augurare ad Andrew e al suo staff un 2014 ricco di (nuove) soddisfazioni.

OverBlog, l’oltre social della blogosfera

Il termine web-log iniziò ad essere utilizzato a partire dal 1997 (bisognerà aspettare due anni solo perché la parola venga abbreviata in blog!), all’inizio erano liste di link sviluppatesi poi successivamente in diari virtuali sempre più multimediali. Sono passati ormai molti anni e anche grazie ai servizi di gestione gratuiti i blog sono diventati un fenomeno diffuso attirando non solo geek ma anche giornalisti, politici, professori, sportivi e utenti “comuni” desiderosi di dire la propria online. Con l’avvento dei social network – in particolare di strumenti come Twitter e Tumblr – in molti hanno intravisto la fine di quella “bolla” chiamata blogosfera capace di proporsi come spazio alternativo di informazione UGC (o, come direbbe qualche nostalgico delle rivoluzioni liberali, dal basso) e di attirare anche l’attenzione di motori di ricerca e responsabili marketing.
Il mio primo blog risale a metà dei primi anni Duemila quando, da semplice appassionato del web, desideroso di proporre i miei giudizi su film, libri e mostre a una platea potenzialmente enorme aprii un blog su Windows Live Spaces per rendere pubbliche le mie recensioni con la speranza potessero tornare poi utili a qualcuno (decisi di puntare sin da subito sulla condivisione). Evolvendomi come utente e come blogger ho sentito poi l’esigenza di passare su una piattaforma più completa e “professionale” che potesse aiutarmi a rendere il mio spazio una vera e propria vetrina di idee, esperienze, scoperte. E nonostante l’avvento di Facebook e affini la mia passione verso il blog non si è per nulla esaurita, anzi (viceversa il tempo è sempre più tiranno, se riesco a scrivere un post a settimana posso ritenermi soddisfatto).
Nonostante i continui miglioramenti tuttavia, da blogger ultimamente sentivo la necessità di un nuovo rinnovamento, di dare una spolveratina al mio spazio rendendolo più attuale e in sintonia con i tempi. Per questo motivo, da alcuni giorni, ho deciso di testare una nuova piattaforma di blogging, OverBlog. La nuova versione italiana (ancora in beta, rilasciata ad inizio settimana dopo il successo del BlogWorld Expo 2012), presenta quello che a tutti gli effetti potrebbe essere il futuro più prossimo dei blog: il social hub. Il blog, in parole povere, diventa una sorta di raccoglitore di vari contributi multimediali (status, post, foto, video, check-in…), acquisisce cioè una multidimensionalità multicolore che prima con i soli testi linkabili non poteva avere.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=I0yzypzww6w&w=440&h=360]

Basta infatti scegliere di sincronizzare i social network più utilizzati (nel mio caso Twitter e Instagram) ed ecco in un’unica timeline fondersi gli ultimi tweet, le immagini “filtrate”, gli articoli più recenti. Il tutto attivabile in maniera semplice, immediata, con la possibilità di filtrare i propri messaggi (scartando, ad esempio, i re-tweet o le risposte ad altre conversazioni) e di rendere ai lettori la navigazione tra contenuti ricca quanto facile. In attesa della nuova versione (il cui rilascio è previsto dopo l’estate) che supporterà funzioni di revenue share, un’app mobile per lo streaming video, statistiche e nuovi layout grafici, non resta che iniziare a testare le possibilità di questo nuovo social-blog.

Pay a Blogger Day, il giorno dopo…

Lo scorso 29 novembre è stato il Pay a Blogger Day una bella iniziativa che ha saputo attirare le attenzioni di molti utenti. If you enjoy reading blogs, give a little back – at least one day a year pay a blogger: questa l’idea alla base della campagna che, in estrema sintesi, si proponeva di sensibilizzare i lettori di blog a esprimere il loro apprezzamento verso i contenuti di uno spazio con un’azione concreta capace di superare i semplici commenti, i like e il generico sharing nei vari social network. Quale? Una donazione. O meglio una microdonazione. Ideatori della campagna sono i ragazzi del team di Flattr, realtà di Malmo specializzata nel cosiddetto social micro-payment system che ha elaborato una modalità tramite la quale supportare chi crea contenuti di valore (il termine flatter in inglese significa adulare ma anche donare). Lo strumento è utile sia per gli editori (siano essi blogger, musicisti, programmatori, fotografi, eccetera) che possono aggiungere un bottone tramite il quale raccogliere delle donazioni sia ai lettori che avranno così modo di premiare i loro autori preferiti. Ovviamente la stessa persona può vestire i panni sia del creatore sia quelli del fruitore di contenuti.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=9zrMlEEWBgY&w=440&h=360]

Il funzionamento è davvero elementare: registarsi al sito equivale ad aprire una sorta di conto virtuale nel quale depositare del denaro. Alla fine di ogni mese poi, la quota che l’utente avrà indicato come totale delle sue donazioni, verrà equamente distribuita in base alle volte in cui ha cliccato sul pulsante Flattr dimostrando l’intenzione di riconoscere all’autore del contenuto un piccolo corrispettivo in denaro (l’esempio della torta del video ufficiale qui sopra rende benissimo l’idea).
Da blogger non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione e così mi sono subito registrato al sito e ho fatto in modo di aggiungere, sotto ogni mio post (quindi anche questo), vicino ai tasti di condivisione, anche il bottone Flattr dando così modo ai miei “venticinque lettori”, nel caso volessero premiarmi, l’opportunità di riconoscermi una piccola donazione. Non mi illudo di certo sulle cifre ma sono molto interessato allo sviluppo dello strumento che non propone una sorta di “vendita con libera donazione” come successo, ad esempio, con i Radiohead per l’uscita di In Rainbows ma invece rovescia la prospettiva permettendo al fruitore di esprimere con una microdonazione il proprio apprezzamento verso il materiale proposto comunque free senza alcuna richiesta.
Qualcuno ci tiene a precisare come un blog si aggiorni con contributi audio-foto-video per passione non (solo) per lucro. Ma fare in modo che chi legge possa dimostrare concretamente il gradimento verso l’operato di chi ha realizzato il contenuto, senza alcun obbligo e in maniera decisamente democratica, mi sembra una bella opportunità. Support web great content!

[update: dopo un solo giorno dall’installazione del pulsante flattr ho ricevuto la mia prima donazione, che bello!]

Il mio Party 10 e Lode

party10elodeLo scorso venerdì ho avuto il piacere di partecipare, nella splendida cornice di Villa Necchi Campiglio (una location, giusto per rimanere in tema, da 10 e lode!), all’evento organizzato per presentare, in maniera diversa e informale, i nuovi frullati by Chiquita. Una serata piacevole per un’inizitiva legata a tre macrotematiche: gusto, grazie a un buffet davvero fornito, simpatico mix tra cucina tradizionale e sperimentazioni nouvelle cusine (cito su tutti il riso alle fragole e gli spiedini con frutta e formaggi), benessere, in virtù dell’area shiatsu e della nutrizionista presente “in sala” e tendenze con il Knit Point, lo spazio interviste/computer/wifi e la “zona aperitivo” nella quale rinfrescarsi all’aperto con un con cocktail ammirando lo splendido giardino e l’invitante piscina illuminata. Circa il prodotto, ho “testato” il frullato Lampone – Melograno ed ecco le mie considerazioni: buono, sano, fatto con sola frutta e forse per questo un po’ difficile da bere tutto d’un sorso (personalmente avrei realizzato una confezione più ridotta e pratica, anche perchè in tutta sincerità, se fossi assetato, il frullato non sarebbe la prima cosa a venirmi in mente per placare la sete). L’aspetto wiki è forse quello che, almeno ai miei occhi, è un po’ mancato: si sono – inevitabilmente – creati tanti piccoli microgruppetti ma nessun momento (introduzione della serata a parte) di larga partecipazione e condivisione e, per un blogger neomilanese con sempre grandi aspettative come il sottoscritto, compilare a fine serata la scheda “suggerimenti” è risultato a ben vedere un po’ riduttivo. [la mia foto ha immortalato xlthlx con Miss Chiquita]

Zero Comments, teoria critica di Internet

zero_commentsZero Comments – Teoria critica di Internet ha da subito attirato la mia attenzione. Il nuovo libro di Geer Lovink è diviso in due macrotematiche: da una parte analizza il cosiddetto Web 2.0 con particolare focus sui blog, e dall’altra affronta l’argomento New Media Art, lo strano connubio tra arte e tecnologia digitale. La parte che mi ha maggiormente interessato è stata la prima. Non me ne vogliano gli esponenti delle ultime esplorazioni di computer e ambienti virtuali, ma i primi capitoli, ricchi di aneddoti e considerazioni circa la blogosfera, sono risultati più affini ai miei interessi (lavorativi e non). Dato per assodato l’assioma di Ian Davis per cui il web 2.0 è “un’attitudine, non una tecnologia“, il testo indaga sull’idelogia del free e sul modo con il quale gli strumenti della Rete stiano modificando l’accesso all’informazione (molto interessante per esempio il fenomeno dei “shocklog” olandesi). Argomenti decisamente complessi ma, almeno per il sottoscritto, di sicuro appeal. Il saggio, tramite una sorta tavola rotonda su carta, affronta la teoria generale del blog, un’analisi che cerca di interpretare la blogosfera e gli utenti che confrontandosi tra loro contribuiscono ad accrescerla di minuto in minuto. Qual è l’impulso che sottende i blog? Nichilismo? Cinismo? Vanità? Contro-cultura o conservatorismo? In che modo i blog determinano il sociale che li circonda? A queste e altre domande il libro tenta di dare un risposta, restando su una sfera prettamente teorica e, forse, alla fine un po’ confusionaria in quanto strutturata come un vasto puzzle di tanti contributi diversi tra i quali è facile perdere il filo (anche perchè le conclusioni vengono spesso lasciate ai lettori). Un libro molto “filosofico” insomma – corredato di Glossario – per adetti ai lavori, interessante ma a tratti di non semplicissima lettura.

L’ultima notte dell’anno? Con Blogstar Game

blogstarNon posso non segnalare per chi come il sottoscritto vede i giorni passare e le idee originali per i regali natalizi continuare a latitare, la riproposizione del mitico Monopoly in versione Blogstar. Le regole di massima del gioco da tavolo rimango le stesse: i partecipanti, da 2 a 6, tirano il dado e avanzano sul tabellone mettendo alla prova le proprie capacità e la propria fortuna alla conquista della blogosfera. Lo scopo del gioco infatti è quello di accomulare popolarità attraverso l’acquisto, la cessione e lo scambio di blog con lo scopo di diventare il giocatore più celebre e guadagnare così la palma del blogger più influente. Da leggere anche se non si è interessati al gioco, i file (scaricabili gratuitamente in versione pdf, come tutte le altre componenti) degli imprevisti e delle opportunità. Complimenti davvero, questa versione è davvero una chicca, recupero subito dadi e amuleti e tento di scalare la classifica.

Ora è certo, sono un blog addicted

addicted_2_bloggingDopo aver scoperto grazie ai test di Facebook su personalità & inclinazioni  il colore che più mi rappresenta, il film che mi indentifica, il lavoro che sarei portato a fare, il personaggio storico che avrei potuto essere, la mia vera squadra del cuore e molti altri aspetti nascosti quanto inaspettati (??) mio carattere, navigando nella Rete alla ricerca di risposte e comprensione del mio io, mi sono imbattuto in How Addicted to Blogging Are You? un test di 14 domande che hanno misurato la mia propensione verso quella nuova formula comunicativa chiamata blog, ormai appendice del mio pensare-ergo-essere. Il dato è inconfutabile, sono portatore sano di quella forma virale che mi porta ad utilizzare e fruire dei blog per leggere e commentare ciò a cui mi interesso. Domande senza risposta continuano a frullarmi nella testa: che conseguenze avrà questa mia attidudine verso i web log?